IL MOBBING:
CONFLITTI IN AZIENDA
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PARLIAMO DI…
Una problematica che crea non poche
difficoltà a chi deve gestire le risorse umane in un’azienda.
Riflessione sull’argomento…
Di Marco ANNUNZIATA
Spalle ricurve, mani sudate,
pallore cadaverico, salivazione azzerata: il Ragionier Ugo Fantozzi, relegato in
un sottoscala dal tirannico “Megadirettoregalattico”, è il più famoso esempio di
“mobbizzato” d’Italia.
Probabilmente non ha mai saputo di esserlo, perché negli anni in cui le sue
disavventure imperversavano sugli schermi, la persecuzione sul posto di lavoro
non rappresentava ancora un fenomeno in grado di causare danni alla salute dei
lavoratori.
La
maggior parte degli individui trascorre una considerevole parte della propria
esistenza lavorando assieme ad altre persone, con alcune delle quali ha attività
e interessi in comune anche fuori dal contesto lavorativo e le stime statistiche
ci informano che, solamente un quarto dei nostri compagni di lavoro sono anche
amici con i quali scegliamo di passare il “nostro” tempo libero.
I
rapporti di lavoro sono comunque estremamente importanti e, se fondati sulla
reciproca stima, costituiscono una immensa fonte di soddisfazione e sicurezza
emotiva, in caso contrario, se la fiducia viene meno l’ambiente di lavoro può
essere motivo di disagio, di insoddisfazione e conflitto.
All’inizio degli anni ottanta, Heinz Leymann, psicologo tedesco, illustro le
conseguenze neuropsichiatriche per chi è esposto ad un comportamento ostile da
parte dei superiori e dei vicini di scrivania.
Nel corso
della sua carriera egli ha curato circa 1300 lavoratori vittime di soprusi sul
posto di lavoro e le sue tesi si diffusero rapidamente in tutto il nord Europa,
conquistando credito soprattutto in Germania e Scandinavia.
Con il
temine di mobbing (dal verbo inglese to mob che significa assalire o aggredire)
si individua una forma di pressione psicologica, esercitata attraverso continue
vessazioni a danno dei più deboli.
Il
soggetto passivo di questo atteggiamento (definito mobbizzato) si vede
emarginato, dequalificato, offeso e schiacciato dall’aggressore (definito mobber)
che non sempre concide con il datore di lavoro ma, spesso, è rappresentato dai
superiori o dai colleghi.
L’obiettivo di questo comportamento è sempre distruttivo e le conseguenze
possono essere devastanti.
Tutti gli
individui prima o poi subiscono ingiustizie sul posto di lavoro, ma non per
questo vittime del mobbing: infatti, le divergenze di opinioni e le discussioni
animate sono aspetti inevitabili di un sistema aziendale, quando le azioni sono
ripetute sistematicamente la situazione assume connotazioni allarmanti e
difficili da gestire.
Il
soggetto viene danneggiato sia psicologicamente che fisicamente, ne viene minata
l’autostima, pregiudicandone rendimento e capacità lavorativa.
Il
fenomeno è molto complesso, gli “attori” non seguono criteri univoci, e il
ventaglio di strategie e metodologie che l’aggressore adotta sono a dir poco
diaboliche trattandosi perlopiù di abusi sessuali, di molestie psicologiche, di
diffusioni preordinate di calunnie, di ingiustificata discriminazione nella
carriera professionale o comunque azioni che generano risvolti economici, quali
la sospensione e il licenziamento del mobbizzato.
Tratto
caratteristico della vittima è il forte isolamento che lo fa sentire incompreso
e debole, non riuscendo a trovare una giustificazione per ciò che subisce.
Il mobber
può avvalersi di numerosi motivi per perpetrare questa pressione: paura di
essere rimosso, ansia di carriera, antipatie personali o pregiudizi
etnico-religiosi che lo inducono sovente ad allearsi con altri per tentare di
rendere la vita insopportabile a più di una persona.
Sulla
scorta delle indicazioni di Leymann, Harald Ege, psicologo del lavoro e massimo
esperto di persecuzioni lavorative, ha individuato alcune fasi di sviluppo del
mobbing:
1)
CONFLITTO MIRATO: si individua la vittima e si
indirizza l’attenzione su di essa (per esempio, oggetti che spariscono
inspiegabilmente dalla scrivania, variazione improvvisa del turno di lavoro,
ecc.);
2)
START DEL MOBBING: gli attacchi del mobber non
provocano ancora sintomi evidenti, ma lavorano con capillare insistenza (per
esempio iniziano i pettegolezzi ingiustificati, si estromette il soggetto dalla
conversazione, lo si taglia fuori da comunicazioni aziendali, si abbonda in
rimproveri per delle piccolezze, ci si dimentica di invitarlo alla gita
aziendale e di fare il regalo di Natale ai figlioletti, ecc.);
3)
FASE PSICOSOMATICA: il soggetto manifesta i primi
sintomi patologici (per esempio colite nervosa, gastrite, frequenti emicranie,
ipertensione arteriosa, insonnia, depressione, ecc.);
4)
ABBANDONO DEL MOBBIZZATO: rappresenta il problema
ultimo, ossia l’uscita dal mercato tramite dimissioni, trasferimento d’autorità
o licenziamento che qualche volta ha esiti drammatici tanto da condurre al
suicidio o omicidio-vendetta nei confronti dell’aggressore.
Il
mobbing è ormai considerato un problema sociale, e la sua potenzialità
disgregatrice del tessuto sociale è ormai evidente, non è un caso che abbia
avuto particolare seguito proprio nell’ultimo decennio, periodo nel quale si è
assistito ad una rapida trasformazione del mondo aziendale, ad una sempre
maggiore flessibilità richiesta alle professioni, con una esasperante tendenza a
ridurre i costi e ad usare in modo improprio il turnover. Il fenomeno non
risparmia nessun ambito lavorativo, anche se colpisce soprattutto il terziario,
i quadri, gli impiegati con un’età media intorno ai quarantacinque anni e un
buon livello di istruzione, senza particolari distinzioni di sesso.
La nostra
“Carta” costituzionale, considera la salute come un bene primario
“giuridicamente protetto” pertanto “diritto inviolabile” di ogni cittadino e
sulla base di questo principio alcuni parlamentari, pur nella consapevolezza
della difficoltà di individuare con precisione i casi di mobbing, hanno
presentato dei progetti di legge, che lungi dal pretendere di proporre soluzioni
risolutive del problema, mirano piuttosto a suscitare l’attenzione e stimolare
il dibattito, su un tema che incide pesantemente sulla dignità e sull’integrità
dei soggetti che ne sono coinvolti ed è in virtù della sentenza n° 184 del 1986,
che la Corte Costituzionale ha indotto alla rilettura dell’intero sistema
codicistico dell’illecito civile in materia di danno alla persona, introducendo
la figura del “danno biologico” e richiamando il concetto più volte trattato a
livello dottrinale e accademico del cosiddetto “danno esistenziale”, fattispecie
che hanno altresì caratterizzato il Decreto Legislativo 23 febbraio 2000, n° 38
emanato per favorire il riordino dell’INAIL.
Il
mobbing non colpisce solo i diretti interessati, ma “raddoppia”, in quanto rende
difficili i rapporti con i familiari, che si configurano come vittime secondarie
a loro volta risarcibili, così come stabilito dalla sentenza n° 1223/2000 del
Tribunale di Milano (c.d. sentenza del “danno riflesso”).
Le
maggiori difficoltà si incontrano in sede processuale, quando si deve stabilire
il riconoscimento del diritto alla risarcibilità dei danni conseguenti, infatti
a causa delle reticenze dei colleghi nel testimoniare gli elementi probatori
sono spesso di difficile acquisizione, anche se, una volta accertata in sede
medico-legale l’attendibilità del danno biologico e l’illegittima condotta
datoriale e dei colleghi, tale danno è ritenuto a tutti gli effetti risarcibile.
Ultimamente, per buona pace del mobber, la Suprema Cassazione con sentenza n°
143 del 2000, ha sottolineato con decisione la possibilità di licenziare il
lavoratore che non è in grado di provare con certezza il comportamento
persecutorio nei suoi confronti, ma la sentenza ha già suscitato polemiche e
apprensioni tra le vittime e le associazioni che le tutelano.
Infatti
di recente si sono costituiti numerosi circoli a difesa dei molestati, che non
si limitano ad affiancare gli individui ma forniscono un concreto aiuto
sostenendo le eventuali spese processuali nel caso di contenzioso di fronte
all’Autorità Giudiziaria, e sono stati attivati anche corsi per difendersi dal
mobbing, in collaborazione con gli esperti delle cliniche psichiatriche e dei
centri di disadattamento lavorativo.
Ovviamente, come in ogni sistema democratico che si rispetti, non mancano le
voci fuori dal coro, costituite da quelli che personalmente definisco
“darwiniani del mal d’ufficio” cioè coloro i quali vedono il mobbing come uno
straordinario strumento di selezione “che rende forti e ripulisce le aziende dai
deboli”.
A loro
avviso non esiste persona di successo che non abbia incontrato e superato il
“problema”, che rappresenta solo l’ultima trovata della filosofia buonista di
chiara matrice sindacale. Per quanto condivisibile per taluni aspetti, questo
pensiero rivela superficialità ed una approssimativa conoscenza della natura
umana.
Le
riflessioni su quest’argomento continueranno ad interessare a lungo gli
psicologi del lavoro e i magistrati, ma i tempi sono difficili, e le
amministrazioni militari e civili dovranno fare in modo di predisporre
tempestivamente dei sistemi di sensibilizzazione interna, dovranno prestare
orecchio alle lamentele più o meno legittime del personale cercando di
incrementare la formazione nel campo della gestione dei comportamenti anomali,
che al momento rappresenta l’unica risorsa disponbile per arginare l’ondata di
terrore che va diffondendosi rapidamente.
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