On.
Elettra Deiana - Prc
Decostituzionalizzazione della guerra: un
processo in atto
Le vicende succedutesi nel breve arco di tempo
intercorso tra il giorno del convegno in titolo, che abbiamo
organizzato per discutere le proposte governative di modifica dei
codici penali militari, e quello a cui arriva a compimento, con il
presente fascicolo, il lavoro di pubblicazione degli atti di quello
stesso convegno, costituiscono l’ennesima riprova dello scollamento
grave e forse irreversibile che si è prodotto tra la "questione
della guerra" e il dettato costituzionale, tra il crescente potere
decisionale che l’esecutivo si va attribuendo per quanto riguarda il
ricorso all’uso della forza militare e il complesso meccanismo
istituzionale che in Costituzione regola tale materia, sottraendola
decisamente al "potere in prima istanza" del governo. Rappresentano
infatti, queste ultime vicende, un’ulteriore e assai negativa
accelerazione dei radicali processi ormai da tempo avviati che
possiamo definire di decostituzionalizzazione della guerra, cioè di
depotenziamento e sostanziale annullamento del dettato
costituzionale e perciò di pressoché ormai definitiva sottrazione
della materia ai vincoli costituzionali. Va a questo proposito
precisato che la lettera degli articoli della Costituzione
riguardanti il ricorso alla forza militare (11, 78 e 87 ) nonché la
ratio ispiratrice di quegli articoli e i meccanismi istituzionali
posti a presidio del loro ottemperamento, ne configuravano un
carattere fortemente prescrittivo e vincolante. La materia relativa
al ricorso all’uso della forza militare, stando alla Costituzione
del 1948, si presenta infatti chiaramente sottratta al potere
diretto dell’esecutivo, configurandosi come non disponibile alla
messa in atto di strategie di politica internazionale, di questo o
quel governo, che si sottraggano agli intendimenti costituzionali.
Il governo, secondo il dispositivo della legge fondamentale, è
chiamato ad assumersi responsabilità in questa materia secondo
finalità (articolo 11) e modalità (articoli 78 e 87) assai precise e
circostanziate protette dalla sovranità del Parlamento, il quale a
sua volta deve stare al limite della Costituzione. Siamo oggi in
un’altra epoca storica e la portata del mutamento smbra lontana
dall’essere intesa in tutta la sua gravità.
L’operazione militare Antica Babilonia,
confezionata e presentata in Parlamento e all’opinione pubblica come
l’ennesima, meritoria missione di peace keeping, destinata, nelle
argomentazioni del presidente del consiglio e dei ministri
competenti, a valorizzare nel mondo il ruolo politico dell’Italia,
ha rappresentato un vero e proprio salto di qualità negativo nella
direzione di un più generale e evidente depotenziamento del vincolo
costituzionale. Essa va inserita infatti in un contesto
internazionale caratterizzato dalla strategia della guerra
preventiva, dall’unilateralismo degli Usa, dalla campagna di
svilimento e di delegittimazione delle Nazioni Unite e del diritto
internazionale che hanno fatto da cornice alla preparazione e alla
conduzione della guerra contro l’Iraq. Il nostro Paese è parte in
causa in tutto questo. La partecipazione all’impresa militare in
Iraq ha comportato e continua a comportare per l’Italia una pesante
responsabilità sia diretta, come forza di occupazione di una
porzione del territorio iracheno, sia indiretta, per l’avallo
fornito prima all’intervento anglo-americano e poi alla sanguinosa
gestione statunitense del dopoguerra. Le forze armate italiane sono
state coinvolte direttamente in numerosi episodi bellici, hanno
disgraziatamente subito perdite e disgraziatamente ne hanno
inflitte. Molte. E hanno dovuto far ricorso, i militari italiani, a
tattiche di controllo del territorio in tutto e per tutto simili a
quelle tipiche di una forza occupante, anche con l’ausilio, per il
crescere della tensione nella provincia di Nassirya, di mezzi
corazzati da combattimenti non previsti nella primitiva versione
della missione.
La decostituzionalizzazione della guerra è dunque
in primis fattuale, pratica. Sta nella guerra che si fa: fuori e
contro i vincoli della Carta del ‘48. E’ poi teorica e consiste
nella ridefinizione stravolgente dei paradigmi stessi del concetto
di guerra e nella riconfigurazione del Nemico – il terrorismo
internazionale – che viene rigorosamente sottratto all’appartenenza
a un preciso territorio, a una precisa identità statuale ma nello
stesso tempo è identificabile come operante in qualsiasi territorio
e all’interno di qualsiasi entità statale. Può anzi essere una
qualsiasi entità statale catalogata come nemica da chi detiene oggi
il potere di definire il bene e il male, la linea di confine tra
l’uno e l’altro. I rogue states. Quindi la guerra può essere
rivolta ovunque, a seconda delle intenzioni e delle opportunità
individuate dal dominus mondiale. Gli Stati Uniti d’America.
Tende infine, la decostituzionalizzazione della
guerra, a diventare giuridica, normata per legge. Passaggio decisivo
e definitivo perché l’articolo 11 venga consegnato all’archivio
storico delle cose che furono è infatti che la guerra sia
"normalizzata", cioè resa "normalmente" accettabile, attraverso la
norma, come variante della politica. Non più quell’impegnativo
"ripudio" che la rendeva inaccessibile alla coscienza, inibita alla
politica. Ma una nuova codificazione, che infrange i confini tra il
concetto di pace e quello di guerra, che crea robuste reciprocità
tra l’azione di polizia internazionale della nuova Nato e le
"proiezioni" belliche mirate e stanare "i terroristi" e che
istituisce un indeterminato e indefinito "tempo di guerra" a fronte
di un altrettanto indeterminato e indefinito "pericolo terrorista".
L’ideologia del para bellum si vis pacem portato alle estreme
conseguenze. La guerra preventiva dei neocon a cui l’Italia
si è accodata.
Questo è il nodo di fondo sotteso alla
discussione intorno al provvedimento riguardante la riforma dei
codici militari su cui è stata avviata la discussione in Senato e
intorno a cui abbiamo voluto organizzare questo convegno.
La proposta del governo è del tutto in linea con
lo spirito dei tempi, basta leggere la relazione introduttiva da cui
emerge con lampante chiarezza l’obiettivo politico del
provvedimento: fornire un contributo normativo, dunque una
legalizzazione, al nuovo corso della guerra e alle sue finalità.
Tutto l’articolato è d’altra parte costruito in tal senso.
Per questo una tale materia, al di là degli esiti
ancora incerti del suo iter parlamentare, dovrebbe essere sottratta
all’esclusiva competenza degli specialisti e entrare a far parte
della discussione politica di quante e quanti si oppongono al nuovo
corso delle cose.
Col nostro convegno abbiamo voluto dare un
contributo in questa direzione.
On. SILVANA PISA – Ds
Vogliamo allargare il confronto – al di là delle
aule parlamentari – sul disegno di legge Martino-Castelli che
attribuisce al Governo la delega per una revisione generale dei
codici penali militari di pace e di guerra e per un adeguamento
delle norme dell’ordinamento giudiziario militare.
I principi sono fissati in un disegno di legge in
discussione al Senato su cui ci interessa – prima del passaggio alla
Camera – confrontare e raccogliere opinioni.
Che la materia trattata dai codici penali
militari del ’41 fosse da rivedere non è una novità ed è dimostrato
dai numerosi progetti di legge e persino da vere e proprie leggi che
in questi anni hanno – per parti o in modo più organico – modificato
parte dell’impianto della normativa originaria.
I codici del ’41 dimostrano la loro età e la loro
inadeguatezza nei confronti del cambiamento del contesto
internazionale e del rispetto della Costituzione repubblicana;
risultano datati anche nei confronti delle modifiche intervenute
nelle strutture e nelle esigenze delle Forze Armate, tanto più oggi
che ci avviamo - personalmente con non pochi dubbi - alla
sostituzione della leva obbligatoria con l’esercito professionale;
vanno anche raccordati con il nuovo codice di procedura penale .
Mentre il codice penale militare di pace è stato
nel corso degli anni modificato con diversi e incisivi interventi
legislativi (legge 167 del 23 marzo 1956 dal titolo "Modificazioni
al Codice penale militare di pace ed al Codice penale", legge
180 del 7 maggio 1981 "Modifiche all'ordinamento giudiziario
militare di pace", legge 230 dell’8 luglio 1998 "Nuove norme in
materia di obiezione di coscienza" e legge 689 del 26 novembre 1985
"Modifiche al codice penale militare di pace") , quello di guerra è
rimasto complessivamente immutato (a esclusione della doverosa
abolizione della pena di morte: legge 589 del 13 ottobre 1994) con
l’idea di fondo che riguardasse una realtà – la guerra – remota e da
evitare.
Quest’ultima annotazione tocca il punto politico
più delicato rispetto all’attualità del dibattito nel nostro Paese.
Perché è vero che si possono fare osservazioni
verso un disegno di legge che tende a "militarizzare" e a "corporativizzare"
in modo non necessario né convincente quella che nel codice penale
militare di pace era l’amministrazione della giustizia, ampliandone
le competenze (basta per qualificare un reato come militare, e
quindi a giustificare il ricorso alla magistratura militare, il solo
fatto di essere commesso da militari?), ma il punto più fragile
resta la materia del codice penale militare di guerra: preceduta da
un dibattito costituito da un mix di "nuovo" e di "antico".
Il "nuovo" è determinato dal mutamento dello
scenario internazionale: la fine dell’equilibrio bipolare, l’unilateralismo
preventivo dell’attuale amministrazione Usa, la fragilità delle
istituzioni internazionali che provoca l’indebolimento
dell’applicazione delle sue norme, il cambiamento di senso –
politico e culturale – del confine tra pace e guerra.
A quest’ultima modificazione ha contribuito anche
il nostro Paese – dalla guerra in Kossovo in poi – utilizzando
"missioni militari di pace" e "missioni umanitarie all’estero"
(regolate dalla legge 331 del 14 novembre 2000) come grimaldello –
ben al di là degli ordinari compiti di difesa nazionale e di
rispetto dei trattati sottoscritti – per bypassare la nostra
costituzione con la conseguenza di seminare un nuovo devastante
senso comune.
L’elemento "antico" è ancora più inquietante:
l’avere riesumato per le missioni del contingente italiano in
Afghanistan e successivamente per l’Iraq il già citato codice
militare penale di guerra del 1941 non più utilizzato dalla fine del
secondo conflitto mondiale.
Il governo Berlusconi l’ha richiamato con decreto
del dicembre 2001 convertito in legge all’inizio del 2002
accogliendo alcune modifiche indispensabili richieste
dall’opposizione: modifiche a tutela e garanzia delle popolazioni
civili che entrano in rapporto con i contingenti militari (abuso dei
poteri o violazione dei doveri inerenti allo stato di militare; atti
di tortura o altre condotte vietate dalle convenzioni
internazionali) e modifiche a garanzia degli stessi militari che
partivano per l’Afghanistan e della loro capacità operativa in
quanto il codice militare di pace era inadeguato alle condizioni di
ingaggio ed al contesto dell’Afghanistan.
Modifiche importanti, ma non sufficienti a
sgomberare il dubbio di costituzionalità nell’applicare a missioni
che si definivano di pace, il codice di guerra.
Conseguentemente dall’opposizione sono state
presentate pregiudiziali di costituzionalità (da Rifondazione
comunista per l’Afghanistan, dai Democratici di Sinistra per l’Iraq)
respinte dalla maggioranza.
Per molti di noi risultava una contraddizione che
schematicamente si può riassumere così: se si tratta di una missione
realmente di pace – ed è soprattutto il contesto a determinarlo –
non c’è necessità di applicare il codice militare di guerra (bastano
alcune modifiche alla legge sulle missioni all’estero per evitare di
lasciare senza tutela i soggetti deboli coinvolti); se invece la
missione è solo nominalmente di pace, ma comporta per il contesto,
per le regole d’ingaggio, per la catena di comando un uso delle armi
non meramente difensivo – e questa era ed è l’opinione di molti di
noi sulle fattispecie in oggetto – in questo caso ci troviamo di
fronte ad una violazione della carta costituzionale.
Si usa uno slittamento di senso: "forzare" la
costituzione contribuendo a creare un pericoloso precedente.
Il disegno di legge Martino-Castelli allarga la
strada così tracciata abbassando la soglia della distinzione tra
pace e guerra e rendendo possibile una sorta di introduzione
graduale delle leggi di guerra che aggira la procedura garantista
degli articoli 78 e 87 della Costituzione e ne intacca l’articolo
11.
Per qualunque tipo di missione (nella relazione
al disegno di legge si parla di "operazioni internazionali di
pacificazione o di uso della forza") per "adeguare le norme del
codice penale militare di guerra e graduarne l’applicazione, in
relazione alle esigenze connesse ai conflitti armati e alle
operazioni militari all’estero" si dilata la nozione di un
indeterminato tempo di guerra che giustifica l’adozione delle leggi
di guerra.
Insomma adottando il termine di "conflitto
armato" (più light rispetto a guerra) si applica la legge militare
di guerra anche senza che le camere deliberino lo stato di guerra
con buona pace degli articoli 78 e 87 della Costituzione.
La costruzione del nuovo ordine mondiale e il
ricorso alla guerra preventiva, da esportare con spirito
"missionario" , come risulta da alcuni passaggi della relazione
introduttiva ("dove più necessitano gli interventi di pace, dove
sembra non si conoscano più limiti alle atrocità") sottintendono che
l’obiettivo della revisione dei codici penali militari è quello di
offrire un contributo normativo, dall’interno, alla costruzione del
nuovo ordine globale e alle teorie della guerra permanente. Come
dire: normare l’emergenza bellica per normalizzare la guerra.
Ne risulta una dilatazione sorprendente e abnorme
che viene estesa anche (art. 4, comma 1 lettera i del disegno di
legge) al caso di "conflitti interni prolungati fra le Forze armate
dello Stato e gruppi armati organizzati;" non solo: il
rappresentante delle Forze Armate che eventualmente avesse commesso
un reato in simile contesto non verrebbe giudicato dalla
magistratura ordinaria ma dal Ministro della Difesa.
Ho parlato dei punti più salienti, ma altri se ne
potrebbero citare:
a) Innanzitutto la fine del controllo
istituzionale sull’entrata in guerra del paese: per il nostro
ordinamento democratico la dichiarazione dello stato di guerra è
soggetta al controllo delle due più alte istituzioni: specifica
approvazione delle camere seguita dalla dichiarazione del Presidente
della Repubblica: ora in base al ddl si ha una codificazione del
concetto di guerra permanente e della non eccezionalità dell’entrare
in guerra.
b) è estremamente pericoloso che come dice la
relazione: "le missioni e l’impiego operativo delle Forze armate
all’estero nell’ambito di operazioni internazionali di pacificazione
o di uso della forza … come la prassi ha dimostrato, non richiedono
il passaggio da uno stato di pace a uno di guerra". Vale a dire che
è la "prassi" delle nuove guerre economiche di aggressione a dettare
il quadro giuridico e non il contrario.
c) Insomma lo scenario che questo disegno di
legge prefigura è preoccupante e sconcertante al tempo stesso: una
sorta di super legge (legge speciale?) che con la pretesa di dare
organicità ad una materia complessa compie delle forzature – non
solo giuridiche – seriamente pericolose .
Mi auguro che l’opinione pubblica e i media
intervengano in questo dibattito – tuttora clandestino e per addetti
ai lavori – avvertendo l’allarme e lo stravolgimento giuridico e
sostanziale che questo provvedimento comporterebbe.
Dott. PAOLO SCAFI
Sostituto Proc. della Repubblica c/o Tribunale
Militare di Torino
Desidero innanzitutto ringraziare gli
organizzatori dell’incontro per avermi invitato a partecipare e ad
intervenire.
Sono ormai tredici anni che svolgo il mio
servizio quale sostituto procuratore militare a Torino e ritengo,
grazie a questa esperienza di magistrato militare, di poter fornire
alla discussione qualche argomento di carattere operativo, frutto di
mie riflessioni sulla mia attività e sui problemi pratici incontrati
nel lavoro giudiziario di tutti i giorni.
Ovviamente, ripeto, nella mia relazione riporterò
osservazioni di carattere prevalentemente pratico, che però ritengo
comunque utili alla discussione.
Mi asterrò dal leggere il testo predisposto
distribuito nella cartellina, rimandando ad esso coloro che siano
interessati, e mi limiterò a richiamare alcuni aspetti che ritengo
più rilevanti.
Devo innanzitutto chiedere scusa se all'interno
della relazione scritta c'è un passaggio che, in maniera per me del
tutto inaspettata, ha urtato la sensibilità di taluni: mi riferisco
al punto in cui viene evidenziata l’inopportunità di passare alla
competenza degli uffici giudiziari militari, (che fino ad ora si
sono occupati solo di determinate fattispecie per di più ascrivibili
a militari di leva) reati molto delicati, situazioni criminose
complicate, fin qui perseguite dalla magistratura ordinaria.
Scrivendo questo non intendevo certamente
accusare i colleghi magistrati militari, e me stesso, di
incompetenza: volevo semplicemente sottolineare che quando alcuni
uffici giudiziari per anni e anni si sono occupati solo di una certa
materia, non discuto se più interessante, o più importante di altre,
ma comunque solo di una certa materia, non si potrebbe così
inopinatamente investirlo di un'altra serie di competenze
indubbiamente complicate, perché sarebbe come prendere la sezione
lavoro di un qualsiasi tribunale civile e all'improvviso passare i
magistrati ed il personale ausiliario che vi era assegnato ad un
lavoro del tutto diverso, dicendo agli interessati: da domani vi
occupate, che so, di diritto di famiglia.
Con questo vorrei rasserenare i colleghi che mi
hanno rimproverato, mostrandosi anche offesi di quanto da me
riferito.
A questo proposito, entrando subito nel merito
della questione, in relazione all'adeguatezza della struttura
giudiziaria militare a contrastare determinati fenomeni criminosi,
effettivamente nella relazione ministeriale al disegno di legge è
stato riportato che il giudice militare sarebbe "ben attrezzato".
Molto diverse sono però le indicazioni riportate
nella relazione annuale del Procuratore Generale Militare, dott.
Bonagura, qui presente, il quale invece - molto più
comprensibilmente e concretamente - proprio perché inserito nella
nostra realtà, si è mostrato preoccupato proprio di questo, e cioè
che obiettivamente si tratta di strutture giudiziarie le quali fino
ad ora solo occasionalmente e con molta difficoltà si sono occupate
di reati gravi di un certo tipo, quasi esclusivamente di (alcuni)
crimini di guerra. Nel momento in cui si viene a studiare un
progetto di riforma così radicale, si dovrebbe infatti tenere conto
anche delle capacità di questa struttura di affrontare il numero e
la tipologia di procedimenti che si vorrebbero riservare ad essa.
A questo riguardo mi sorprende molto il fatto che
nello studio della commissione ministeriale, che si è occupata
lungamente e comunque approfonditamente della questione, si sia
ignorato il dato numerico. Infatti nessuno, al Ministero della
Difesa, si è posto il problema su quanti saranno i procedimenti
penali che i nove tribunali militari - diffusi in maniera anche
abbastanza casuale sul territorio nazionale - saranno chiamati a
trattare dopo la riforma.
Noi sappiamo, dalle statistiche del Procuratore
Generale Militare, allegate alle relazione di cui parlavo prima, che
l'attuale carico di lavoro è veramente risibile, parliamo di nove
tribunali militari che in un anno hanno fatto, tutti insieme, 762
sentenze gip gup e 1000 sentenze dibattimentali, tre corti militari
d'appello che hanno sfornato solo 100 sentenze, parliamo di una
Procura Generale Militare di Cassazione che ha presentato le
conclusioni per la decisione di 41 ricorsi in un anno.
Questa struttura io voglio sperare che non sia
stata totalmente disoccupata, evidentemente era strutturata ed
organizzata, come preparazione non dei magistrati ma del personale
(spesso personale militare rimediato), su questo carico di lavoro.
Nessuno si è preoccupato al Ministero della
Difesa di dire: voi, da ora in poi, invece di 1000 procedimenti
l'anno ne avrete ben 10.000, 100.000, 50.000, 500.000 …, potrebbero
essere pochi, potrebbero essere troppi nessuno di noi lo sa!
Credo che ci siano degli strumenti di rilievo
statistico, a campione, che avrebbero potuto definire in maniera
molto precisa il nuovo carico di lavoro.
Ma il problema principale, peraltro, è a mio
parere quello ordinamentale: c'è una delibera del Consiglio della
Magistratura Militare del 3 dicembre '96, che è riportata nella mia
relazione scritta, ove il nostro organo di autogoverno aveva
evidenziato e sottolineato i motivi per i quali un ordinamento
giudiziario penale, con tutte le garanzie di indipendenza che la
magistratura militare tuttora ha, non può essere formato solamente
da 100 persone, motivi per i quali è impossibile concepire
l’autogoverno di 100 persone, perché vuol dire che 25 di esse hanno
incarichi direttivi, 5 di essi sono eletti per decidere della
carriera dei restanti 95…, vuol dire che tutti i magistrati militari
prima o poi faranno parte del Consiglio della Magistratura Militare,
e se ciò può essere una cosa positiva sicuramente per i singoli
magistrati, non lo è certamente per l’efficienza dell’ordinamento.
Quindi, con questa delibera del 3 dicembre '96,
lo stesso Consiglio della Magistratura Militare aveva auspicato che,
in sede di riforma della giustizia militare, non si prescindesse
"dal considerare anche i gravi inconvenienti che in via fatto
derivano da una strutturale inidoneità di una autonoma
organizzazione giudiziaria di dimensioni troppo esigue", e vi
risparmio la lettura del resto...
Come ampiamente illustrato in quella delibera, in
buona parte riportata nella mia relazione, un ordinamento così
piccolo ha causato delle tensioni, suscitando un sacco di problemi
già con un carico giudiziario relativamente basso e, soprattutto,
con procedimenti per lo più a carico di militari di leva, e che
quindi non avevano risvolti di potere, non comportavano riflessi di
natura politica, oserei dire: tremo, quindi, all'idea di cosa possa
succedere quando un ordine giudiziario così esiguo, autogovernato
con tante difficoltà, fosse chiamato ad occuparsi di vicende molto
più complicate e di molto maggiore rilievo: nella delibera del
Consiglio della Magistratura Militare che ho prima richiamato si fa
riferimento a noti episodi di denunce incrociate tra colleghi, cose
molto poco edificanti che succedono sicuramente anche nella
magistratura ordinaria, ma che in 100, come aveva spiegato lo stesso
Consiglio della Magistratura Militare, è più difficile superare,
perché ovviamente è più difficile allontanare le persone le une
dalle altre, per superare i contrasti personali…
Mi permetto poi di rappresentare come sia
attualmente in fase avanzata l'approvazione da parte delle camere
della riforma dell'ordinamento giudiziario ordinario. Per i
magistrati militari notoriamente sono vigenti le medesime norme, i
medesimi principi che governano l'ordinamento giudiziario ordinario.
Ognuno può avere un suo giudizio più o meno positivo sulla riforma
dell’ordinamento giudiziario ordinario attualmente in corso di
approvazione da parte delle camere: sarebbe però certamente assurdo
ipotizzare che detta riforma possa riguardare solo la magistratura
ordinaria e non quella militare, fin qui regolata dalla medesima
normativa.
Mi riferisco in particolare ad alcuni aspetti, a
mio parere più condivisibili, di quella riforma, ad esempio alla
temporaneità degli incarichi direttivi: nella magistratura militare,
dove gli incarichi direttivi rischiano di diventare a vita (perché
siamo talmente pochi che se un fortunato collega diventa Procuratore
Militare della Repubblica da giovane ci resta trenta, quarant'anni)
sarebbe ancor più necessaria una temporaneità di incarichi; è però
convinzione diffusa tra i colleghi che sarebbe impossibile estendere
tale istituto ad un organico così esiguo.
Non parliamo poi, passando ad argomenti un po'
più spinosi e controversi, dei concorsi e della selezione dei
magistrati ai fini della carriera.
Se dobbiamo applicare una normativa più
selettiva, per scegliere 25 capi ufficio tra 100 magistrati, mi
chiedo come si faranno questi concorsi, chi farà questi esami, come
possa un organo di autogoverno così piccolo essere veramente
indipendente nel gestirli.
Sarebbe sufficiente consultare il progetto di
legge approvato dal Senato in materia di ordinamento giudiziario
ordinario, per rendersi conto come tutte le novità che si vogliono
introdurre siano assolutamente inapplicabili alla giustizia
militare.
Come magistrato militare devo dire che non avrei
per niente piacere se alla categoria alla quale appartengo non si
applicassero quelle parti della riforma dell’ordinamento giudiziario
comune che - da un punto di vista corporativo – vengono giudicate
"più scomode": sarebbe come dire che tali norme "scomode" sono
destinate solo ai colleghi ordinari, ma a me no, perché sono un
magistrato di serie B oppure, che ne so, perché sono più affidabile
da un certo punto di vista… . Non riesco proprio a capire come si
possa concepire una soluzione del genere!
Per quanto riguarda la legislazione penale
militare di guerra,vi confesso trattarsi di un argomento di cui non
sono particolarmente esperto: sul punto nella relazione scritta ho
riportato alcune osservazioni. Ritengo che la più importante sia
quella sull'applicazione della legge penale di guerra
indipendentemente da una dichiarazione di stato di guerra da parte
delle camere.
Il Senatore Cirami, nella relazione alla
commissione che sta esaminando il nostro progetto di legge, ha molto
opportunamente sottolineato come sia molto incerta la distinzione
tra quando si può applicare il codice penale militare di guerra e
quando no, indipendentemente da una deliberazione delle camere, e
ciò diventa ancora più pericoloso, a mio parere, quando si parla di
uno stato di guerra interno, effettivamente già previsto dalla
normativa precedente ma in realtà mai applicato.
Si vorrebbe infatti confermare la possibilità di
applicare la legge di guerra nel caso in cui fazioni si combattano
tra loro all'interno dello Stato o prendano le armi contro lo Stato
stesso. Mi dicono gli esperti in materia che si tratta di istituti
previsti dalle convenzioni internazionali al fine di applicare
alcune norme penali di guerra a tutela di chi insorge contro il
governo legittimo, ma è anche vero che queste norme non si possono
applicare integralmente senza una delibera delle camere.
Mi riferisco in particolare ad una norma
veramente preoccupante che è quella riferita alla condizione di
procedibilità della richiesta del Ministro della Difesa, mi
riferisco al comma 1, lettera L n. 7, dell'articolo 4 del DDL 2483,
che vorrebbe subordinare la procedibilità per i reati militari
connessi all'esercizio di funzioni di comando in tempo di guerra,
con esclusione dei crimini di guerra, alla richiesta del Ministro
della Difesa.
In questa maniera, approvando la legge così
com'è, si prevedrebbe che in caso di guerra interna,
indipendentemente dalla proclamazione di uno stato di guerra da
parte delle camere, il comandante delle forze militari (e mi
permetto di ricordare che anche i Carabinieri sono militari) che
operano all'interno contro questi terroristi, contro coloro che
fanno queste insurrezione o questi moti di piazza, potrebbe essere
perseguito penalmente senza l'autorizzazione del ministro solo nel
caso di crimini di guerra, mentre per tutti gli altri reati egli
potrebbe essere perseguito solamente su richiesta del Ministro della
Difesa, ovvero colui, tra l'altro, che ha chiamato alla carica di
comando colui che deve essere giudicato in sede penale. Mi chiedo
poi che cosa avrebbero da ridire il prefetto e il questore in quelle
che sono situazioni tipo Genova, per fare un esempio, i quali invece
si troverebbero "abbandonati" alla mercè giudice ordinario, il quale
giustamente procede e fa quello che deve fare. Il generale dei
carabinieri a Genova, ove si ritenesse che si fosse trattato di una
situazione che giustificava l’applicazione della normativa penale di
guerra (non ho capito poi a chi sarebbe riservata la valutazione …),
solo lui, o il comandante dell'esercito eventualmente intervenuto,
sarebbe limitatamente perseguibile in sede penale, con un privilegio
assolutamente ingiustificato.
Si tratterebbe di introdurre privilegi fin qui
non vigenti, perché il codice del ‘41 prevedeva qualcosa del genere,
ma le disposizioni in materia erano ritenute abrogate.
E’ vero, la stessa norma prevede poi che lo stato
di guerra interno non si applichi nel caso di limitati disordini di
piazza, deve trattarsi di condizioni particolarmente gravi, diciamo
una situazione di grave agitazione dell'ordine pubblico, ma mi pare
una norma assolutamente pericolosa.
Questo era quello che intendevo riferire sullo
stato di guerra.
Aggiungo che, inoltre, in casi del genere si
vorrebbero introdurre alcune deroghe sotto il punto di vista
processuale, cioè ove si tratti di militari impiegati all'interno
per contrastare movimenti di piazza particolarmente violenti, si
vorrebbe applicare non solo la legge sostanziale di guerra (con
alcuni limiti), ma anche quella processuale.
A proposito della perseguibilità a richiesta del
Ministro della Difesa per i comportamenti tenuti dai comandanti
delle truppe, insisto sul fatto che, quantomeno per buon gusto, si
sarebbe potuto almeno attribuire il potere di richiesta al Ministro
della Giustizia, e non a quello della Difesa, il quale, ripeto, è
colui che ha nominato il comandante che deve essere processato.
Passerò adesso a trattare della legge penale
militare di pace, materia della quale mi sento più padrone perché è
il mio campo, quello che ho trattato per tredici anni. Qualcuno che
seguirà, credo il dott. Roberti, riferirà approfonditamente su un
primo punto che adesso riporto solamente in termini diciamo
riassuntivi.
Questo disegno di legge intende far diventare
reato militare una serie di reati contro la pubblica
amministrazione, contro l'incolumità pubblica, reati in materia di
sicurezza del lavoro, tradendo la tradizione precedente e passando a
una situazione antecedente al codice del ‘41.
Lo spiegherà meglio il collega, ma nel codice del
‘41 erano previsti da un lato reati militari, ossia reati che
offendono principalmente gli interessi militari, che sono quelli
classici, diserzione, disobbedienza, tutti quei reati là, e qualche
reato contro la pubblica amministrazione, la truffa e il peculato,
perché il legislatore del ‘41 aveva ritenuto che in questi ultimi
casi l'offesa all'interesse militare fosse predominante. Dall’altro
tutti gli altri reati che erano "militarizzati" dall'articolo 264
del c.p.m.p., nel testo vigente dal 1941 al 1958, non erano
qualificati reati militari, erano qualificati "reati comuni di
competenza del giudice militare". Qui mi fermo per non sottrarre
argomenti al collega.
Premessa questa considerazione, nel momento in
cui si vorrebbe qualificare militari, o comunque attribuire al
giudice militare, i reati contro la pubblica amministrazione
commessi dagli appartenenti alle forze armate, si fa una forzatura,
oltretutto contro l'articolo 103 della Costituzione. L'articolo 103
della Costituzione ci dice che in tempo di pace, e siamo in tempo di
pace, i tribunali militari conoscono dei reati militari commessi da
militari, ed è chiaro che non è sufficiente qualificare un reato
qualunque commesso da militare come reato militare per farlo
diventare tale. E’ evidente che non si potrebbe qualificare come
militare il reato contestato all’appartenente alle forze armate che
uccide la moglie: è ovvio che quello non è un reato militare, non
basta qualificare militare un reato per renderlo tale.
Con il progetto di legge delega all’esame del
Senato si vorrebbe invece qualificare reato militare un certo numero
di reati che militari non sono per niente, in tal modo scavalcando
l'articolo 103 della Costituzione. Si tratta di norma costituzionale
che non è soltanto un limite formale introdotto nel ‘48 in ragione
di una prevenzione contro i militari, una prevenzione contro i
giudici militari, perché all'epoca eravamo tutti con le stellette.
Il problema è che gli interessi tutelati in via
principale nelle fattispecie criminose che si vorrebbero
militarizzare non sono di natura militare.
Faccio un esempio che dovrebbe fugare qualsiasi
dubbio.
Premesso che quando si parla di reati contro la
pubblica amministrazione commessi da militari non ci di riferisce
soltanto a reati ascrivibili a bersaglieri o marinai, ma parliamo
anche di Carabinieri e di appartenenti alla Guardia di Finanza,
responsabili ad es. del reato di concussione che il disegno di legge
vuole militarizzare qualificandolo quale reato militare.
Il disegno di legge prevede infatti di sostituire
l'articolo 220 c.p.m.p. con una disposizione che classificherebbe
come tale qualunque fattispecie criminosa già qualificata nel codice
penale comune quale delitto contro la amministrazione della
giustizia, se commesso da militari, prevederebbe come reato militare
qualsiasi violazione della legge penale costituente delitto del
pubblico ufficiale contro la pubblica amministrazione, se commesso
da militari…
Ovvero, il maresciallo dei carabinieri che
costringe il fornaio a dargli il pane senza pagare commette reato di
concussione, attualmente di competenza del giudice ordinario, punito
da quattro a dieci anni: una volta passata la riforma tale condotta
sarebbe qualificata quale reato militare. Quindi il fornaio vedrà
giudicare colui che l'ha costretto a dargli il pane senza pagare (e
faccio un esempio così ridicolo, perché gli esempi reali sono ben
più tragici… ), dovrà vedere il responsabile di una condotta del
genere processato da un giudice militare, dovrà difendere i propri
interessi civili costituendosi come parte civile davanti ad un
tribunale militare, che non è solo tale perché composto da
magistrati togati della mia carriera amministrati dal Ministero
della Difesa, ma che ha nel collegio un altro militare in servizio,
e - ove si tratti di un imputato con grado militare di ufficiale -
un altro militare che ha lo stesso grado dell’imputato. Credo allora
che sia veramente improponibile militarizzare questo tipo di reati.
E non è questo l'unico caso che pone problemi del
genere, perché quando si propone di militarizzare le violazioni in
materia di sicurezza del lavoro accade lo stesso: se un generale
responsabile di una caserma non rispetta la legge 626 ed un operaio
civile rimane ucciso in un incidente mortale, è possibile che questo
sia considerato un reato militare?
Se si possono avere opinioni diverse
sull’opportunità di ampliare la competenza dei tribunali militari,
ovvero di non ampliarla, di … "aggiustarla" un po', ritengo invece
assurdo solo ipotizzare che reati di questo tipo siano attribuiti al
giudice militare.
Si tratta di ipotesi del tutto inconcepibili, non
di proposte opinabili sulle quali magari, trattandosi di un progetto
del governo, quelli dell'opposizione non sono d'accordo…
Non si tratta del caso in cui trattandosi di un
progetto di sinistra a me non mi va bene perché sono di destra, o
viceversa!
Il giudizio sul punto mi pare infatti
assolutamente pacifico, e questo a parte le ulteriori considerazioni
relative alle gravissime difficoltà di gestire poi questo tipo di
indagine: attribuire infatti la corruzione o la concussione ai
tribunali militari vorrebbe dire che il pubblico ministero militare
deve indagare acquisendo ordinariamente dichiarazioni da soggetti
estranei alle forze armate ed alla giurisdizione speciale.
Il corruttore del militare senz’altro concorre
con quest’ultimo nel reato ma verrebbe giudicato da un giudice
diverso, con possibilità di sviluppi processuali completamente
diversi: si tratta di considerazioni ispirate alla esperienza
giornaliera dei nostri uffici.
Nel corso di indagini svolte negli ultimi anni
presso alcune procure militari, è già accaduto di accertare che
episodi di peculato militare (condotta criminosa già adesso di
competenza del giudice speciale) erano poste in essere in questo
modo: io ufficiale di amministrazione devo comprare la carta per
fotocopie, tu imprenditore civile mi dai 1000 risme di carta per
fotocopie, me ne fatturi però 2000, io te le pago tutte e poi tu mi
restituisci l’importo versato in più (detraendo eventualmente il tuo
… disturbo).
Si tratta di episodi de iure condito già
qualificati peculato militare: quando io sostituto procuratore
militare andavo ad acquisire dichiarazioni dall'imprenditore
chiedendogli "scusi ma per caso avete concluso accordi del genere
con i militari?" l'imprenditore non mi considerava neppure: solo in
qualche caso (ma non credo che si voglia contare su una gestione
della giustizia così "personalistica") ho trovato qualche collega
ordinario, il quale si è chiamato l'imprenditore coinvolto nella
faccenda ed è riuscito a farsi dire come andavano effettivamente le
cose.
Con il disegno di legge governativo si vorrebbe
insomma di riservare al giudice militare la competenza per tutti gli
altri reati contro la pubblica amministrazione commessi all'esterno
della caserma, anche ove siano coinvolti soggetti civili: si rischia
così di garantire per determinati reati la sostanziale immunità
penale ai militari.
Non sarebbe certamente giusto né razionale
differenziare condotte criminose del genere commesse da carabinieri
da quelle commesse da appartenenti, per esempio alla Polizia di
Stato: si tratta infatti di illeciti commessi da soggetti che hanno
i medesimi compiti d’istituto e lo stesso stipendio, curano ad
esempio gli stessi acquisti di carta da fotocopie…
Ora, voglio dire una cosa che un pubblico
ministero non dovrebbe dire: io non discuto se è giusto o non è
giusto che, quando l’inquirente indaga per una corruzione, faccia
capire all'imprenditore che ha corrotto il pubblico ufficiale che se
non parla rischia la galera: ciò è probabilmente ingiusto e
vessatorio, ma quello che sarebbe ancora - e di molto - più ingiusto
sarebbe differenziare i vari casi: se colui che ha preso i soldi è
un poliziotto si trova il magistrato ordinario che dice o fa capire
al corruttore "guarda che se mi prendi in giro finisce male", mentre
se quello che ha preso i soldi è un carabiniere, invece no…
Io non discuto: vogliamo essere garantisti,
vogliamo dire che è ingiusto che il pubblico ministero usi queste
forme di coercizione che spesso sono solo psicologiche, sono solo
velate, non m'interessa, vogliamo dire che invece bisogna essere più
garantisti, va benissimo, però non potremmo assolutamente accettare
questa discriminazione che sarebbe ingiustificata, a parità di
funzioni tra Polizia di Stato e Carabinieri, a parità di funzioni
una differenza di controllo penale enorme!
Differenze di concreti poteri di indagine che non
sarebbero peraltro limitate solo a quest'aspetto ma che
dipenderebbero anche dall’ampiezza delle circoscrizioni territoriali
e dalla esiguità delle dotazioni di organico dei singoli uffici
giudiziari militari; abbiamo infatti solo nove procure militari,
distantissime le une dalle altre, provviste di uno o due sostituti
ciascuna: la possibilità concreta di intervenire al di fuori del
comune o della provincia ove ha sede l’ufficio sono pochissime.
Io sono alla Procura Militare di Torino ed i
comandi militari di quella città sono stati nel tempo tutti chi più
chi meno "disturbati" dalla procura militare ove lavoro, ma quelli
di Genova, distanti 150 chilometri dallo stesso ufficio requirente
competente ad indagare, chi mai li importunerà…?
Forse è giusto che siano tutti tranquilli, non
dico mica che è stato giusto dargli fastidio, però poi mi dovete
spiegare anche qui la discriminazione tra le due città.
Ma la discriminazione investe anche i diversi
soggetti, militari o civili, coinvolti nelle indagini: a seguito
dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale il
concorso nel reato militare dell’estraneo alle forze armate non
comporta più attribuzione all’a.g.o. della competenza anche nei
confronti del militare, quindi si hanno due processi che camminano
per conto proprio.
Ed allora con la riforma che si intende varare
succederebbe sempre più che i due concorrenti nel reato possano
avere destini giudiziari estremamente diversi.
A proposito di concorso di civili nel reato
militare, vi lascio immaginare cosa è successo con l’art. 513 c.p.p.,
nelle varie versioni modificate nella seconda metà degli anni ’90,
quando all'imputato di reato connesso era stato riconosciuto il
diritto di rispondere o no così determinando l’esito dei processi.
Il soggetto civile imputato di reato connesso
chiamato a testimoniare davanti ai tribunali militari sì e no si
presentava, mentre invece nell’altra sede rispondeva alle domande
del collega ordinario: è possibile una cosa del genere?
Questo è quello che si rischia con un disegno di
legge formulato non capisco per quali finalità, per quale motivo,
forse per giustificare una struttura che ormai, ce l'ha detto il
Procuratore Generale Militare d'Appello all’inaugurazione dell’anno
giudiziario, non serve più a niente?
Certamente la ragione dell'esistenza di una
qualunque istituzione pubblica non può che risiedere nell'attesa che
da essa possano derivare benefici apprezzabili per la collettività,
e per quanto riguarda la nostra istituzione giudiziaria al momento
attuale questa attesa non è sufficientemente confermata dai fatti:
questo ha detto il Procuratore Generale Militare.
I sostenitori del progetto di riforma hanno
voluto giustificare l’ampliamento di competenza con asserite
esigenze di razionalizzazione, ed in particolare con la volontà di
eliminare i casi di processi doppi, ripetuti nei confronti dello
stesso soggetto dinanzi al giudice militare ed a quello comune.
Per casi di doppio processo si intendono quelli
in cui attualmente, principalmente per episodi di peculato militare,
talvolta accade che, poiché il reato militare è più grave del falso
ideologico (fin qui di competenza del giudice comune), e spesso i
peculati militari vengono commessi predisponendo documenti falsi,
l'ufficiale accusato di peculato militare si trova due processi, uno
presso il giudice speciale per peculato militare, ed uno presso l’a.g.o.
per il falso.
Si è detto allora: cerchiamo di razionalizzare,
riserviamo tutti i reati contro la fede pubblica e tutti i reati
contro la pubblica amministrazione commessi da militari al giudice
militare, perché in questa maniera eviteremo il doppio processo.
Io non so come qualcuno abbia potuto
sottoscrivere una cosa del genere, perché fino ad ora abbiamo avuto
doppi processi solo per il peculato militare ed il falso ideologico,
ma i casi del genere con questo progetto di legge sono destinati ad
aumentare più che considerevolmente.
Si pensi ad esempio alle infrazioni penali in
materia di sicurezza sul lavoro a cui conseguano incidenti mortali:
l’omicidio colposo del civile avvenuto in caserma resterebbe (si
spera) reato comune di competenza del giudice ordinario ed invece la
violazione delle norme di sicurezza diverrebbe reato militare?
Ho già fatto l'esempio della concussione. Nella
commissione ministeriale vi era qualcuno appartenente all'Arma dei
Carabinieri: ma lo sanno i vertici dell’arma quale è il reato tipico
del maresciallo? concussione e violenza sessuale alla prostituta, la
concussione - che si vorrebbe reato militare - e la violenza
sessuale - che resterebbe reato comune - e quindi due processi con
due giudici diversi per un medesimo fatto. Altro tipico esempio:
sequestro di persona, falso verbale di arresto, lesioni
all'arrestato e arresto arbitrario, il falso nel verbale di arresto
lo vorrebbero far giudicare al giudice militare, e invece le lesioni
o il sequestro di persona al giudice comune. Si andrebbero a
moltiplicare in maniera incredibile i procedimenti..... il
maresciallo dei carabinieri prende soldi da un rapinatore per non
denunciarlo, allora, l’omissione di atti d'ufficio reato militare,
la corruzione reato militare, però l’omessa denuncia di reato comune
resterebbe reato contro la giustizia ordinaria, quindi reato comune.
Per non parlare poi di situazioni assurde, io
ufficiale dei carabinieri svolgo attività di favoreggiamento a
favore di due delinquenti di cui uno è un collega militare e l’altro
è un civile complice di quest’ultimo, con una stessa attività faccio
allora due favoreggiamenti, uno perché ho disturbato la giustizia
militare (mi riferisco ai reati contro l'amministrazione della
giustizia, militare che si vorrebbero "militarizzare"), è l'altro
perché ho disturbato, diciamo così, la giustizia comune?
Come si vede, il problema di una giurisdizione a
macchia di leopardo, che tanto viene sollevato adesso per
giustificare un intervento del genere, diventerebbe molto più grave
e diffuso rispetto alla situazione attuale, ove casi del genere sono
assai poco numerosi, limitati per lo più al peculato militare ed al
falso ideologico.
Ma allora sarebbe bastato attribuire ai tribunali
militari la competenza per i soli falsi strumentali al peculato
militare, se proprio si voleva evitare i doppi processi e mantenere
tale ultima fattispecie di reato militare, che comunque, a mio
parere, sarebbe anch’essa ormai non più giustificata…
Qualche settimana fa ho partecipato ad un
convegno presso la Procura della Repubblica di Torino dove c'era il
dottor Caselli, Procuratore Generale di Torino, il quale parlando
del mandato di cattura internazionale, del problema della
criminalità internazionale, sottolineava trattarsi di problema grave
perché i delinquenti, le associazioni a delinquere, arrivano a
studiare a tavolino le strategie per "saltare" da una giurisdizione
nazionale all'altra, per meglio curare così i propri interessi
criminali.
Mentre il noto magistrato parlava, il
sottoscritto rifletteva come qualcosa del genere potrebbe succedere
anche nel nostro campo, ove si rischia di fare in modo che chi vuole
delinquere si faccia un po' i conti su come muoversi nella zona
grigia, tra il giudice ordinario e quello militare, e così meglio
tutelare i propri interessi delittuosi.
Qualcosa del genere peraltro l'ho vista già
accadere a Torino quando, in un momento in cui ritenevano che il
giudice militare fosse più buono di quello ordinario, in un circolo
ufficiali è successo un pasticcio: il direttore del circolo era un
militare in pensione, l'hanno preso e l'hanno tolto di lì
sostituendolo con un militare ancora in servizio, pensando così di
stare più tranquilli; alla fine non è servito a molto però ci hanno
provato...
Ho fatto questo esempio anche per ribadire come
le mie osservazioni non derivino da studi astratti ma da
considerazioni concrete maturate sul campo, frutto di quello che ho
vissuto e visto accadere in tredici anni di attività giudiziaria
requirente.
Mi permetto da ultimo di sottolineare come anche
il progetto presentato dall'opposizione (1533 del Senato), Nieddu ed
altri, se da un lato molto opportunamente prevede la soppressione
del ruolo autonomo dei magistrati militari, dall’altro,
incredibilmente (forse perché ritenendo che la magistratura militare
fatta amministrare da ordinari sia sufficientemente garantita,
garantista e indipendente) propone ampliamenti di competenza
analoghi a quelle del progetto governativo, intendendo anch’esso
militarizzare i reati contro la pubblica amministrazione in maniera
incomprensibile, con una proposta per la quale ovviamente valgono le
medesime critiche che ho espresso fino qui.
Voglio fare ancora un'ultima osservazione
riguardo le fattispecie di reato militare di scarso allarme sociale,
comunque tradizionalmente di competenza del giudice militare, che
tali potrebbero restare anche per un giudice militare ridotto
all'osso come sezione specializzata del giudice ordinario.
Anche su questo punto il disegno di legge riporta
proposte abbastanza discutibili. Mi riferisco a due in particolare.
Il disegno di legge vorrebbe riformare -
ampliandola - la fattispecie di danneggiamento colposo di bene
mobile militare: nella relazione ministeriale è qualificata
"evidente svista del legislatore del ‘41" l’aver lasciato impunito
il danneggiamento colposo di oggetti di armamento militare: tutto
ciò non è vero, il legislatore del ‘41 operava sotto un regime ben
diverso dall’attuale ma non era così distratto, aveva valutato che,
obiettivamente, il militare che strappa i pantaloni non può essere
chiamato a risponderne davanti un giudice penale!
La legge delega vorrebbe ancora introdurre
l'arresto per "i casi più gravi", così dice la legge, di assenza dal
servizio.
L’arresto in flagranza per i disertori non è più
possibile fin dal 1989.
In un passaggio della relazione ministeriale al
disegno di legge 2483, peraltro, è evidenziato molto saggiamente
come l'attività militare si articoli tra una condizione addestrativa
(prevalentemente all’interno del territorio nazionale) ed una
operativa (per lo più missioni all’estero).
Non riesco allora a comprendere come si possa
pensare di prevedere l'arresto obbligatorio (o anche facoltativo) in
flagranza per fatti di diserzione posti in essere durante la
condizione addestrativa.
È chiaro che in zona di operazioni, o durante una
missione all'estero, se non mi presento in servizio militare mi
arresti, ma in condizione addestrativa ciò sarebbe assolutamente
ingiustificato, anche qui la diversità di trattamento tra le forze
di polizia ad ordinamento militare e le altre, ad esempio, sarebbe
profondamente ingiusta, pur questa volta a scapito delle prime.
Mi si deve spiegare perché un frequentatore del
corso da Ispettore della Polizia di Stato a Nettuno che questa sera
decidesse di non rientrare in caserma al più perderebbe il rapporto
di pubblico impiego, arrivederci e grazie, mentre un maresciallo dei
Carabinieri, che invece sta frequentando lo stesso corso a Firenze,
scuola allievi marescialli carabinieri, con i medesimi piani di
formazione e destinato ad analoghi servizi di polizia, se non si
ripresenta dovrebbe essere arrestato.
Sul punto anzi mi sentirei di ipotizzare una
completa depenalizzazione della diserzione, quando questa sia
commessa durante la condizione addestrativa.
Una scelta del genere sarebbe forse estremamente
auspicabile una volta finita la leva obbligatoria, quando tutti
militari in servizio saranno volontari con rapporto di pubblico
impiego. Presso la Procura Militare di Torino ho già avuto modo di
imbattermi in casi di militari professionisti i quali, denunciati
per diserzione non avendo più giustificato la propria assenza dal
servizio, richiesti in sede di interrogatorio del motivo per il
quale non avessero più mandato i certificati medici una volta
trascorsi sei mesi di assenza, hanno risposto: "ma mi è arrivata la
lettera secondo la quale ero stato messo in aspettativa, non mi
davano più lo stipendio, quindi io il certificato medico non lo ho
più mandato, ho pensato di essere stato licenziato, anzi adesso
posso tornare, domani torno e continuo il rapporto di impiego con lo
Stato. Grazie, grazie …."
Credo di aver abusato fin qui pur troppo della
pazienza dei presenti, concludo quindi ringraziando gli
organizzatori di questo incontro, che mi hanno offerto l’opportunità
di intervenire, e salutando tutti i presenti.
Dott.
BENEDETTO ROBERTI
Giudice tribunale militare di Padova
Cercherò di essere breve, anche perché il collega
mi ha rubato un bel po' di spazio; innanzitutto non sono un
giurista, sono un pedestre del diritto, un pratico, e sono avvezzo a
concretizzare le cose pur partendo da nozioni teoriche di dottrina,
perché penso che compito del operatore del diritto sia di essere
concreto visto che la finalità della giustizia, compresa la
giustizia militare, é quella di rendere efficienza, ma non ha alle
Forze Armate, come recita in premessa il Disegno di legge, e questa
è una critica che sin d'ora voglio fare, non si capisce come si
possa assicurare con questa tipologia di legge la piena funzionalità
delle Forze Armate, e non assicurare in ipotesi la piena
funzionalità a coloro, cioè gli Organi di giustizia, che
ripristinano la legalità (questo connubio con l'amministrazione
attiva penso non sia corretto). Condivido tutte le argomentazioni
del collega e quindi non mi soffermo sulle stesse; anch'io, sin
dall'inizio, ho trovato stranissimo che questa Commissione di studio
e questo conseguente Disegno di legge governativo non siano stati
preceduti da alcuna analisi statistica su dati di fatto; è assurdo
che una legge non si basi su dati di fatto, su statistiche. Cioè,
voglio dire, soprattutto per periodi di pace, come già detto il
collega si riprendono, si militarizzano reati che sempre, sin dal
41, sono stati concepiti come reati comuni. Questo evidentemente per
giustificare la scarsità di lavoro degli attuali Organi di giustizia
militare. Ora, io, modesto pedestre del diritto, se avessi fatto
parte della commissione, alla prima seduta, avrei chiesto: scusate,
visto che sembrerebbe che il Ministro della Difesa in persona abbia
detto che l'unica iniziativa legislativa del governo prevede, non la
soppressione dei tribunali militari, del resto lo stesso Consiglio
della magistratura militare sembra, come già detto il collega,
essersi espresso in tal senso, ma abbia previsto, il ministro della
difesa, l'unica possibilità sia quella di riorganizzare le
competenze mediante un aumento del carico di lavoro. Allora, dato
per scontato che penso che anche un'associazione possa opporsi a
questa ipotesi legislativa se convinta, ma comunque dato per
scontato che fosse obbligata questa scelta di politica legislativa,
perché di politica legislativa si tratta, avrei detto scusate:
vogliamo aumentare le competenze? Quali reati comuni che si
militarizzano possono alleviare il modestissimo carico di lavoro dei
tribunali militari? Io sono in servizio Padova, corte d'appello di
Venezia, leggendo anche la stampa conoscendo anche i dati
statistici, non penso che di questi reati comuni ne possono arrivare
a fine anno più di una ventina trentina di procedimenti; ma questo
giustifica l'aumento?; ma comunque al di là di questo analizziamo le
statistiche prima di procedere ad una scelta legislativa così
finalizzata. E questo è un argomento di premessa metodologico. Altro
elemento che ha trovato, queste sono critiche personali posso
benissimo sbagliare perché non sono un giurista, ho sempre pensato
che quando si prospetta una revisione di un codice, quindi una
materia complessa che si presume ordinata se pur ancorata a un
periodo storico, si debba operare sulla base della miglior scienza,
ossia della miglior scienza giuridica del momento. Ora, questo
disegno di legge solo all'apparenza cerca di rivisitare la nozione
dei reati militari dal punto di vista dell'oggettività giuridica, ma
realtà, se si bada bene, se si segue punto per punto l'articolato,
si segue la vecchia nozione della fedeltà o della mancanza di
fedeltà di una certa tipologia di comportamenti da parte delle
appartenenti alle forze armate; è la vecchia nozione del di Vico,
Trattato di diritto penale militare del 1917. Allora, tenendo
presente anche che, questo progetto di legge, in vari punti, come
già detto il collega, prevede siano militarizzati reati che sono
tutt’oggi reati comuni, definendoli all'improvviso reati militari,
converrebbe brevemente sintetizzare qual’erano le conoscenze del
legislatore del 41 a proposito della nozione di reato militare .
All'epoca, ma anche negli anni 50, poi di questo argomento non se
n'è parlato più perché il Parlamento ovviamente fedele all'articolo
della costituzione 103, terzo comma, ha ritenuto che i tribunali
militari in tempo di pace debbano conoscere soltanto dei reati
militari commessi dagli appartenenti alle Forze Armate. Ecco della
nozione di reato militare non si è più parlato negli ultimi decenni.
Alla fine degli anni ’50 per l’ultima volta si discusse se il Codice
penale militare dovesse essere complementari o integrale. Cosa
significa codice penale complementare? Significa che il codice
penale militare complementare contiene solo pochissime norme di
differenziazione, di eccezione, rispetto al codice penale comune,
sia in parte generale sia in parte speciale. Codice penale militare
integrale significherebbe, secondo la concezione del Ciardi, anni
50, del Malizia e di altri, sempre anni 50, sarebbe un corpo iuris
autonomo e indipendente. Per la parte speciale sopratutto dovrebbe
comportare la codificazione di tutti quelli che sono la tipologia di
reati militari, norma per norma senza far riferimento al codice
comune o richiamando reati del codice comune però qualificandoli
come reati militari perché commessi per soggettività dagli
appartenenti alle forze armate; ciò bastava perché si ritenesse leso
un interesse militare. Allora, prima del 41 erano vigenti i codici
penali militari dell'esercito, della marina del 1869, i codici
sardi; fin al 1941; durante la prima guerra mondiale nonostante le
Circolari Cadorna si applicavano quei Codici; sono brevi accenni
perché sono significativi. Dopo la prima guerra mondiale, il
Governo, lo stesso Parlamento dato il contesto che il modo di fare
guerra era cambiato; la guerra era diventata una guerra di popolo,
anche le scienze militari erano cambiate, gli stessi armamenti la
tecnologia, le modalità di offesa erano cambiate. Cioè si
necessitava di un nuovo codice e allora abbiamo avuto la commissione
Berenini, Commissione parlamentare Berenini, che ha concluso i suoi
lavori, credo, nel 21-23. Definì il codice penale militare di pace e
di guerra come un codice complementare, siamo nel 21. Già all'epoca
il Legislatore, in sede parlamentare, prospettò che il codice
militare penale di pace e di guerra dovesse essere complementare non
solo nella parte generale ma, anche nella parte speciale, cosa che
non rispecchia questo disegno di legge. Addirittura la relazione
Berenini diceva che i reati militari dovevano essere solo quelli che
il Di Vico pochi anni prima aveva teorizzato come militari, quelli
esclusivamente militari. Il Di Vico nella sua nozione non basata
sull'oggettività giuridica, cioè sulla lesione a beni ed interessi
di una certa rilevanza militari, seguiva la nozione della mancanza
della fedeltà del militare al suo status e a certi valori, e quindi
concepì come reati militari, quelli quelli contro il servizio e
contro la disciplina; quelli erano i reati militari, che tutto
sommato troviamo nell'attuale codice vigente del ’41 sotto la voce
reati contro il servizio, reati contro la disciplina militare.
Quelli erano i reati militari, stante gli studi della Commissione
Berenini. Un'eccezione per quel periodo, prima del ’41, il periodo
tra le due guerre, è stata la commissione del senatore D’Amelio del
’26, che fu per il codice penale militare integrale, unica
eccezione. Per ragioni più che giuridiche, basate sulla realtà dei
fatti ed sappiamo che all'epoca e tribunali militari, gli organi
della giustizia militare erano composti da ufficiali, non da
magistrati togati di corso. Essendo i giudicanti degli ufficiali,
dei militari si riteneva logico dovessero avere una conoscenza
completa di tutte le possibili violazioni penali potessero essere
commesse dai militari.
Quindi si diceva dovessero avere avanti a sè un
corpo iuris completo , di modo da conoscere tutte le possibili
violazioni che potevano essersi commesse da militari per agevolare
il lavoro dei giudici militari non togati. Questo era il pensiero
del senatore d'Amelio. Però riguardo la Commissione Berenini avevo
dimenticato di dire che essa aveva previsto, nell'ottica dell'epoca,
che i tribunali militari dovessero conoscere dei reati anche
definiti comuni commessi dagli appartenenti le forze armate, una
norma di rinvio tautologico, senza definire quali fossero; si diceva
semplicemente che i tribunali militari dovevano conoscere dei reati
comuni sottoposti alla giurisdizione dei tribunali militari; era
stabilita anche un'altra norma che statuta che sono sottoposti alla
giurisdizione dei tribunali militari i reati comuni commessi dagli
ufficiali in servizio, comunque militari in servizio. Norma di
carattere processuale più che sostanziale. Poi abbiamo avuto la
Commissione d'Amelio di opposta tendenza. Poi altre due commissioni,
una Reale del ’32 e una Parlamentare del ’37. Sono state tutte due
per il codice penale complementare, quella reale del ’32 era
presieduta da Di Vico e vi partecipava anche il noto Manzini, il
quale Manzini ebbe a dire in occasione di quella commissione, (sono
andato a vedere nei testi integrali), che reati militari da inserire
nel codice penale militare di pace devono essere quelli
esclusivamente militari, quelli ledenti, per contenuto,
dell'interesse specificatamente militari, reati contro il servizio
contro la disciplina. È vero che anche queste due Commissioni
concludevano dicendo, ma perché nell'obbligo cancella ma perché
nell'ottica del tempo non c'era la costituzione, concludevano
dicendo che organi della giustizia militare dovevano conoscere anche
dei reati comuni commessi dagli appartenenti alle forze armate;
sempre la stessa nozione della commissione Berenini, nulla cambiava,
perché all'epoca non si poteva nemmeno concepire che i tribunali
militari composti sia da ufficiali non togati e sia da magistrati
togati, magistrati togati e ricordiamo che fino a 1981 portavano le
stellette facevano parte della giustizia militare, erano militari
anch'essi, era inconcepibile che non potessero conoscere nella sua
completezza la criminalità militare, questo nell'ottica del tempo.
Ecco, siamo prima della guerra, la commissione come ho detto prima,
quella parlamentare stava lavorando già da tre anni, era vicino il
conflitto; si aveva la necessità di codificare questi principi;
innanzitutto io ho osservato per queste commissioni prima di
stendere un elaborato lavoravano addirittura per tre o quattro anni,
cioè tre o quattro anni di studi, di analisi, di conflittualità
all'interno, relazioni di minoranza, composizioni; vi partecipavano
illustri penalisti, Manzini, Di Vico. Ecco avevamo la necessità per
lo stato di guerra di una codificazione nuova, aggiornata, e quindi
legislatore prende in mano il testo delle ultime due commissioni e
lo codifica. Reati contro il servizio, contro la disciplina seguendo
lo schema della nozione del di Vico, non tanto valutando
l'oggettività giuridica, quanto valutando la qualità del soggetto
attivo e la mancanza di fedeltà rispetto a certi valori consolidati
nell'ambiente militare, tenendo presente una concezione
istituzionalistica delle forze armate per cui venivano concepite
sempre come la parte preponderante, importante, dell'organizzazione
statuale; e per la realizzazione dei cui scopi si aveva la necessità
di una codificazione autonoma; concezione istituzionalistica delle
forze armate, che avevano un'autonomia regolamentare, e quindi
un'autonomia, un'autonomia di codice, pur nell'ambito
dell'ordinamento generale statale; questa peraltro era una
concezione diversa da quella democratica, del resto ben definita
nell'articolo 52 della Costituzione vigente; sta per entrare in
vigore la guerra e quindi abbiamo questo elaborato però il nostro
legislatore del 41, nota che oltre ai reati esclusivamente militari,
quelli tipici militari, per cui aveva già elaborato un testo si
aveva la necessità di avere degli altri reati contro
l'amministrazione militare, contro la persona per esempio, contro
patrimonio, perché? Perché ritenne che nel codice di pace potessero
essere inseriti anche altri reati, che non avessero interesse
esclusivamente tramite militare come gli altri ma che le ledessero
un interesse comune però anche un interesse militare, prevalente, e
quindi riprese, e andiamo al testo del ’41 e li abbiamo, alcuni
reati previsti nel codice comune e li definisce reati militari, però
li riprende lì definisce reati militari perché si aveva la necessità
di strutturarli meglio rispetto com'erano strutturati nel codice
penale, sempre con riferimento alla necessità delle forze armate
com'erano organizzate sia per quanto riguarda la struttura
contenutistica del reato nel suo precetto sia per quanto riguarda la
sanzione penale o gli elementi circostanziali del reato; esempio:
ma, poi si può fare lo stesso discorso: peculato militare, si
ritenne che dovesse essere sanzionato, peculato militare commesso
dal militare con una certa qualità, si ritenne dovesse essere
sanzionato con un minimo edditale inferiore da due a 10, anziché da
tre a 10 e come nel codice Rocco del 31, questo perché si ritenne
che forse comporta minor disvalore tale reato, essendo commesso
all'interno di un'istituzione. Concessione istituzionalistica, per
cui si pensava desse minor disvalore sociale un reato commesso al
suo interno. Lo stesso furto militare, si recupera, col 230 secondo
comma e seguenti, prevedendo sanzioni meno afflittive per contenuto
rispetto al codice comune, e sempre per la solita logica; e poi
abbiamo delle ipotesi di furto, per esempio il furto del dipendente
nei confronti del superiore, ipotesi che all'epoca si ritenevano di
codificare perché non erano previste nel codice comune; questi sono
degli esempi, ma quello che mi premeva di dire, riprendendo anche le
relazioni al codice, e gli studiosi che si sono soffermati su questa
scelta, per il fatto che legislatore pensava che questi soli fossero
i reati militari da inserire nel codice accanto a quelli più
tipicamente militari e non gli altri; poi comunque v’era una norma
di chiusura di carattere processuale, l'articolo 264 del codice
penale militare di pace che prevedeva la possibilità della
giurisdizione militare anche per reati comuni commessi dagli
appartenenti alle forze armate; infatti, riprendendo l'articolo 264
si nota che si dava la conoscibilità gli organi di giustizia
militare, si cita una volta per tutte, l’art. 264: ecco: si
prevedono delitti della legge penale comune, perseguibili d'ufficio
commessi da militari: a ad anno del servizio militare, di ad anno
dell'amministrazione militare, a danno di altri militari perché
commessi da militari a causa del servizio militare con abuso della
qualità di militare. Secondo me, per il legislatore del 41 erano,
sono stati sono tuttora, reati comuni, riconosciuti dalla
giurisdizione militare perché all'epoca, come ho già detto,
nell'ambito di una concezione istituzionalistica, non ispirata al
principio della democraticità dell'ordinamento, non potevano essere
conosciuti dal giudice ordinario ma dal giudice militare. Poi cosa
succede? Arriva la Costituzione, articolo 103: i tribunali militari
in tempo di pace conoscono soltanto, l'avverbio è molto importante,
i reati militari commessi dagli appartenenti alle forze armate.
Tutti dicono, sono andato a vedere anche quello che disse il Pannain
all'epoca, e lo posso anche citare, sono andato a tirarmi fuori un
vecchio manuale sul codice penale militare, integrale Pannain disse
all'epoca che quando il Costituente legiferò relativamente a questa
norma aveva sotto gli occhi proprio la legge penale militare del
tempo, quando si parlava di reati militari, per il legislatore
costituzionale erano quelli che all'epoca erano contenute nel codice
penale militare di pace; non i reati militarizzati che erano
ritenuti, del resto dallo stesso legislatore ordinario, reati
comuni, e pertanto non conoscibili dal giudice speciale, quindi già
con la Costituzione i tribunali militari sono stati privati di gran
parte del carico di lavoro, perché viene cancellata la possibilità
di conoscere di questi reati, che la dottrina definì reati
militarizzati; è pacifico ed è notorio che con la Costituzione
questi reati non sono stati più conosciuti dal giudice speciale
militare; sia la dottrina che per pacifico ritenne non potessero
essere conosciuti, ma anche la stessa Corte di Cassazione nel
pronunciarsi, per cui quando nel 1956 il legislatore intervenne per
abrogare alcune norme tra quel famoso art. 264 non fece nient'altro
che ratificare una situazione già esistente per giurisprudenza; quei
reati non erano militari e il tribunale militare non poteva
riconoscerli; e il legislatore del 56, rammento per tutti che la
legge nacque a sostegno del noto procedimento a carico del critico
cinematografico Aristarco che nello sceneggiare un film "L‘armata
Sagapò" avrebbe vilipeso le forze armate, queste si ribellarono a
quella sceneggiatura, e si ebbe, se non erro presso il tribunale
militare di Verona aperto un procedimento; Aristarco era un
ufficiale in congedo; intervenne il legislatore del 56 e modificò
alcune norme, tra cui la soggettività militare, i militari in
congedo furono diciamo tolti dal giudice speciale e poi si ratificò
un indirizzo giurisprudenziale costante con la norma di cui all’art.
264 c.p.m.p. Comunque è importante dire che già con la Costituzione,
questi reati comuni, che adesso nel disegno di legge li trovano
addirittura militarizzati, ma con un'operazione ancor di più
pregnante, perché vengono definiti nel disegno di legge reati
militari, almeno il codice del 41 le definiva reati comuni adesso
diventa non addirittura reati militari con tutte le implicazioni
circostanziali, cause di giustificazione, pene accessorie, cioè
prima erano reati comuni adesso diventano addirittura militari,
un'operazione ancor di più pregnante anticostituzionale tant’è che
vengono inseriti a pieno titolo nel codice penale militare di pace.
Dopo il ‘56 cosa succede? I tribunali militari cercano di
sollecitare il Legislatore a mutare orientamento, per sollecitazione
delle alte sfere della magistratura militare dell'epoca venne
presentata una proposta di legge, sembra di vedere l'attuale
articolato, adesso siamo nel 2004, stiamo facendo l'operazione che
nemmeno andò in porto negli anni 1956 e seguenti, militarizzare
reati comuni, si tentò di fare della nozione formale di reato
militare, articolo 37 del codice militare penale di pace che
definisce reato militare quello previsto dalla legge penale
militare, una nozione formale, si cercò, come si cerca adesso, di
renderla una nozione sostanziale, cioè il reato che lede interessi
militari, così come il 264 ed altri. Questi progetti non andarono in
porto, per volontà dello stesso Parlamento che ritenne fossero in
contrasto con una l'articolo 103 comma terzo della Costituzione
italiana. Lo stesso Ministro della giustizia di epoca, l'onorevole
Moro, ebbe ad opporsi esplicitamente, proprio in segno di
approvazione della legge del ’56. Fatto sta che il legislatore
dell'epoca, siamo quarantacinque anni fa, si oppose a questa
militarizzazione di reati comuni. Abbiamo avuto poi nel 59
un'ulteriore tentativo della magistratura militare; fu tenuto a
Verona a un congresso di diritto penale militare internazionale, cui
parteciparono di Pannain, Bianchi d’Espinoza, magistrato della corte
di cassazione, il Malizia, tutte le maggiori menti illuminate della
magistratura militare; tennero un congresso finalizzato a
prospettare la necessità di un codice penale militare integrale, ma
tale progetto non ebbe seguito, fu fatto questo convegno, furono
spese delle relazioni, ma tutto morì lì, nonostante il sollecito del
Parlamento, per le stesse ragioni poch’anzi dette. Questo volevo
dire, è una cosa anche importante, quando il Pannain,, che all'epoca
era docente di procedura penale, se non sbaglio a Napoli, ed è anche
lui a sostenere la necessità di un codice penale militare integrale,
che quindi, soprattutto con riferimento alla parte speciale,
riprendesse pedissequamente i reati comuni commessi da appartenenti
alle forze armate se ledendi e interessi militari, a parte la
difficoltà di definire una categoria siffatta, che lascia ampio
spazio alla discrezionalità, con lesione del principio di
tassatività laddove si viene definire una nozione di reato militare.
Ecco, quando Pannain sollecitava questo, Pannain lo sollecitava
sulla base di una richiesta ben chiara, diceva infatti che si doveva
dare sostanza a dei tribunali militari privi di sostanza, all'epoca,
e adesso nulla è cambiato, ma perché, diceva il Pannain? Perché i
tribunali militari sono composti da militari, da militari e anche i
giudici togati sono militari perché fanno parte del Corpo della
giustizia militare, e quindi, in quanto militari, hanno la
cognizione adeguata a giudicare quei reati anche comuni commessi dai
militari. Ma questa tipologia di organi militari non ci sono più,
perché nel 1981 è stata riformata la giustizia militare; quindi, in
pratica, e caposaldo è che con la Costituzione si viene a elidere
l'unione tra giurisdizione e legge penale militare. La costituzione
rompe questa unione, e poi con l'evoluzione legislativa, abbiamo
avuto un mutamento radicale di quelli che sono gli organi deputati a
conoscere questa materia, che non sono più militari, sono giudici
togati non appartenenti ad un Corpo militare. Quando si sono rotti
questi equilibri, gioco forza, secondo me, per una commissione di
studio è meglio andare verso altri orientamenti legislativi
rispecchiante anche la realtà storica, la realtà internazionale.
Dove abbiamo tribunali militari nei paesi Nato ? Turchia? Sì, in
Turchia, in altri Paesi non ci sono, forse in Portogallo, dove si
sono i tribunali militari adesso che giudicano di reati militari?
Colombia; Siria, Israele, e Egitto, Giordania, in Belgio sono stati
soppressi due anni fa, in Francia furono soppressi con Mitterand nel
69, in Germania, con il primo governo socialdemocratico, ma perché
si prevedette la conoscibilità della legge penale militare
sostanziale al giudice ordinario, penso che sia la soluzione
ancorata alla storia, ed eliminante tutta quella serie di
problematiche su cui il collega si è anche soffermato. Per me,
questo disegno di legge rispecchia permanente delle ragioni
corporative, una difesa della magistratura militare, delle proprie
posizioni, ammesso che ce ne siano; tutt’ora i magistrati militari
sono 103. Magistrati che sono riusciti ad avere un ufficio direttivo
a quarant'anni, anche se sembra scandaloso, su questo dovrebbe
interrogarsi l'opinione pubblica, con che professionalità uno può
tenere un ufficio direttivo o quarant'anni, del resto è vero, E'
vero che i concorsi sono anche virtuali, sono concorsi ad uffici
direttivi senza concorrenti, con un’unica istanza , per cui non c'è
bisogno di una valutazione dei titoli. Poi, una cosa che rende
ancora impossibile il funzionamento della giustizia militare, ecco
perché la soluzione deve essere la devoluzione della conoscibilità
da parte dell'attuale legge penale militare sostanziale del giudice
ordinario, è il fatto che se si approva quel disegno di legge di
riforma dell'ordinamento giudiziario, non può non avere
ripercussioni, come ha già detto il collega, all'interno della
nostra giurisdizione, in tema di separazione delle funzioni, ammesso
che non si vada verso la separazione delle carriere, per mezzo di
concorsi, e metodi di organizzazione dell'ufficio di procura, un
organico siffatto così ristretto è possibile che funzioni. Cosa
facciamo? concorsi separati? Concorso separato per pubblici
ministeri militari e giudicanti? Si arriverà senz'altro alla
paralisi. Queste sono mie semplici osservazioni, un’unica cosa che
posso aver notato di questo progetto, come ha già detto prima lo
critico, perché doveva basarsi, dato che siamo nel 2004, su una
concezione oggettivistica, nella tutela solo di beni di rilevanza
costituzionale. Come è possibile salvaguardare la manifestazione
sediziosa, articolo 184, per carità, la corte costituzionale l'ha
salvato anche di recente, articolo 182 se non sbaglio, attività
sediziosa, o i reati di reclamo collettivo, sono tutti i reati
pacificamente incostituzionali, o meglio se vogliamo salvarli
salviamoli, prefigurandoli garantendo il principio di offensività,
non basandosi solo sul concetto di pericolo puramente astratto.
Oppure si formula tutta una serie di reati senza seguire uno schema
di oggettività giuridica, riprendendo i codici di prima, cercando di
inserirsi in maniera disorganica qua e là, e quindi basandosi sulla
concezione del Di Vico dei reati contro la fedeltà. Quindi, manca
totalmente una concezione organica pur nell'ambito della
militarizzazione di questi reati, per cui secondo me questo progetto
va cassato integralmente, e andrebbero ripresi, ad esempio, perché
da me condivisi, la proposta di legge di Dorigo- Violante formulata
nel '94, che prevedeva la soppressione dei tribunali militari e il
transito della magistratura militare e dei cancellieri militari nel
ruolo degli ordinari. In sintesi, potestà di conoscere di reati
militari, perché di una legislazione sostanziale militare c'è
necessità, ci sono le forze armate e doverosa è la tutela di alcuni
beni per il buon andamento del servizio, conoscenza da parte delle
procure ordinarie e presso le sedi delle corte di appello si
istituiscano delle sezioni specializzate, tipo il tribunale dei
minorenni, composte magari da un ufficiale estratto a sorte, se non
si vuole seguire il modello francese della totale soppressione. Del
resto, come possiamo andar contro alla corte costituzionale, che più
volte è intervenuta, e che, per esempio, ha detto, il relatore se
non sbaglio era il Dell'Andro nel lontano '89, i tribunali militari
sono stati considerati sempre, dalla corte costituzionale, come una
giurisdizione eccezionale circoscritta entro limiti rigorosi e
quindi con una deroga alla giurisdizione ordinaria, una deroga alla
cui eccezionalità è sottolineata, per giunta, dall'uso dell'avverbio
"soltanto" nell'articolo 103 III comma della costituzione, a
conferma che la giurisdizione ordinaria è da considerare, in tempo
di pace, come giurisdizione normale, quindi penso che sia questo
intendimento che il legislatore dovrebbe avere sotto gli occhi
quando legifera.
Dott. CLAUDIO DE FIORES
Costituzionalista
1. Il disegno di legge delega per la revisione
delle leggi penali militari (di pace e di guerra) non costituisce
soltanto un ampio e articolato progetto di riforma dell’ordinamento
giudiziario militare. Nelle sue disposizioni c’è qualcosa di più.
Qualcosa - che non esiterei a definire - inquietante. E ciò non solo
per le soluzioni normative che questo progetto concretamente delinea
ed avalla, ma soprattutto per gli scenari globali che esso
evoca: quello del nuovo ordine mondiale e della guerra preventiva,
da esportare come –si evince da alcuni passaggi della stessa
Relazione introduttiva – "dove più necessitano gli interventi di
pace, dove sembra non si conoscano più limiti alle atrocità".
Obiettivo sotteso alla revisione dei codici penali militari è,
infatti, quello di offrire un contributo normativo, dall’interno,
alla costruzione del nuovo ordine globale. Come dire: normare
l’ingerenza bellica per normalizzare la guerra.
Siamo in presenza com’è evidente di un’ulteriore
tappa, peraltro assai significativa sotto il profilo interno, della
globalizzazione militare. Un processo, questo, di lungo periodo
contrassegnato da una progressiva ed endemica crisi del diritto
internazionale a cui è andato via via corrispondendo, in questi
anni, l’avvio di una articolata e penetrante strategia di
rielaborazione degli assetti "globali", lucidamente perseguita dalle
potenze occidentali (il "nuovo modello di difesa" NATO, le guerre di
globalizzazione, il conflitto bellico come strumento di affermazione
delle incalzanti pretese di dominio degli USA).
Sono cose che conosciamo, così come conosciamo
anche lo sforzo profuso in questi anni da buona parte delle cultura
giuridica intenta a ridefinire, su queste medesime basi, le regole
dell’emergente ordine internazionale, sulle quali fondare la nuova
legittimazione all’uso della forza. Un tentativo forte e pervasivo,
culturalmente proteso a razionalizzare l’esistente, suggellandone i
rapporti di forza e le nuove forme di dominio. Fino al punto di
sostenere che una nuova consuetudine internazionale che
legittimerebbe l’uso della forza nei rapporti tra gli Stati ha già
preso il sopravvento e che anche a livello interno "le diverse
questioni di legittimità costituzionale dell’impiego delle forze
armate all’estero possono essere considerate in gran parte superate
da una prassi costante e sostanzialmente non più contestata". Di qui
il convincimento, repentinamente maturato in dottrina, che una
travolgente "decostituzionalizzione" (delle norme sulle pace, sulla
guerra, sulla difesa, sulle relazioni internazionali) è ormai da
tempo in atto e che, in definitiva, finanche lo stesso "richiamo
alla clausola della guerra difensiva – sono parole di Giuseppe De
Vergottini - non tiene più".
La riscrittura dei codici penali militari si
colloca in questo quadro. Lo si evince dalla stessa relazione al
disegno di legge protesa a raccordare il significato della riforma
alla costruzione di un nuovo ordine globale e alla sue "nuove
prospettive, in cui – viene detto espressamente - l’uso della
forza militare diviene strumento e garanzia dei beni essenziali
dell’ordine e della stabilità internazionali. Le Forze armate –
si legge ancora - sono andate associando alla loro tradizionale e
primaria funzione di difesa nazionale altri e nuovi compiti,
manifestatisi soprattutto in occasione delle numerose missioni
all’estero".
Siamo oggi in presenza, come si vede, di un
processo lungo e articolato sul piano politico, ma
altrettanto breve e intenso dal punto di vista
normativo. Un processo per molti aspetti riconducibile alla L. 31
gennaio 2002, n. 6 (Conversione in legge con modificazioni del
decreto-legge 1 dicembre 2001, n. 421, recante disposizioni urgenti
per la partecipazione di personale militare all’operazione
multinazionale denominata "Enduring Freedom". Modifiche al
codice penale militare di guerra, di cui al regio decreto 20
febbraio 1941, n. 303"). È, infatti, proprio in quell’occasione
che viene, con forza, ostentato per la prima volta il proposito di
riesumare il codice penale di guerra per dare vita ad un
"ordinamento militare ridefinito" in grado di recepire ed esprimere,
allo stesso tempo, le recenti "trasformazioni del quadro
internazionale" e i suoi nuovi assetti (Relazione introduttiva al
disegno di legge Martino-Castelli (N. 915), recante Modifiche al
codice penale militare di guerra, di cui al regio decreto 20
febbraio 1941, n. 303).
2. E alle trasformazioni del quadro
internazionale il progetto di delega si richiama, non a caso,
ampiamente. Mi limito per ragioni anche di tempo ad evidenziarne un
solo aspetto, a mio giudizio tra i più significativi. Quello
concernente la dimensione giuridica del nemico. Da questo punto di
vista la revisione delle leggi penali sembrerebbe ratificare sul
piano normativo quella che è stato il mutamento di senso,
l’alterazione anche semantica della nozione di nemico prodotta in
questi anni dalle guerre di globalizzazione. Nel nuovo ordine
mondiale la definizione di nemico non coincide più infatti con
quella di Stato, ma ricomprende al suo interno un inedito universi
di significati (dai singoli individui alle organizzazioni di
persone). Un effetto indotto dalle pretese di dominio dell’Occidente
e dai processi di costruzione del nuovo ordine mondiale innescati
dalla fine del bipolarismo. Non è un caso che nel primo Documento
sul nuovo concetto strategico dell’Alleanza (Roma, 7 novembre
1991) tale esigenza fosse già stata lucidamente avvertita: oggi – si
legge nel Documento - la "sicurezza" degli Stati membri
dell’Alleanza non è più posta a repentaglio, come in passato, dalla
contrapposizione dei blocchi Est-Ovest o dalla "eventualità di una
aggressione premeditata contro il loro territorio", ma "può essere
messa in discussione da rischi di più larga natura, quali ... le
azioni di terrorismo e sabotaggio".
Il progetto di legge delega Martino-Castelli
sembra recepire appieno questo mutamento semantico da una parte
trasfigurando la tradizionale nozione di "conflitti armati
internazionali" da genus a species, fino a renderla,
in definitiva, una ipotesi particolare e non più omnicomprensiva per
l’applicazione delle leggi di guerra, uno dei tanti presupposti
della loro operatività e non più il solo. Dall’altra dilatando a
dismisura la nozione giuridica di "conflitto armato" fino ad
estenderla anche ai "conflitti interni prolungati tra le Forze
armate dello Stato e gruppi armati organizzati o tra tali gruppi" (
così la lett. i), punto 1, dell’art. 4 del disegno di legge).
Quindi alle organizzazioni terroristiche. È interessante a questo
proposito altresì evidenziare come in quest’ultima ipotesi (a
differenza di quella immediatamente precedente contenuta sempre al
punto 1 e nella quale - per intenderci – ci si richiama ai rischi di
una "guerra civile o di una insurrezione armata") manca ogni
riferimento al "territorio dello Stato". Come a dire, a differenza
di una guerra civile o di un conflitto "fra gruppi di persone
organizzate con le armi all’interno del territorio dello Stato", la
guerra contro il terrorismo è legittima ovunque, anche al di fuori
dei confini statuali. Dall’altra parte appare opportuno altresì
segnalare che questa estensione della fattispecie normativa del
conflitto armato rischia di ritorcersi gravemente, dal punto di
vista processuale, anche sulle garanzie giurisdizionali individuali,
sottoponendo intere categorie di soggetti ai Tribunali militari. Con
la revisione dei codici militari le guerre di globalizzazione
verrebbero quindi definitivamente normate e con esse anche i loro
nobili obiettivi: la tutela dei diritti umani e la lotta al
terrorismo internazionale destinati finalmente a trovare la loro
"prima attualizzazione […proprio in…] questo corpo normativo". Un
corpo normativo - come si legge espressamente nella relazione
introduttiva al disegno di legge delega – imperniato sulla
indefettibile esigenza di offrire un rapido e coerente
"aggiornamento al diritto internazionale umanitario" al fine di
assecondare le tendenze militari globali e, in particolar modo,
quella connessa e "pressante spinta di dare uno status giuridico
congruo all’operazione internazionale di lotta al terrorismo".
3. Da questo punto di vista il progetto di legge
pare quindi ampiamente rispondente ai suoi propositi politici,
rivelandosi nel suo impianto di fondo coerente e anzi per molti
aspetti complementare agli scenari delineati dalle guerre di
globalizzazione. Dove il progetto di legge delega appare invece
maggiormente carente è il secondo fronte: quello della
armonizzazione delle leggi militari ai principi fondamentali della
Costituzione repubblicana. Un pretesa questa resa indifferibile –
come si leggeva nella relazione introduttiva alla legge 6/2002 –
dall’esigenza di rivedere molte norme del codice che "appaiono … con
indiscutibile evidenza contrastanti con i valori costituzionali". Su
questo terreno la riforma ci appare non solo fallimentare, ma in
contraddizione con le sue stesse finalità. Certo è vero come è stato
adeguatamente sottolineato - che l’art. 4, alla lettera p,
invoca l’abrogazione dell’art. 75 (concernente la diffusione di
particolari notizie di interesse militare) perché ritenuta lesiva
della libertà di manifestazione del pensiero. Ma tale "concessione"
– è bene precisarlo - avviene all’interno di un quadro normativo
contrassegnato, all’opposto, da una latente e sistematica
compressione delle garanzie costituzionali. Sia perché tali
"concessioni" – come mi piace definirle – appaiono alquanto
circoscritte e non coinvolgono altre disposizioni altrettanto lesive
dell’art. 21 della Costituzione (si pensi all’art. 77 del codice che
punisce la divulgazione di false notizie sull’ordine pubblico o su
altre cose di interesse pubblico). Sia in ragione della
commutazione di una serie alquanto ampia e (pericolosamente)
indeterminata di reati comuni in reati militari. La riforma, sulla
scia della legge 6/2002, prevede, infatti, la militarizzazione di
tutti i delitti contro la personalità dello Stato, contro la
Pubblica amministrazione, contro l’amministrazione della giustizia e
contro l’incolumità pubblica. Ma anche dei delitti contro la persona
qualora commessi da militare a danno di altro militare in
circostanze per la verità assai poco circostanziate (in luogo
militare, nel territorio estero nel corso di una missione e così
via).
Una così massiccia e pervasiva militarizzazione
dei reati comuni è destinata a ritorcersi gravemente non solo sugli
attuali assetti dell’ordinamento giurisdizionale, ma più
complessivamente su tutto sistema delle garanzie, producendo, da una
parte – diciamo sotto il profilo oggettivo - una drastica
compressione dell’area del controllo di legalità della giurisdizione
ordinaria a tutto vantaggio della giurisdizione militare.
Dall’altra, e quindi, sotto il profilo soggettivo, a una incauta
espansione della giurisdizione dei Tribunali militari anche ai non
militari.
4. Ma ciò che colpisce in modo particolare in
questo progetto è l’azzardo costituzionale, la temeraria operazione
da esso perseguita di aggirare surrettiziamente le norme
costituzionali in materia di giurisdizione militare. Basti pensare
all’abusivo utilizzo che è stato fatto delle disposizioni contenute
all’art. 103 della Costituzione, maldestramente utilizzate dal
disegno di legge per dilatare la sfera giurisdizionale di competenza
dei Tribunali militari. A questo proposito va, preliminarmente,
evidenziato che l’articolo 103, terzo comma, della Costituzione pone
limiti alla giurisdizione militare ma solo per il tempo di pace,
mentre attribuisce alla piena disponibilità della legge ordinaria la
determinazione della giurisdizione per il tempo di guerra. Così
ricorrendo ad una sorta di escamotage esegetico, il progetto
governativo sembrerebbe, da una parte, affrancarsi definitivamente
dalle disposizioni costituzionali previste per il tempo di pace che,
come si è detto, vincolano la competenza della giurisdizione
militare ad una ben circoscritta sfera di soggetti: gli
"appartenenti alle Forze Armate". E dall’altra, sembrerebbe, invece
farsi scudo della disposizione normativa contenuta al primo inciso
del terzo comma dell’art. 103 ( "i tribunali militari in tempo di
guerra hanno la giurisdizione stabilita dalla legge") per limitare
drasticamente l’ambito di azione della giurisdizione ordinaria. Ma,
nel far ciò, il progetto di delega sottopone (o meglio è costretto a
sottoporre) la nozione costituzionale "tempo di guerra" ad una
torsione interpretativa talmente profonda da farle assumere gran
parte dei caratteri tipici sottesi alla definizione di "tempo di
pace". D’altronde l’indistinzione pace-guerra è parte integrante del
disegno di legge delega. Un disegno che tende a contemplare al suo
interno un quadro alquanto flessibile e articolato di opzioni: le
azioni di peace keeping e il conflitto bellico, la difesa
armata e l’uso della forza, la pace e la guerra. La chiarezza con la
quale la Relazione introduttiva illustra le "virtuose" ambiguità di
questo modello è esemplare: nella legge di delega – si legge a
questo proposito a pagina 5 - "lo statuto penale delle operazioni
militari armate all’estero viene configurato – conformemente alla
crescita della loro importanza – in termini modulati … si va, cioè
dalla situazione estrema – quella della vera e propria guerra
difensiva – in decrescendo verso modulazioni diverse dell’uso della
forza militare, sostanzialmente fino al peace keeping, in
modo tale da assicurare la congruenza e la proporzionalità
dell’esigenza di coesione rispetto al contesto operativo generale
dell’azione militare".
5. La dicotomia costituzionale "tempo di pace –
tempo di guerra" viene così via via distillata dal disegno di legge
delega, fino alla sua pressoché integrale dissoluzione. Al suo posto
verrebbe, di converso, profilandosi una zona grigia dai contorni
normativi flebili e indistinti. E dicendo ciò non mi riferisco
soltanto alla esplicita istanza di conservazione – contenuta nella
delega - dell’automatismo della integrale applicazione della legge
penale militare di guerra ai corpi di spedizione all’estero in tempo
di pace (già sotteso, d'altronde, all’articolo 9 del c.p.m.g.). Ma
soprattutto al tentativo di sganciare definitivamente le
disposizioni contenute nel codice militare dall’istituto della
deliberazione dello stato di guerra ex art. 78 Cost. La lett. L)
dell’art. 4 del progetto menziona, infatti, espressamente la
possibilità di "applicazione della legge penale militare di guerra,
anche indipendentemente dalla dichiarazione dello stato di guerra",
non diversamente da quanto faceva l’art.2, primo comma, lett. d
della L. 31 gennaio 2002, n. 6 che, a tal proposito, stabiliva che
le disposizioni contenute nella legge "si applicano in ogni caso di
conflitto armato, indipendentemente dalla dichiarazione dello stato
di guerra". Il tentativo di aggirare le norme costituzionali sulla
guerra è, in questo quadro, evidente. Attraverso l’impiego di simili
escamotage si intende perseguire la definitiva rimozione sul piano
giuridico (oltre che simbolico) dell’istituto dello "stato di
guerra". Un istituto che dopo esser stato ripetutamente "circuito"
in questi anni (dalla guerra del Golfo all’Iraq) si vuole ora
espungere in tutte le sue implicazioni anche dalle leggi militari di
guerra: questa è la posta in gioco della partita che oggi si è
aperta. E a nulla valgono i contorsionismi interpretativi contenuti
nella Relazione introduttiva intenti a distinguere la nozione di
"tempo di guerra" da quella di "stato di guerra". La prima – si dice
- mera espressione di una situazione concreta e di fatto. La
seconda, invece, palese manifestazione di una volontà giuridica, di
"uno stato di diritto, che deve essere deliberato e dichiarato
secondo norme giuridiche interne". Tale discrimine interpretativo
non convince. È vero che delle differenze tra le due espressioni
esistono e che esse non fondano, come si è invece talvolta ritenuto,
una endiadi. Ma si tratta pur sempre di differenze di tipo
giuridico, che attengono cioè a due differenti nozioni giuridiche.
Entrambe le definizioni appartengono, in altre parole, al diritto.
Lo stato di guerra al diritto sostanziale (e costituzionale). Il
tempo di guerra al diritto processuale (e penale-miltare). La
Costituzione, utilizza non a caso il termine "tempo di guerra" in
alcuni contesti "giurisdizionali" ben definiti: a) nell’attribuire
alla legge la competenza dei tribunali militari (art. 103, 3 comma);
b) nel derogare alla norma che ammette il ricorso in Cassazione,
limitatamente alle "sentenze dei tribunali militari in tempo di
guerra" (art. 111, comma 7). Ne deriva che il tempo di guerra
non può che decorrere, sul piano giuridico, dalla dichiarazione
dello stato di guerra. È questo l’evento che segna l’entrata
in vigore delle leggi di guerra, la condizione risolutiva e
immanente della loro applicabilità. È quanto si evince, in modo
particolare, dallo stesso art. 3 del codice penale militare di
guerra nel quale troviamo scritto: "La legge penale militare di
guerra si applica … dal momento della dichiarazione dello stato di
guerra fino a quello della sua cessazione". E ipotesi speciali, di
deroga a questo principio - sebbene contenute in alcune disposizioni
dello stesso codice - sarebbe bene che restassero tali e non
venissero invece dilatate a dismisura con il rischio di trasformare
la deroga in principio, l’eccezione in regola.
6. Eppure di una riforma c’è bisogno. La prassi
parlamentare utilizzata per l’invio di missioni militari all’estero
ha, ripetutamente, in questo decennio, dimostrato come il nostro
ordinamento è giuridicamente sprovvisto di una normativa generale
idonea a disciplinare le differenti tipologie di utilizzo delle
Forze armate, in particolare al di fuori dei confini nazionali. Una
lacuna, questa, che, ha contribuito ad aggravare ulteriormente la
condizione di marginalizzazione politica delle Camere. Basti pensare
che a partire (perlomeno) dalla guerra nel Golfo, il coinvolgimento
del Parlamento nelle decisioni di politica militare è quasi sempre
avvenuto contestualmente o (ancora più spesso) successivamente
all’invio della missione. Di qui i ristretti margini di intervento e
di decisione delle Camere, generalmente coinvolte solo nella fase
successiva a quella dell’avvio delle operazioni militari attraverso
la mera approvazione di atti di indirizzo (spesso alquanto generici
nella loro formulazione) o (com’è frequentemente accaduto) solo in
sede di conversione dei decreti-legge di finanziamento delle
missioni.
La legge di riforma anziché contrastare tale
esito sembrerebbe però consolidarlo ulteriormente. Incrinatosi il
parallelismo funzionale che faceva discendere, in linea di
principio, l’applicazione delle leggi militari di guerra dalla
dichiarazione dello stato di guerra ex art. 87 della Costituzione,
il quadro normativo delineato dall’attuale progetto di riforma
appare soprattutto in alcuni suoi contenuti contraddittorio ed
evanescente. La delega tende, infatti, ad eludere questioni salienti
e nodi strutturali che non esiterei a definire di principio. A chi
compete dichiarare l’applicazione, in situazioni di crisi, delle
leggi militari di guerra? Con quali strumenti normativi? Qual è il
ruolo che il Parlamento è chiamato a giocare in questa partita?
Quali gli strumenti di garanzia? Tutte domande che, come si è visto,
rimangono all’interno del teso gravemente eluse. La delega al
governo risente infatti di una eccessiva duttilità di impianto
determinata dall’introduzione di principi e criteri direttivi
alquanto generici e controversi, alcuni dei quali aventi addirittura
una connotazione "macrosettoriale".
In un quadro, così caotico, sotto il profilo
normativo il Parlamento si trova ancora una volta costretto a subire
la marginalità della propria condizione nella determinazione
dell’indirizzo politico militare. E tutto ciò a esclusivo vantaggio
dell’esecutivo. Sarà infatti il governo che, nel recepire la delega,
dovrà, in maniera pressoché incontrastata, scegliere quali
strumenti impiegare, quali soggetti coinvolgere, quali soluzioni
normative privilegiare.
Ecco perché più che del progetto di legge io
sarei sin da ora seriamente preoccupato per l’attuazione concreta
che il governo intenderà dare ad una delega così ampia e generica.
Bisogna allora tentare di invertire la rotta e tentare di recuperare
un'altra idea di codice militare, incardinato sui principi
costituzionali, che riconosca la centralità del parlamento e
che soprattutto sia in grado di fare i conti con quel ripudio della
guerra che è parte integrante della Costituzione repubblicana e oggi
anche della coscienza politica di tanta parte dell’opinione pubblica
(italiana e internazionale).
La difesa della legalità democratica e della
Costituzione non può prescindere da tale impegno.
Dott. SERGIO DINI
Presidente dell'Associazione Magistrati
militari italiani
Io ero una dei membri della commissione che ha
steso il progetto di legge, anzi il più scarso il meno autorevole,
visto che si è parlato molto dell'incapacità della commissione,
quindi probabilmente sono il meno adatto per parlare di quello che è
stato fatto: primo, perché ho preso parte a questo mal progetto;
secondo, perché sono il più scarso di quelle che hanno fatto parte
di questo progetto, così mal venuto, e così sono il difensore meno
adeguato, forse sono stato invitato per quello proprio io, comunque,
senza entrare in polemica con nessuno, non starò ad affrontare punto
per punto quello che è stato affrontato con atteggiamento perlopiù
critico dagli altri colleghi che mi hanno preceduto, molte sono
state le censure, gli appunti non sia questo disegno di legge
delega, su alcuni sono anche d'accordo. Penso che si debba muovere
da una duplice premessa per cercare di capire le ragioni che stanno
alla base di questo disegno di legge delega. Le premesse sono
appunto due: al di là di ogni preconcetto ideologico, bisogna
comunque tener presente che effettivamente, oggi come oggi, la
distinzione pace/ guerra è sostanzialmente superata dai fatti. In
qualche modo il legislatore deve anche prendere atto di questa
situazione, che può piacere o può non piacere, a nessuno piace
l'idea della guerra, a nessuno piace l'idea del conflitto armato, ma
non si può neanche fare gli struzzi, e siccome non piace questo
fenomeno umano e sociale, che esiste da sempre, non si può dire
rinunciamo a pensarci, rinunciamo a predisporre qualsiasi tipo di
normativa riguardo. Tra l'altro, è stato detto, da uno di coloro che
sono intervenuti poc'anzi, questo è un fenomeno che non piace,
questo sempre più massiccio utilizzo delle forze armate, in termini
di legittimazione, interventi di guerra preventiva, in termini di
pacificazione, questi gendarmi del mondo, ripeto potrà non piacere
però è dal 82, quindi non sono pochi anni, dal 82 ad oggi, che sono
cominciate e sono state sempre più cospicue queste missioni militari
all'estero, e sono state avallate, sono state disposte dai governi
addirittura del pentapartito, di pre-Tangentopoli, parliamo del 82,
un'era politica fa, dal 82 ad oggi governi del pentapartito, governi
di tecnici, governi di centrosinistra, governi di centrodestra,
governi ancora del centrosinistra, hanno preso atto di questo
fenomeno e, ripeto, non si può far finta che non esista. Allora,
nascondere la testa sotto la sabbia, in questo caso, non è
produttivo, non dimentichiamo che fino a che, con recenti normative
successive al 11 settembre, si è preso atto che fosse opportuno,
doveroso disporre eventualmente l'applicazione del codice militare
penale di guerra a certi tipi di missione all'estero; il far finta
che il codice penale militare di guerra fosse un abominio, che
suonasse male, che fosse brutto il termine " guerra ", aveva creato
dei guasti, aveva creato dei problemi, non indifferenti, non
dimentichiamoci, siamo tutti di memoria corta, ma, ad esempio,
quello che è successo in Somalia, documentato fotograficamente più
volte, che ha fatto tanto gridare allo scandalo, ci sono state
commissione d'inchiesta parlamentare e quant'altro, quei fenomeni,
proprio perché non veniva applicato il codice di guerra che suonava
male, veniva applicato il codice di pace che suonava bene, e che era
politicamente corretto, ha fatto sì che quei fenomeni siano rimasti
sostanzialmente impuniti, perché in realtà nel codice penale
militare di guerra, già come formulato adesso, sono molto più
tutelati i soggetti deboli dei conflitti, i feriti e malati
prigionieri, di quanto non lo siano nel codice di pace, che però
suona bene, allora facciamo suonare bene, tranquillizziamo
l'opinione pubblica, mandandole col codice di pace e però
freghiamocene di quelle che sono le ricadute concrete in termini di
effettiva tutela. Quindi dico: prima premessa, non facciamo finta
che questo fenomeno non ci sia, che è stato riconosciuto in qualche
modo come ormai storicamente in corso da qualsiasi forza politica;
seconda premessa, i tribunali militari attualmente non lavorano, non
lavorano più, quanto meno se hanno lavorato in passato adesso non
lavorano sostanzialmente più, ci sono tribunali militari che fanno
quaranta sentenze all'anno, divise su due magistrati, 20 sentenze
all'anno per magistrato, nessuno degli organi giudiziari di primo
grado va oltre credo le 150 200 sentenze divise tra 2 o tre
magistrati, non so fare calcoli di quanto costa ogni sentenza al
contribuente, ma è evidente che è una situazione assolutamente
insostenibile e impresentabile. Queste sono le due premesse e
prendiamo per buono, perché è vero tutto quello che hanno detto i
colleghi, circa attuale ìrrazionalità delle competenze, duplicità di
processi, allora da queste due premesse ne discende un obbligo
assoluto: bisogna che qualcosa in termini di riforma venga fatto.
Questa situazione, ripeto, assolutamente impresentabile
politicamente, moralmente, perchi lavora anche all'interno dei
tribunali militari è penoso spesso scontrarsi con questa pochezza
lavorativa, sapere che a fine mese si prende lo stipendio dopo aver
fatto solo due sentenze, in questo senso dico forse è anche
un'esigenza corporativa, certo che anche l'esigenza corporativa di
lavorare di più, per venire incontro anche alle frustrazioni dei
colleghi, se questo vogliamo dire essere una tutela corporativa bene
questo è anche un intervento di tutela corporativa. Detto questo,
quali sono le soluzioni? Sono stato fino a poco tempo fa, e per
certi aspetti lo sono tuttora, aperto ad ogni tipo di intervento che
risolva questo problema, questo problema,ripeto, assolutamente non
procrastinabile. Allora, le soluzioni sostanzialmente sono due, in
realtà si è accennato poco all'altra soluzione rispetta quella del
disegno di legge delega, alcuni non hanno fatto proprio cenno a
possibili disegni alternativi, invece se dobbiamo parlare seriamente
bisogna dire che, non solo questo non va bene, questa è una
costruzione fatta male, questo è un progetto fatto male, bisogna
anche dire facciamo quest'altro, non si può dire questo fa schifo
lasciamo tutto così come, che fa schifo lo stesso, anzi di più.
Allora due soluzioni: una, sicuramente perfettibile, infatti essendo
un disegno di legge delega, come tale, come disegno di legge, è
aperto alle discussioni, agli apporti dei politici, non è che la
commissione ha fatto un disegno di legge delega e pretende che sia
ratificato così come è dal parlamento, è perfettibile sicuramente,
in varie parti, non così tante poi in realtà, secondo me, come si è
voluto dire fino adesso, ma sicuramente perfettibile. Primo, disegno
di legge, la prima ipotesi di soluzione è quindi quella data da
questo disegno di legge delega, cioè il mantenimento della struttura
del tribunale militare, c'è questo contenitore, attualmente
semivuoto, se non vuoto, riempiamo questo contenitore diamo
contenuto a questo contenitore che in qualche modo viene mantenuto,
e a cui viene data una qualche utilità, l'altra soluzione
praticabile sarebbe, come accennato qualcuno di coloro che è
intervenuto precedentemente, l'eventuale soppressione dei tribunali
militari e la devoluzione al giudice ordinario delle attuali scarse
competenze dei tribunali militari, però c'è da dire questo, credo
sia senz'altro più semplice, riempire di contenuto questo
contenitore che non da smaltire il contenitore, abolire il
contenitore che ha una procedura di smaltimento, se vogliamo così
dire, molto più complicata perché volenti o nolenti i tribunali
militari sono previsti dalla costituzione, e allora, con ogni
probabilità bisognerebbe affrontare una riforma di carattere
costituzionale, che non credo sia proprio, in questo momento, tra le
priorità delle forze politiche, di qualsiasi estrazione, credo ci
siano altri problemi, dal punto di vista costituzionale in materia
penale, gran parte dei problemi ancora in vigore. Quindi da una
parte si sarebbe una procedura molto più articolate complessa,
difficile, qual è una riforma costituzionale e dall'altra, sarebbe
veramente la montagna che partorisce il topolino, perché non
risolverebbe gran parte dei problemi sul tappeto, allora per questo
io dico, posto che una soluzione a questo problema va data per le
ragioni che abbiamo appena detto, e posto che la soluzione, allo
stato più semplice più praticabile, come poi vedremo eventualmente
in maniera più dettagliata, non così sballata come si vuol far
passare, è quella del mantenimento dei tribunali militari con un
adeguamento delle loro competenze. Perché dico che non è così fuori
dal mondo questa ipotesi di cui al disegno di legge delega? Ho
sentito delle argomentazioni, in realtà suggestive, ma per lo più
fuorvianti, perlomeno secondo me fuorvianti, si è insistito molto,
da parte di alcuni, sul pericolo insito nell'ampliamento di
competenze dovute all'eventuale applicazione della legge di guerra a
situazione non riportabili alla guerra in senso stretto, ma ai
conflitti armati, dimenticando però che la dizione " conflitti
armati internazionali " e la dizione " conflitti armati interni ",
non è una dizione così peregrina e inventata da coloro che hanno
fatto parte di questa commissione bensì è ripresa dai protocolli
addizionali, dalla convenzione di Ginevra del 77, e lo stesso
disegno di legge delega prevede espressamente, in particolare, cosa
si debba intendere per conflitti interni. Questo è il problema che
si è paventato, si è evocato lo spettro di Genova dicendo:
attenzione che con questo tipo di normativa Genova si poteva
impiegare il codice di guerra, io dico che questa è in realtà a una
sciocchezza, a Genova non si sarebbe mai potuto applicare il codice
di guerra, assolutamente, non con questo tipo di normativa, perché
basta leggerla con un minimo di attenzione che si capisce come,
quando si parla di conflitto interno, si parli, riprendendo ripeto
la dizione dei protocolli addizionali di Ginevra, " ai conflitti
interni tra gruppi di persone organizzati che si svolgano colle armi
all'interno del territorio dello Stato e che raggiungano la soglia
di una guerra civile o di un'insurrezione armata ", è evidente come,
e infatti si dice espressamente, " si escludono dai conflitti
interni le situazioni interne le situazioni di disordine o di
tensione quali sommosse o atti di violenza isolati sporadici, o
altri atti analoghi ", è evidente come la soglia di conflittualità
richiesta perché scatti eventualmente la possibilità di applicare il
codice penale militare di guerra è tutt'altra, non sono gli scontri
di piazza, non sono le manifestazioni di piazza, non sono la rivolta
del pane, anche questa di risorgimentale memoria, con uso di
artiglieria contro i dimostranti, non sono queste le ipotesi, sono
dei conflitti interni tra gruppi di persone organizzati e che si
svolgano con le armi all' interno del territorio dello Stato
raggiungano la soglia della guerra civile, che è tutt'altro rispetta
Genova e rispetta manifestazioni di scioperanti. Ecco, quindi,
evocare lo spettro di Genova per dire attenzione con questo disegno
di legge delega si applica il codice penale militare di guerra al
generale dei carabinieri, o al capitano dei carabinieri, che stava
Genova, con tutto ciò che ne consegue in termini di procedibilità a
richiesta del ministro della difesa, è una menzogna e nella realtà,
una menzogna che va assolutamente, precisata, e smentita. Quindi,
questo tipo di problema su cui ho sentito molto insistere, ovvero
pericolosità del disegno di legge perché amplierebbe la
giurisdizione penale militare a situazioni a soggetti che è
assolutamente non possono essere ricompresi perché si evocherebbero
spettro della guerra civile, è una cosa fuorviante. Non precise,
parimenti, sono, devo dire, le affermazioni circa la mancanza di
precisione nei criteri di delega per quanto riguarda, ad esempio,
reati quali la sedizione o altro, per cui mancherebbe, o si
sarebbero problemi in termini di offensività, sarebbero
eccessivamente pericolosi in termini di libertà di manifestazione
del pensiero quant'altro, in realtà, uno dei primi criteri delega
parla proprio di adeguare la legislazione penale militare al regime
di offensività, quindi anche in questo caso se è vero che si prevede
in questo disegno di legge delega, tra le altre cose, il
mantenimento del reato di sedizione ma, per esempio, si dice sulla
base di un principe di offensività, cosa che finora non è. Ultimo
problema, diciamo così, non intendo essere troppo lungo nell'
intervento, si è anche detto perché devono essere tra reati militari
determinati comportamenti, qual è il senso di militarizzare
determinati reati, in realtà è anti storico, non si capisce
costituzionalmente a cosa a pendere a, cosa attaccare, come
giustificare costituzionalmente certe norme di delega, l'inserimento
dei reati contro l'amministrazione della giustizia militare, reati
di stupefacenti in ambito militare, reati contro la pubblica
amministrazione, intesa con l'amministrazione militare. E realtà, i
criteri costituzionali di riferimento se si vuole cercarli ci sono,
gli articoli 3, 52, 97, 11 della costituzione, sono tutte norme
costituzionali che hanno in qualche modo riferimento a beni di
interessi militare, valore militari costituzionalmente garantiti,
non parlo solo appunto dell'obbligo di difesa della patria, ma
l'obbligo di difesa della patria uno dei valori costituzionali
assolutamente importanti e strumentali, funzionali a questo, poi ci
sono altri valori, non dimentichiamo anche che, sempre in
costituzione, troviamo l'affermazione che le forze armate si
improntano allo spirito democratico che deve informare in qualche
modo il Paese tutto e allora anche la tutela più marcata dei diritti
della persona attualmente sicuramente estranea al codice penale
militare, è funzionale a quella tutela dello spirito democratico che
deve informare le forze armate, così pure le stesse per il bene
della pace, di cui parla l'articolo 11, trova una sua manifestazioni
di tutela, trova degli argomenti, dei momenti di tutela in alcune di
queste norme di legge delega, quindi vediamo come non sia vero che
la costituzione non dica nulla circa i criteri cui si debba
improntare il concetto di reato militare, la costituzione se si
legge con attenzione, non pretendo di essere uno dei lettori più
attenti della costituzione, ma neanche uno dei più disattenti, la
costituzione dei criteri, dei valori di interesse militare li ha
dati, la legge delega, si badi bene, non ha militarizzato tout court
qualsiasi reato comune commesso dai militari, cioè se qualcuno
picchia suo figlio a casa sua, fa maltrattamenti in famiglia, non
viene giudicato dal tribunale militare. Cioè il carabiniere o il
bersagliere che fa mancare l'assegno di mantenimento al coniuge, non
commette per questo reato militare, perché in costituzione non c'è
nessun aggancio a questo tipo di reato, ovvero non c'è un interesse
militare sotteso a questo tipo di comportamento assolutamente
privatistico, in costituzione troviamo degli agganci legati al buon
funzionamento dell'amministrazione, intesa anche come pubblica
amministrazione militare, quando si parla di tutelare il buon
funzionamento e l'imparzialità dell'amministrazione, ecco questo è
un valore costituzionale cui bene si attacca la legge delega quando
parla di reati contro l'amministrazione militare in termini di
corruzione, peculato, concussione, o quant'altro, non è
un'invenzione di coloro che hanno fatto parte di questa commissione,
non è un'invenzione di questo disegno di legge delega, di inserire
questo tipo di valori come oggetto di tutela da parte di queste
norme. Per tanto, ripeto e con questo concludo perché l'ora è tarda
e sarebbe troppo lungo entrare sui singoli punti trattati dai
colleghi che peraltro sono stati molti, non si può assolutamente
ritenere praticabile il mantenimento di questa situazione, e il dire
questo disegno di legge non va bene serve solo a procrastinare alle
calende greche, per l'ennesima volta, una riforma che invece a
questo punto, ripeto, è assolutamente improrogabile. Non so come
reagirà, perché prima o poi cittadini lo sapranno, come reagirà il
cittadino quando saprà che ci sono degli organi di giustizia così
sotto occupati, questo tipo di riforma sarebbe comunque bene perl'amministrazione
della giustizia in senso lato, perché comunque è vero che mancano
statistiche su quanti reati comuni verrebbe attualmente recuperati
dai tribunali militari ma, per esperienza diretta, vi assicuro che
non sono assolutamente così pochi come si è voluto far credere e
quindi sicuramente verrebbe reso un servizio al mondo della
giustizia, del quale la giustizia militare fa parte, tanto quanto la
giustizia ordinaria, non so ripeto, come reagirà il cittadino quando
saprà che da anni c'è una struttura sottoccupata di cui fanno parte
100 magistrati circa che chiedono di lavorare di più, che possono
lavorare di più, hanno le capacità tecniche per lavorare di più e
meglio, e vengono lasciarti in uno stato di sostanziale
inoccupazione.
Dott. FALCO ACCAME
Presidente dell' ANAVAF.*
Quando ero presidente della Commissione Difesa,
la prima proposta che feci fu quella del riordino dei codici
militari di pace di guerra. Mi sembrava una cosa urgente già allora,
nel 77. È quindi con un po' di emozione che torno a parlarne oggi,
25 anni dopo. Tutto questo tempo trascorso vuol dire che c'è stata
un'enorme indifferenza rispetto ad un problema che a me invece è
sempre sembrato urgente. Vorrei fare una premessa, forse un po'
astratta, a questo discorso che stiamo facendo. Credo che in qualche
modo quando si affrontano questioni tanto fondamentali si debba
guardare anche al retroterra " filosofico", al contesto culturale
entro il quale un processo matura. I codici del 40, a cui adesso si
sta rimettendo mano, sono codici che, erano ispirati alla filosofia
del tempo. Codici che potremmo definire, per così dire, hegeliani,
in cui si concepiva una specie di totalità militare. Da quel tempo,
anche filosoficamente, è passata molta acqua; c’è stata la
fenomenologia, l’esistenzialismo, sono cambiate molte visioni del
mondo, l'essere di Heghel ha subito altre interpretazioni,
sviluppato altri riflessioni, e il suo intreccio con il pensiero
della fenomenologia ha prodotto un nuovo rapporto tra il soggetto
e l'essere, che è fondamentale per affrontare questioni
nodali come questa. Un problema di rapportabilità che dunque non può
essere eluso. Credo quindi che dobbiamo distaccarsi da quella
concezione hegeliana che ha ispirato i codici del ’40. Secondo me
c’è poi un altro aspetto di questo problema; credo che molti si
ricordano, almeno dagli studi liceali, il concetto di Heghel sulla
guerra come purificatrice dei popoli. Per fortuna molta acqua è
passata anche da quel modo di pensare. Questo è dunque per me il
punto fondamentale. Almeno da dieci anni a questa parte si è aperta
una frattura in questa dicotomia. In questa dualità di guerra e di
pace si è inserito un nuovo elemento, che non è né di guerra né di
pace. Oggi siamo di fronte una visione triale, quindi anche questa
impostazione dei codici, ancorata alla dualità pace e guerra, è a
mio avviso assolutamente superata, anzi lascia fuori quell'elemento
terzo, di mezzo, che è l'elemento dominante oggi, e che non è
sufficientemente indagato. Noi oggi ci muoviamo in un campo
intermedio tra pace guerra. E qual è, in questo nuovo contesto,
l'elemento discriminante? L'elemento discriminante, sono le norme di
ingaggio. Il momento in cui si stabilisce che ci sono delle norme di
ingaggio, che si può sparare, che quindi si può uccidere e si può
essere uccisi, determina un cambiamento rispetto ad una situazione
di pace, in cui questa situazione di ingaggio non vive, non esiste.
Quindi noi non dobbiamo e non possiamo più affrontare questo
problema a partire dalla vecchia dualità, ma introdurre nella nostra
analisi, questa componente terza che poi è diventata un discrimine
fondamentale. Da quanti decenni non si fanno più dichiarazioni
ufficiali di guerra e tuttavia si usano le armi? Vediamo un esempio:
cosa è successo in Somalia? Era un'operazione meno cruenta di
un'operazione di peace-keeping perché doveva trattarsi di
un'operazione di puro soccorso umanitario, che però ha prodotto
10.000 morti, alcuni anche nostri. Come li qualifico, in quale campo
inserisco quei morti? E visto che io rappresento l'associazione che
tutela le vittime delle forze armate proprio nel cosiddetto tempo di
pace, a quei morti, alle vedove di quei soldati uccisi, agli orfani,
spetta una pensione di guerra, o no? Allora, anche traducendo le
questioni in banali vicende esistenziali noi vediamo che c'è un
grosso vuoto da colmare. Pensiamo, per esempio, cosa succede adesso
a Nassyria e dintorni, tanto per restare nell’attualità. Noi abbiamo
mandato delle truppe, dei reparti con delle regole di ingaggio,
pronte a sparare, ad uccidere e ad essere uccise. Nel momento
dell’attentato, in cui arriva l'autobomba fosse stata in vigore la
disposizione, così come il codice di guerra - magari un po'
antiquato, ( articolo 52, credo ) - dice, ci sarebbe stata
l'immediata sospensione del comando che non attua tutte le difese di
una fortezza, come è successo appunto in questo caso; perché i morti
ci sono stati per un’inadeguata difesa esterna alla base. Allora, in
questa situazione, di non pace ma nemmeno di guerra dichiarata dal
Parlamento, come si procede? Leggevo l'altro giorno che il Tribunale
di Roma, il Tribunale civile per distinguerlo da quello militare,
avrebbe l’incarico, nel caso si riuscisse ad individuare gli
attentatori - e sulla parola attentatori c'è da fare qualche
riflessione - di giudicarli a Roma. Questa è una cosa che rasenta
l'assurdo: io stentavo a crederci nel leggerlo, perché è chiaro che
se c'è stata un'operazione di guerriglia, o di guerra, un
combattimento, cioè se ci sono state le disposizioni a Nassyria per
fermare gli attentatori e fossero stati giustamente colpiti prima
che potessero arrivare con l'autobomba, allora cosa sarebbe successo
sul piano "legale"? Su questo pronto dobbiamo riflettere. Quello in
Siria viene definito attentato, ma non lo è. Un attentato è tale
quando ci sono dei civili inermi indifesi, in un autobus o in una
discoteca, in un teatro, ma civili e indifesi, mentre qui siamo di
fronte a dei militari che si debbono difendere, perché ci sono
regole di ingaggio, che, in questa circostanza, non hanno funzionato
perché non c'erano le difese appropriate, ma questo è altro
discorso. Dobbiamo riflettere quando diciamo che è stato un
attentato; no, questo non è stato un attentato, questa era un'azione
di guerriglia che in queste situazioni è sempre possibile, così
com'è stato possibile il check-point pass. Non ha fatto
riflettere nessuno il check-point pass? Ecco un altro punto
che vorrei introdurre nella disamina. Questo secondo punto riguarda
una questione che non è rimasta al margine del dibattito, ma che per
me è fondamentale e riguarda la competenza. Fino a quanto queste
problematiche generali e influenzano la collocazione dei Tribunali
militari. Oggi si insegna la teoria degli insiemi anche ai bambini
delle elementari; quindi, prendiamo un insieme globale che può
essere la giustizia in senso generale, e prendiamo un insieme più
particolare che può essere la giustizia militare. Come si combinano
le posizioni di questi insiemi? Tutti coloro che hanno studiato un
po' di algebra o di diagrammi, l'insiemistica, come la si chiama,
hanno presente quali sono le operazioni che si fanno tra due
insiemi. E allora, prendiamo questo piccolo insieme della
magistratura militare: come si può collocare rispetto all’insieme
più globale? Queste sono le riflessioni di fondo che bisogna fare.
Si può "collocare" all’esterno, oppure inquadrarlo completamente
dentro; in termini linguistici essere una sineddoche, una parte per
il tutto, essere inserito del tutto dentro, oppure in parte incluso
e in parte escluso? Questo è per me il punto su cui bisogna, credo,
ragionare. Personalmente ritengo che il tribunale militare dovrebbe
essere un ambito di competenze militari. Quest'ambito di competenze
militari, sul quale vorrei soffermarmi perché è ciò che più
m'interessa, si colloca indubbiamente in uno spazio di congiunzione
tra questi insiemi, perché da una parte, evidentemente, non può fare
a meno dell’insieme globale, dell'essere globale della giustizia, e
dall'altra parte non può fare invece a meno di quella specifica
competenza, senza la quale, a mio parere, è problematico giudicare
situazioni in cui sono coinvolti dei militari. Spesso queste
situazioni particolari, specifiche, hanno punti di contatto con le
situazioni civili, ma se ne differenziano, e solo che ci vive
dentro, chi le conosce profondamente da dentro - forse, se posso
fare una critica a tutto l'ambito della magistratura militare, è che
manca un po' più di immedesimazione e di conoscenza reale
dell'ambito militare – ha la competenza sostanziale per arrivare a
un giudizio. Comunque, questa competenza c’è, ed è certamente
superiore a quella che può avere un magistrato civile anche se il
problema della competenza, a mio parere dovrebbe essere inquadrato
nell'ambito della giustizia generale. Traducendo in termini
particolari quel che è stato detto, con delle sezioni effettivamente
specializzate che, da una parte, hanno l'orecchio attento a quell'essere
globale che è alla giustizia e, da una parte, hanno l'altro orecchio
attento a quella che è la conoscenza specifica delle situazioni
militari. Quindi, io credo che ragionando su questa questione degli
insiemi, su come si combinano questi insiemi, è lì che noi dovremmo
trovare la condizione più giusta, tenendo conto di tutte le
considerazioni che ho fatto. Per avvalorare quanto detto, vorrei
citare qualche episodio che mi è capitato di trattare nei venti anni
circa in cui vive l’ANAVAF. Ho già fatto un accenno alla questione
di Nassyria, ma vorrei inserire in questa questione anche un altro
aspetto, dal mio punto di vista, molto grave. Tutti noi abbiamo
visto i reportages televisivi di questi ultimi tempi. C'è
qualcuno di voi che abbia visto una pattuglia dei nostri militari
indossare delle mascherine protettive? Ebbene se guardate, l' "
Avvenire " di ieri (22 febb) ha quasi un’intera pagina dedicata ai
bombardamenti in Iraq, con armi ad uranio impoverito proprio nella
zona meridionale dove sono dislocate le truppe italiane. Gli inglesi
hanno dichiarato di aver buttato lì 1,9 tonnellate di armi
all’uranio; ebbene, chi è responsabile del fatto che i nostri
soldati, e lo abbiamo visto, non usano nessuna precauzione? Se
queste precauzioni sono indicate, perché non le vediamo applicate? E
se, tra un anno, o quattro o cinque mesi, cominceremo avere primi
malati e i primi morti, a causa dell’uranio impoverito, allora di
chi sarà la responsabilità? Chi non ha eseguito gli ordini? Non è né
una situazione di pace, né una situazione di guerra; ma è una
situazione in cui probabilmente sono state impartiti degli ordini, o
quantomeno date delle norme, e queste norme non sono state
rispettate. Non so se sarà la magistratura civile o la magistratura
militare a intervenire su una questione così grave, perché anche
oggi ho dovuto segnalare l'ennesimo caso di morte nel poligono di
Salto di Quirra per una possibile contaminazione da uranio, una cosa
molto delicata quindi. In Afghanistan è lo stesso; certo, io sono
stato un sostenitore perché lì venisse adottato il codice di guerra.
Ma questo, perché? Perché, anche dal punto di vista dei militari,
almeno fosse garantita alle vedove, agli orfani, qualora qualcuno
fosse morto, un trattamento adeguato e secondo la normativa
internazionale di Ginevra. Per questi motivi, almeno per me diventa
chiaro, come affermavo prima, che il terrorista deve essere
giudicato come prigioniero di guerra. Persino Saddam Hussein è stato
considerato tale. E un tribunale civile, è veramente preparato ad
affrontare queste questioni? Beh, se il magistrato, è persona
intelligente, ragiona, si può "informare", però, è in questo momento
che entra in gioco la competenza. Chi ha avuto esperienze, chi
conosce profondamente la materia, deve poter valutare, e non chi è
alle prime armi e può avere delle difficoltà ad affrontare una
materia tanto complessa e particolare. Vi cito qualche altro
episodio che mi è capitato in questi anni: due alpini sono caduti da
un elicottero da 50 metri di altezza, sono morti. La vicenda secondo
me implicava una grossa competenza particolare e specifica. Quell'elicottero
era in missione militare di semplice trasferimento o era in missione
antiguerriglia, come dichiarò a suo tempo il sottosegretario Bosi?
Queste valutazioni è difficile che vengano correttamente considerate
da un tribunale civile, più che magistrati specificatamente
competenti in questo campo. A bordo dell'elicottero c'era un
colonnello, cosa ci faceva il colonnello sull'elicottero? Chi era il
responsabile ultimo, il colonnello o chi altro? Quali norme sono in
vigore in una situazione come questa? La questione nella sua
complessità, credo sia stato affidata ad una giovane magistrata di
Lecce, che probabilmente avrà avuto non poche difficoltà ad
affrontare questo caso che, per l'appunto, esige una grande
competenza e una vasta conoscenza nel campo militare. Cito qualche
altro episodio: i paracadutisti che sono morti a Pisa, Lucca, perché
non si è aperto il paracadute. Alla fine credo sia stato condannato
il generale Loi. La complessità dell’inchiesta, il processo, il
travaglio che è ha comportato, per un Tribunale civile assolutamente
impreparato ad affrontare una tematica così intricata, lo dobbiamo
ad un magistrato molto tenace e scrupoloso nel portarlo avanti e
giungere alla sentenza finale. A mio parere sarebbe stato molto più
corretto e forse anche più semplice se fosse stato affidato ad un
tribunale militare come la materia richiedeva. Guardiamo qualche
altro caso. I piloti degli aerei AMX, che sono morti per es. 3 in
sei mesi. Si tratta di valutare dunque se questo è un aereo sicuro o
meno. Io ero a Torino quando cadde il primo con il collaudatore, al
primo volo, e ho seguito con passione gli sviluppi giudiziari di
tutta la vicenda e proprio per questo motivo posso affermare che i
tribunali civili non possono essere all’altezza di una materia tanto
specifica per cui è necessaria una particolare competenza in campo
militare. Queste sono questioni, ripeto, che esigono, a mio parere,
delle sezioni specializzate e delle persone specializzate. Sollevo
ancora qualche dubbio in merito ad altre questioni, per es.
l'impiego dei servizi segreti, questione estremamente delicata. Il
personale dei servizi segreti militari è personale militare o
civile? Io ancora non l'ho capito. Le problematiche interne, le
deviazioni, le trasgressioni dei servizi segreti militari da chi
dovrebbero essere giudicate? Da magistrati civili o da magistrati
militari? Personalmente credo che dovrebbe essere la magistratura
militare ad avere competenza e conoscenza specifica riguardo i
servizi segreti, perché da questo dipende molto della democrazia del
nostro Paese, eppure questioni così delicate e difficili vanno a
finire nei tribunali civili. Abbiamo assistito a processi dove
certamente la competenza nello specifico, mancava assolutamente.
Prendiamo il caso Mitrockin, su cui a mio parere, doveva intervenire
la magistratura militare, perché i servizi segreti per anni hanno
avuto questi documenti e non hanno fatto assolutamente niente e
questa mancanza ha condotto ad una situazione aberrante, perché non
è pensabile, che in ambito civile ci siano dei conoscitori profondi
di come deve funzionare un servizio segreto militare. Io ne dubito,
ecco perché la competenza è un grosso problema. Ancora ultimo
elemento, anzi due. Uno riguarda moltissimo il tipo di operazioni
che vengono condotte, si è accennato alla Somalia, ad esempio, e al
ruolo della polizia militare. Questo ha dell'incredibile.
È uscito un interessantissimo libro, " La polizia
militare ", unico al mondo in questa materia, scritto da un
colonnello Giuliano Ferrari. Il colonnello così conclude il suo
libro "... al termine di tale arduo percorso verranno tratte le
conclusioni e soprattutto si provvederà a verificare se un
itinerario concettuale così lungo e articolato avrà consentito di
raccogliere intorno alla polizia militare idee più chiare di quelle
attualmente diffuse, poche, confuse e poco consistenti". Ora,
fermiamoci a riflettere un attimo su cos'è la polizia militare, sul
ruolo che deve svolgere e che svolge. Nonostante abbia letto con
attenzione questo libro interessantissimo, io non sono ancora
riuscito a capirlo. Allora, in una simile "baillamme", come si fa a
valutare le questioni che riguardano la polizia militare se non si
sa che cos'è la polizia militare? Per affrontare una riforma dei
codici, bisogna almeno sapere che cos'è la polizia militare, quali
sono i suoi compiti e le sue competenze. Quelle violenze che furono
fatte in Somalia furono compiute dai carabinieri del Tuscania, che
era la stessa polizia militare e che doveva prevenire queste
violenze. Come si è risolta questa delicatissima questione? È stata
spalmata tra tante procure civili che non hanno nessuna competenza
in materia. Se io che da anni lavoro in questo campo, non so bene
cosa sia la polizia militare figuriamoci cosa ne possono sapere dei
magistrati civili. Quali sono i doveri, quale legge li stabilisce,
questo non è detto da nessuna parte, siamo nel campo delle mere
ipotesi e solo una vasta esperienza nel campo può aiutare a dirimere
la materia. Ancora un argomento, l’ultimo, del quale mi sono dovuto
occupare. È acquisito ormai, che non abbiamo avuto solo la Gladio
nota in tutto il mondo, quella dei 622, ma anche "gladiatori" di
altra natura, che hanno operato armati all'estero, ad esempio, in
Tunisia, hanno avuto un ruolo operativo nella deposizione del
presidente Burghiba. Dunque c’erano alcune persone, interrogate
dalla procura di Roma nel 2000, le quali agivano, in un ambito
assolutamente anticostituzionale perché le forze armate dipendono
dal Presidente della Repubblica. Ciò che è potuto succedere è stato
dunque che avevamo delle forze armate che operavano al di fuori di
ogni contesto costituzionale. Alcune delle persone che hanno agito
in questo ambito, sono ancora vive; due di loro erano qui a Roma
pochi giorni fa ad un convegno quindi sono persone in carne e ossa,
e interrogabili ecc. Possiamo comunque immaginare quanta competenza
in campo militare sia richiesta per indagare quale fosse il ruolo di
questo gruppo di gladiatori che è appurato, addestrava guerriglieri
all'estero, in tutte parti del mondo. Proprio in questi giorni è
uscito libro, " I misteri del caso Moro "di Giuseppe Ferrara, che
nel frontespizio riporta un documento di estremo interesse su questi
gladiatori. Uno di loro fu inviato prima del 16 marzo 78, giorno in
cui viene rapito moro, a Beiruth, prima ancora del rapimento moro,
per fare intervenire i nostri servizi segreti di stanza a Beiruth.
Ho cercato di portare dunque nel dibattito la mia lunga esperienza
in un campo tanto delicato e specifico, riportando qualche esempio
tra i tanti, che come Presidente di quest'associazione mi è sembrato
particolarmente significativo. A partire da questa mia esperienza
ancora più evidente appare la necessità di investire investite in
una riforma delle legge vigente, perché molte di queste cose di cui
ho parlato finiscono per sfuggire al codice militare di pace o
comunque non possono essere trattate con la dovuta competenza. La
mia posizione su quanto si è detto è che innanzi tutto manca una
premessa di carattere generale, un retroterra generale. Manca una
suddivisione della materia in tre campi: il campo della guerra, se
vogliamo, il campo della guerriglia, il campo della pace. Quello che
io chiamo il campo della guerriglia, è quello preminente oggi.
Perché una parte delle missioni, che riceve delle regole d'ingaggio
ed quindi è pronta ad usare le armi, per me rientra in questo
specifico. E manca soprattutto l’innesto di una specifica, profonda
competenza del militare nel campo della magistratura civile. Senza
affrontare questi argomenti credo che i cambiamenti che si possono
fare, o che si faranno, saranno quanto meno parziali e inadeguati.
* intervento non rivisto dall’Autore
Dott.
ANTONIO INTELISANO
Procuratore della Repubblica presso il Tribunale
militare di Roma
Prima che iniziasse il convegno mi era stato
richiesto se avevo intenzione di intervenire e, con un’abusata
battuta, avevo risposto che "c’è il momento di parlare e il
momento di ascoltare". Siamo alla vigilia di audizioni al Senato
e quindi mi sembrava opportuno, più corretto, riservare le mie
considerazioni ad altra sede. Prendo invece la parola, molto
volentieri, perché credo che sia necessario fare un discorso sul
metodo, perché ho sentito degli interventi molto appassionati ma
personalmente ritengo che qualche considerazione metodologica anche
senza particolare enfasi, vada fatta. Siamo di fronte a un problema
complesso, quello della riforma dei codici, e forse bisogna
procedere con approcci successivi.
Partiamo dalla legge penale sostantiva. Tra la
legge penale sostantiva e la parte ordinamentale non c’è un rapporto
di necessaria corrispondenza biunivoca: in ambito Nato – è stato
anche ricordato questa sera – ci sono certamente dei Paesi che hanno
una parte speciale della legge penale, un codice penale militare, ma
non demandano la cognizione dei reati militari a strutture speciali
quali sono i tribunali militari.
Quindi non c’è un rapporto di immedesimazione.
Allora segmentiamo il discorso e partiamo dalla parte sostantiva.
C’è davvero la necessità di una revisione, che poi essa venga fatta
con una corposa "novella" legislativa o con una revisione
complessiva, con un nuovo codice è aspetto secondario.
Però, abbiamo già una sicura fase di partenza, il
disegno di legge governativo. Da questo punto di vista, la
precisazione tecnica in che cosa consiste? E’ stato detto: ma qui si
vuole contrabbandare per reato militare il reato comune. Questo non
è assolutamente vero, perché se noi andiamo a vedere l’attuale
struttura del codice vigente troviamo, lo ricordo a me stesso, reati
esclusivamente militari e reati obiettivamente militari, non
troviamo più i reati militarizzati a seguito della riforma del 1956.
Troviamo anche delle fattispecie che a parte i
casi di concorso di civili e militari nello stesso reato militare,
possono essere realizzate (articolo 14) da chiunque, anche dal
civile, "da solo".
E’ questo perché? Perché il carattere di
complementarità del codice del 1941 pose il legislatore di fronte a
questa scelta: utilizzo del codice penale comune nelle parti in cui
c’è l’offesa di un bene o di un interesse militare e creazione di
fattispecie diverse, di fattispecie nuove, autonome, che possono
avere come soggetto attivo chiunque. Ecco, nella formulazione di
questo progetto, che è stato alla base dei lavori della Commissione,
si è dovuto necessariamente, dato il criterio di "novella"
legislativa, seguire questa ripartizione, tenendo conto che i reati
cosiddetti militarizzati erano il risultato di una scelta, di una
tecnica normativa particolare, perché invece dell’integralità si era
scelto questo criterio di etero–integrazione della legge penale
militare. Nella fase della revisione è stato seguito anche il
criterio della tutela dei beni e degli interessi militari, ed è
quello il criterio che in questa prima approssimazione ci interessa,
per cui anche la previsione, per quanto possa sembrare stravagante,
dei comportamenti che, in vista della cosiddetta esternalizzazione
dei determinati servizi possono essere compiuti da chiunque, non è
poi così stravagante se si tiene conto del criterio dell’interesse
leso. L’interesse leso naturalmente non corrisponda a una necessaria
attribuzione della competenza di quel reato all’organo speciale, al
tribunale militare.
Questo è un discorso diverso. Adesso andiamo al
secondo aspetto della questione: l’articolo 103 III comma della
Costituzione italiana che oggi è stato citato più volte, ha messo
dei "paletti" ben precisi. La Costituzione ha guardato ai
tribunali militari con un certo sospetto, tant’è che, con la
delimitazione almeno in tempo di pace della speciale giurisdizione,
è stata molto esplicita in questo senso, perché il legislatore
costituente aveva, non a caso ma sulla scorta di determinate
esperienze che si erano storicamente consolidate, di fronte una
realtà ben precisa, un ordinamento giudiziario militare che
certamente non era in sintonia con alcuni principi costituzionali,
segnatamente quello che richiede la garanzia di indipendenza anche
per il giudice speciale. La situazione, com’è noto, è cambiata nel
1981 quando il legislatore repubblicano è intervenuto modificando
sostanzialmente la normativa, tant’è che oggi la magistratura
militare non è che l’appendice esterna, di fatto, della magistratura
ordinaria.
Quindi, abbiamo un organo, formalmente di
giurisdizione speciale, che è diventato un organo di giurisdizione
specializzata. Questi i termini del problema.
I vincoli costituzionali rimangono. L’alternativa
è quella dell’unità della giurisdizione oppure quella della
specializzazione secondo l’indirizzo che proviene anche, in maniera
piuttosto sentita, dal mondo militare. Tutte e due sono modelli tra
di loro alternativi, praticabili oggi in questa situazione. C’è un
dato relativo alla revisione complessiva della normativa, che, se da
un lato abbraccia in termini di necessità la modifica della parte
sostantiva del codice penale militare di pace, si pone invece in
termini non costrittivi per quanto riguarda la soluzione di
carattere ordinativo, questa si ad alto tasso di politicità.
La posizione mediana qual è? In relazione alla
particolare specialità che è richiesta a determinate situazioni, per
esempio, le peace support operations, o le peace–keeping
operations, che caratterizzano l’attuale fase del diritto
internazionale ci vuole probabilmente un organo di giurisdizione che
sia deputato almeno a questo tipo di esigenze.
E questo perché? Perché le attuali norme che
abbiamo in tema di persecuzione di reati commessi all’estero, art. 9
e seguenti del codice penale comune, oppure il codice di procedura
penale comune, art. 10, in cui c’è un’individuazione delle
competenze (questo risaltava anche dall’intervento dell’Ammiraglio
Accame) piuttosto vaga. Ci vuole un organo di particolare
specializzazione che costituisca il punto di cerniera di queste
esigenze.
Ricordo a me stesso che noi abbiamo ratificato lo
statuto della Corte penale internazionale, la cui competenza ha una
connotazione di sussidiarietà rispetto a quella nazionale.
Nello statuto c’è scritto "complementarità",
ma, in effetti, il concetto più corretto è quello di sussidiarietà.
Ebbene, una delle tre tipologie di reati di competenza della Corte è
costituita dai crimini di guerra, quindi in questo almeno, direi
come ultima spiaggia, si può cogliere o si deve cogliere il discorso
dell’eventuale specializzazione o dell’eventuale necessità.
Non si può, ecco perché torno al discorso del
metodo, ribaltare il problema e dire oggi: questa struttura, la
giurisdizione penale militare, è in termini economici una struttura
dissipativa.
Ebbene, è vero e lo sarà sempre più vero perché
avremo un esercito professionale e verrà completamente meno il
sistema di reclutamento della leva. Però, ecco, non è che dobbiamo
vedere le cose in funzione della notazione: siccome la giurisdizione
militare è una struttura dissipativa i magistrati militari non hanno
niente da fare, per cui troviamogli qualcosa da fare.
Il problema va ribaltato e va visto dal generale
al particolare, partendo dai principi e traendone le conseguenze
necessarie. Credo che le concrete soluzioni vadano agganciate a
queste modeste considerazioni, che pur con tutte le deficienze della
estemporaneità mi sono permesso di sottoporre alla vostra
attenzione. Grazie.
On. ELETTRA DEIANA Prc
Voglio innanzi tutto spiegare le ragioni per cui
con Domenico Gallo ho voluto organizzare questo incontro. La ragione
fondamentale sta nel tentativo di sottrarre questa materia, così
complessa e difficile, ma nello stesso tempo così fondamentale, ai
luoghi ristretti e riservati del Parlamento, o degli uffici-studi
del Ministero della Difesa e collegarla, come credo sia necessario,
alle problematiche più generali che riguardano i concetti di difesa,
le politiche internazionali, la ridefinizione in atto di importante
materia costituzionale, oggi all’ordine del giorno. Parto da una
notazione strettamente personale che però ha molto a che vedere con
le considerazione su questa materia. Il mio interresse per le
questioni militari in senso specifico, non solo genericamente per la
pace, è nato nel 1991, di fronte ai videogames notturni dei
bombardamenti chirurgici su Bagdad e nello scombussolamento che
aveva creato, in molte di noi, la decisione del Parlamento italiano
di partecipare alla guerra contro gli iracheni. Che alcuni miei
connazionali in divisa stessero bombardando insieme ad aviatori di
mezzo mondo Bagdad mi sembrò un’ enormità, qualcosa che provocò in
me un grande spaesamento. Evidentemente avevo interiorizzato a fondo
il "mito" dell’art. 11 della Costituzione. Mi sembrava quell’articolo
un punto di realizzazione di grande civiltà giuridica, di forte
civilizzazione delle relazioni tra i popoli, e nulla poteva
rimetterlo in discussione. Da allora, dal punto di vista politico, e
da quello costituzionale, è passato un secolo. Molte cose in questi
ultimi dieci anni, molti fatti, molte parole, molte metafore, molti
ossimori – primo fra tutti la "guerra umanitaria" -, hanno concorso
potentemente al processo di ridefinizione post-costituzionale della
guerra, e della pace.
Questo è l’interesse per questa materia
apparentemente così lontana e così specialistica. Questo testo, che
il Senato ha cominciato a discutere, rappresenta un passaggio
essenziale in questo processo, appunto, di ridefinizione
post-costituzionale del concetto di difesa, del rapporto tra guerra
e pace, tra stato di guerra e stato di pace, nel mescolamento e
nella confusione, volutamente costruita tra tempo di pace e stato di
pace, tra tempo di guerra e stato di guerra. La legittimazione del
ricorso da parte dello stato allo forza militare è un punto
fondamentale e vincolante della Costituzione, vero e proprio
architrave dell’assetto costituzionale. La ridefinizione
post-costituzionale di cui parlo mette sotto tiro quei fondamentali
elementi che la Costituzione definisce in articoli di stringente
chiarezza, inequivocabili perché non si tratta soltanto dell’art.
11, ma si tratta anche dell’art. 78, che attribuisce al Parlamento
la facoltà di definire e dichiarare lo stato di guerra, e all’art.
87 che attribuisce al Presidente della Repubblica i poteri di
sottoscrivere lo stato di guerra. Stato di guerra, cioè condizione
netta e inequivocabile, segnata da elementi qualitativamente diversi
da quelli che connotano lo stato di pace.
Dall’inizio degli anni ’90, conviviamo con le
guerre e con una molteplicità di definizione della guerra: guerra
per ristabilire l’ordine,. guerra umanitaria, guerra di
pacificazione, guerra contro il terrorismo, addirittura, come
nell’ultimo caso della guerra contro l’Iraq, guerra per assicurare
la salvezza mondiale, la salvezza del mondo contro le armi di
distruzione di massa possedute da Saddam Hussein e contro il rischio
ventilato da Bush e Blair che in 45 minuti il regime di Bagdad
potesse partire all’attacco dell’Occidente.
Queste guerre, non solo l’ultima, ma
complessivamente tutte le guerre degli anni ’90, sfuggono alla
certezza della loro definizione e alle norme che ne dovrebbero
stabilire la legittimazione secondo il Diritto Internazionale, i
trattati e le convenzioni e, per quello che riguarda l’Italia, i
vincoli costituzionali. Abbiamo assistito ad uno slittamento
progressivo di tutti questi concetti. Siamo stati dentro uno
slittamento successivo di senso che ha sollevato poche critiche, se
non nel caso dell’ultima guerra, e che ha praticamente costruito le
condizioni psicologiche e culturali, oltre che fattuali, per
l’accettazione di questo stesso slittamento di senso, per
l’interiorizzazione sociale e culturale di un contesto che è quello
che descriveva prima nel suo intervento Accame, un contesto terzo
rispetto alla certezza della definizione della guerra e della pace.
Come con grande onestà intellettuale ha chiarito il dott. Dini nel
suo intervento, l’accettazione del superamento della distinzione tra
guerra e pace, questo superamento è nei fatti. Ma il fatto che sia
nei fatti, non significa che possa essere definito come
giuridicamente legittimo, politicamente accettabile. Il problema che
non ci sia stata una sollevazione critica da parte di nessuno su
questo slittamento semantico e di senso e del costituirsi di una
situazione di scambiabilità tra cose difformi come la pace e la
guerra, tutto questo, a mio parere, costituisce l’elemento più
negativo di tutta questa vicenda. Le cosiddette missioni di
peace-keeping a cui l’Italia partecipa nelle varie parti del mondo
sono il frutto per lo più di guerre a cui l’Italia ha partecipato:
prima delle attuali missioni nei Balcani, ci sono stati
bombardamenti; prima della missione "Isaf", a Kabul, c’è stata la
guerra contro l’Afghanistan, c’è stata la partecipazione delle Forze
Armate italiane a "Enduring Freedom", per non parlare della
guerra contro l’Iraq che ha avuto caratteristiche, rispetto alle
rotture operate dalla partecipazione alle altre, assai più nette,
assai più chiare. Da questo punto di vista, l’unilateralismo delle
scelte americane ha chiarito il contesto, senza però fornire
elementi di riflessione su tutto quello che era successo
precedentemente e che ha molto a che fare con il presente. Ma ha
chiarito per lo meno alcuni elementi di questo processo di
slittamento successivo e di deflagrazione di tutti gli elementi di
certezza che presiedevano precedentemente al nodale problema del
passaggio tra la pace e la guerra e di tutti gli annessi e connessi,
di tutti i vincoli che la costituzione repubblicana aveva posto
affinché il passaggio non fosse arbitrario, non fosse cioè materia
di decisione dei governi e non fosse fatto privato tra i governi,
come nei fatti sta accadendo. Perché nei fatti è successo questo: la
forza militare non è più disciplinata dalla Costituzione, dagli
organi a cui la Costituzione attribuisce il potere, stanti alcune
condizioni vincolanti, di decidere ma diventa praticamente materia
gestita dai governi e avallata con un voto che non significa nulla
perché è un voto che dà un mandato in bianco al governo. Per questo
ritengo che il disegno di legge di cui stiamo discutendo sia di
estrema gravità. Non condivido l’empirismo con cui il dott. Dini ha
giustificato le parti più negative del disegno di legge, cioè la sua
osservazione sul fatto che siamo ormai in una situazione diversa e
che il testo si riferisce ad una situazione di fatto, che non si può
prescindere dalle situazioni di fatto. Proprio su questo bisogna
esprimere un giudizio. In realtà le situazioni di fatto sono state
create ad arte e oggi si tenta di normarle, di arrivare ad una loro
legalizzazione tacendo che ciò è avvenuto attraverso un degrado
continuo delle norme precedenti. Penso, tuttavia, che l’impostazione
di trasparenza che il dott. Dini ha dato alla materia, sia molto
importante. Credo che sarà molto importante in sede parlamentare
affrontare le problematiche, in maniera ampia e suscitando un
dibattito che vada oltre le aule del Parlamento. Il testo presentato
dal governo si presenta essenzialmente nei termini di un testo che
cerca di definire la problematica della guerra in un contesto
chiaramente post-costituzionale. Nel testo non si fa mai riferimento
agli articoli fondamentali della costituzione in materia di difesa,
stato di guerra, soggetti preposti alla dichiarazione dello stato di
guerra, ecc. Sostanzialmente il testo si riferisce al contesto
nuovo, che è venuto costituendosi con le nuove guerre, le successive
e reiterate violazioni all’art. 11, l’adattamento sociale. Bisogna
aprire la discussione su chi e come e perché questo contesto sia
stato creato e a che cosa corrisponda. Dobbiamo aprire la
discussione sul contesto strategico, geopolitico odierno. L’ordine
mondiale succeduto alla seconda guerra mondiale era un ordine che
obbediva ad una logica, che aveva dei soggetti responsabili, delle
istituzioni. Oggi si tratta di avere chiarezza sull’orizzonte verso
cui andiamo e quindi di conseguenza fare una discussione sul testo
che non sia tecnica che non sia unicamente dedicata a questo o
quell’articolo o alla parte dell’ordinamento giudiziario militare,
in senso di efficacia, di buonsenso, di prudenza ecc.. ma
complessivamente su tutta quanta la materia. Già al Senato, il
senatore Cirami, nel dibattito nelle Commissioni congiunte (Difesa e
Giustizia) che sono preposte in sede referente alla discussione, ha
sollevato una serie di appunti condivisibili al disegno di legge,
che vanno tutti nel senso delle osservazioni professor De Fiores. In
particolare voglio sottolineare quanto De Fiores ha detto della
confusione che c’è nel testo intorno alla nozione di tempo di guerra
e di stato di guerra, si tratta del presupposto da cui muove la
proposta di legge: la nozione costituzionale del tempo di guerra,
che indica un arco preciso, definito, in sede parlamentare, in sede
di sovranità del legislatore si slabbra e si perde nella nozione di
una situazione di fatto indefinita e indefinibile, cioè
sostanzialmente la tesi che qui ci ha illustrato il dott. Dini.
Questa situazione di fatto può prescindere dalla dichiarazione dello
stato di guerra. Sostanzialmente è quello che è avvenuto nei 10 anni
che abbiamo alle spalle. In questi 10 anni siamo passati da essere
un paese dotato della Costituzione e dell’articolo 11 e dei vincoli
che ne derivano per quanto riguarda la politica di ricorrere all’uso
della guerra, a un paese che dipende su questa materia dalle scelte
del governo in carica. Abbiamo partecipato ad una serie di imprese
di guerra che però non erano dichiarate, non facevano parte di una
configurazione di stato di guerra dichiarato e motivato dalle
ragioni di fondo che la costituzione adduce come indispensabili,
cioè la difesa del territorio nazionale, perché la sola guerra che
la costituzione repubblicana ammette è quella per la difesa del
paese. Ci sono molti modi per indebolire o smantellare la
Costituzione del 48. Un modo è quello di operare delle modifiche
costituzionali che modificano la Carta per via, appunto,
costituzionale, spesso modificandone lo spirito, la ratio
fondamentale in gran parte. Altro modo è mettere in un vuoto
pneumatico e quindi in una sostanziale inefficacia alcuni punti
della costituzione che difficilmente possono essere affrontati nella
stessa maniera in cui si affrontano altre tematiche. Certamente
l’articolo 11 della costituzione è di quelli che non possono essere
modificati per far spazio ad una concezione diversa della difesa,
allora va avanti questo processo di slittamento, di metamorfosi e
quindi di adattamento sociale al nuovo che avanza: le nuove guerre
mascherate da altra cosa oppure camuffate da ragioni superiori. Io
credo che in questo passaggio storico-politico, il disegno di legge
in questione, la revisione dei codici penali, militari di pace e di
guerra sia un passaggio nodale, che contribuirà grandemente sul
piano giuridico al processo in atto di decostituzionalizzazione
della guerra. La battaglia per la pace, le politiche di pace passano
attraverso tante cose. Io credo anche attraverso l’attenzione a
problemi come quelli cui stiamo discutendo, a un disegno di legge
come questo, che può concorrere potentemente alla legittimazione
attraverso la norma di quel processo di modifica degli apparati
concettuali e di modifica di meccanismi di legittimazione della
guerra che sta andando avanti informalmente e che potrebbe conoscere
un importante momento di formalizzazione giuridica, attraverso
l’approvazione di questa legge.
On.
RANIERO LA VALLE
Giornalista *
La cosa che mi ha impressionato è che nella
relazione del disegno di legge si sottolinea come il codice penale
militare di guerra sia rimasto sostanzialmente fermo dal ’41, a
parte l’abolizione della pena di morte nel 1994, mentre il codice
militare di pace ha subito diverse modifiche. E c’è anche
un’esaltazione di questo codice, nel senso che viene definito come
tecnicamente molto elevato, anche per aver in qualche modo precorso
i tempi poiché, nelle previsioni riguardanti i reati contro le leggi
e gli usi della guerra, ha in qualche modo affermato anzitempo la
sanzionabilità dei crimini di guerra, e ha potuto, quindi, punire i
crimini di guerra prima ancora, delle vicende di Norimberga. La
domanda che mi sorge spontanea è allora: se questo codice è così
buono, perché proprio adesso si sente il bisogno di cambiarlo, si
sente la necessità di fare un’innovazione tanto profonda?
Evidentemente proprio perché è cambiato il contesto generale, è
cambiato il rapporto tra la pace e la guerra; l’intervento di
Elettra Deiana era in questo senso molto preciso, il vero problema è
il rapporto tra lo Stato e la guerra.
Ora, è un po’ grottesco che nella relazione si
affermi che la differenza, riguardo alle Forze Armate, tra la
situazione di guerra e la situazione di pace starebbe nel fatto che
in pace le Forze Armate sarebbero in una condizione generale di
addestramento, mentre invece in guerra sono in una condizione di
impiego operativo; è, quindi, il cambiamento tra queste due modalità
dell’essere delle Forze Armate che oggi impone una modifica per cui
il codice penale militare di guerra in realtà debba estendersi anche
a situazioni che di guerra non sono. Ora, che questa sia la
differenza tra stato di guerra e stato di pace non è affatto vero.
Perché, in realtà, le Forze Armate in tempo di pace non sono in
sonno, né si occupano solamente di operazioni di addestramento;
hanno invece altri compiti che sono definiti nelle leggi di
principio: quindi, la salvaguardia delle libere istituzioni
democratiche, l’intervento in caso di pubblica calamità, e in ogni
caso, non sono mai dedite solo all’addestramento. Questo argomento
viene però usato per motivare che alle missioni all’estero, in cui
l’impiego operativo può anche giungere a rimarchevole intensità,
debba applicarsi in modo graduale il codice penale militare di
guerra. Questa è la ragione che viene detta ufficialmente, ma
evidentemente la vera ragione è un’altra. Anzi, sostanzialmente le
ragioni sono due: la prima, che non va dimenticata, è l’avvenuto
passaggio dall’esercito di leva all’esercito di mestiere,
all’esercito volontario. Questo è uno dei grandi fattori che spinge
gli attuali riformatori a rimettere mano a tutta la codificazione
penale militare, e di questo dobbiamo chiederci il perché? Perché
nel caso del mestiere delle armi, in un certo senso, l’apparato
recettivo, coattivo deve essere molto più forte, più incisivo di
quanto non sia nei riguardi di un esercito di leva. Perché nel caso
di un esercito di mestiere è molto più difficile richiamarsi a quei
valori comuni condivisi che si potrebbe pensare, in un esercito di
leva, possono motivare comportamenti confacenti alla disciplina
militare anche indipendentemente dalla coercizione. Cioè, c’è un
maggiore coinvolgimento ideale, ideologico dei coscritti rispetto a
delle persone che fanno il mestiere delle armi per mestiere. Nella
milizia come mestiere, venendo meno le ragioni di coscienza, la
difesa della patria con tutta la mitologia che si è costruita
intorno ai valori militari, perde di senso. È dunque tutto questo
che viene meno nell’esercito di mestiere; non a caso l’obiezione di
coscienza esce dalla scena con il passaggio dall’esercito di leva
all’ esercito di mestiere, quindi la coscienza non è più invocata, e
allora restano solamente le ragioni, da un lato, della convenienza,
dell’utile, come è proprio di ogni lavoro, dall’altro, le ragione
della coercizione e della repressione. Perciò diciamo così: la
disciplina, la conformità dei comportamenti rispetto ai modelli
richiesti, si ottiene col denaro e col bastone. L’altra ragione è
che nello stesso tempo per incentivare l’arruolamento si promette un
Foro speciale, che è sempre un privilegio. Tu sarai giudicato da
quelli come te, da quelli della tua corporazione, della tua casta: è
un po’, insomma, la riproduzione dei fori speciali, come il foro
ecclesiastico, come se, anche per la legge penale, gli sportivi
potessero essere giudicati solo dai giudici sportivi; oppure come se
si introducesse un foro speciale di imprenditori che giudicano
solamente gli imprenditori. Questa è la prima ragione, diciamo,
della novellazione così radicale. La seconda ragione è più grave ed
è, appunto, quella che è stata evocata prima: la distinzione tra
stato di guerra e stato di pace. Cade la distinzione perché tutto lo
Stato è in stato di guerra , ma siccome lo stato di guerra è
previsto dalla costituzione perché è dallo stato di guerra che
derivano delle precise conseguenze, allora i riformatori ricorrono a
questa forzata, inesistente, distinzione tra stato di guerra e tempo
di guerra, per cui lo stato di guerra è transitorio, mentre il tempo
di guerra viene assunto come permanente. In questa distinzione fra
stato di guerra e tempo di guerra passa la transitorietà dello stato
di guerra come fatto di eccezione, come fatto quindi che richiede
tutta una serie di garanzie costituzionali per essere affermato e
dichiarato; è il tempo di guerra, che diventa invece la condizione
comune, abituale. Ora, questo non è un mutamento di un capitolo
dell’ordine giuridico; è un mutamento antropologico. Se voi questa
discussione su questo codice la portate fuori dalle aule degli
addetti ai lavori, la portate ai cittadini dicendo: guardate, questo
codice dice che d’ora in poi il vostro tempo tutto intero è un tempo
di guerra, cioè, voi non vivete in un tempo di pace che
incidentalmente, o catastroficamente o come volete, può diventare
tempo di guerra, il vostro tempo è tempo di guerra ed è tanto vero,
che si dice esplicitamente nella relazione che non c’è più la
possibilità di distinguere tra tempo di guerra e tempo normale di
vita: il tempo normale di vita è diventato un tempo di guerra, ma
questo, allora, è un cambiamento non solo antropologico, è un
cambiamento di stato sociale, di civiltà.
E’questo ciò che, secondo me, va valutato e su
cui va innestata anche la critica tecnica alle modifiche che sono
proposte a questi codici perché, insomma, non è per caso che lo
stato di guerra era considerato uno stato di eccezione e derivava
dall’art. 11, e siccome l’art. 11 ha decretato che l’Italia ripudia
la guerra, quindi, non è più abituale per l’Italia essere in guerra.
Lo stato di guerra è, in qualche modo, un fatto residuale che,
avendo l’Italia ripudiato la guerra, resta possibile unicamente in
caso di difesa contro un attacco armato alla patria, il che non
vuole certamente dire attacco agli interassi economici del Paese,
non vuole certo dire il petrolio, e ancora meno gli interessi
economici degli Stati Uniti o dello stesso Occidente. Allora, è per
questo che lo stato di guerra è eccezionale e può sottostare a
quelle procedure garantiste che sono fissate in costituzione. La
novità è che oggi, in quello che viene definito e si vuole far
diventare il nuovo secolo americano, la guerra non è più
un’eccezione. Dopo il suo ripristino nel ’91, con la guerra del
Golfo, è stata insediata come nuova forma di governo del mondo
globalizzato. La guerra è permanente perché lo stato in cui si è
deciso deve essere il mondo, dopo l’11 settembre, è uno stato di
guerra. Non a caso Bush si proclama presidente di guerra; il che
vuol dire che quello stato di eccezione che è proprio della guerra
diventa uno stato abituale e quindi anche la sospensione dei
diritti, anche la sospensione delle garanzie che è propria dello
stato di eccezione, diventa permanente perché il presidente si
definisce presidente di guerra e lo stato in cui si vive è uno stato
di guerra. Naturalmente la lotta al terrorismo è il pass-partout che
serve per rendere permanente lo stato di guerra. Allora, appunto in
questo senso, credo che questa riforma sia un segnale che vada
assunto in tutta la sua gravità e perciò non basta opporsi alla
riforma, occorre lottare per ripristinare lo stato di pace,
ripristinare la condizione di guerra come sua eccezione e
ripristinare la distinzione che secondo i riformatori sarebbe venuta
meno tra il tempo di guerra ed il tempo normale della vita. Ma, a
questo punto, bisogna dire che a produrre questa trasformazione del
tempo normale di vita in tempo di guerra, contribuisce una
percezione generale. Questa perdita della distinzione non avviene
per qualche evento incontrollabile o per decisione altrui, dipende
da una volontà anche nostra; il nostro governo, il nostro Stato,
partecipa ad una politica che trasforma il tempo normale di vita in
tempo di guerra, questo è quello che noi stiamo facendo. E, fare
addirittura una riforma dei codici che sanzionano questo fatto, vuol
dire che questa scelta diventa una scelta permanente e addirittura
sancita legislativamente. Questa operazione perversa, politicamente
errata, di trasformare uno stato di pace in uno stato di guerra e un
tempo normale di vita in un tempo permanente di guerra, questa
operazione politica, viene assunta come in qualche modo definitiva e
legislativamente sancita. E vorrei dire che proprio la vicenda
dell’Iraq dimostra la catastroficità di questa scelta perché l’Iraq
è precisamente la prova di cosa significa trasformare uno stato di
pace in uno stato di guerra, un tempo di pace in un tempo di guerra.
La vera ragione del ritiro di tutte le truppe straniere dall’Iraq, e
quindi anche di quelle italiane, consiste proprio in questo: che
attraverso l’invasione, attraverso la presenza delle truppe
straniere in Iraq, il tempo abituale di vita degli iracheni, ma
ormai di tutto il Medioriente e di tutto il mondo, è stato
trasformato in tempo di guerra e la presenza di queste truppe è una
presenza patogena che produce giorno per giorno stragi e delitti, è
il passaggio da una forma di resistenza armata all’invasione a una
forma di guerra civile. E, a questo punto, non si potrebbe neanche
dire che le truppe straniere sono lì, o potrebbero stare lì, se
l’ONU glielo ordinasse, perché, anche in questa stessa riforma del
codice penale militare di pace e di guerra, si mantiene il principio
che non è un esimente di responsabilità l’obbedienza ad un ordine
ingiusto o che sia chiaramente un ordine contro le istituzioni,
contro l’ordinamento, che l’ONU potesse disporre una presenza di
truppe straniere a seguito di un’invasione in uno stato sovrano
sarebbe un ordine ingiusto e sarebbe chiaramente contro
l’ordinamento e contro le istituzioni, quindi perfino a norma della
proposta-riforma dei codici penali di guerra italiani la permanenza
delle truppe italiane in Iraq non si potrebbe giustificare neanche
in presenza di una deliberazione dell’ONU che lo richiedesse.
Credo quello che soprattutto conta rilevare, è
questo slittamento che viene fatto: come si trattasse quasi di un
fatto di routine da una tradizionale condizione, in cui la pace è la
condizione normale della vita e la guerra, semmai, è un’eccezione
alla condizione inversa. Un po’ come quella definizione della pace
che si trovava qualche settimana fa sul "Corriere della Sera" in cui
si diceva che la pace è la guerra che si riposa.
* intervento non rivisto dall’Autore
Dott. DOMENICO GALLO
Coordinamento Naz. dei Giuristi Democratici
E’ impossibile parlare di conclusioni: ci
troviamo di fronte ad un dibattito appena aperto e abbiamo visto
come questo dibattito intreccia temi di importanza fondamentale e di
estensione enorme. L’argomento che abbiamo trattato riguarda le
situazioni che interessano il profilo dell’Italia nelle relazioni
internazionali e quindi il volto dell’Italia nei rapporti con l’
estero, le missioni militari, gli interventi comunque nel campo
della pace e della guerra. E’ una materia che intreccia i problemi
dei diritti di cittadinanza e delle garanzie fondamentali, sia da un
punto di vista della fruizione dei diritti civili, quelli dei
cittadini in divisa, ma anche i diritti civili di tutti gli
italiani, laddove si prospetta la possibilità di un ricorso facile
all’instaurazione della legge di guerra sul territorio nazionale,
ovvero nei confronti di determinate categorie di persone. Ci
troviamo di fronte ad un discorso che intreccia temi di procedura
penale e intreccia temi di diritto sostanziale, quindi la necessità
di una riflessione più profonda credo che sia all’ordine del giorno.
Noi questa sera abbiamo iniziato questa riflessione e abbiamo potuto
farlo grazie al contributo - molto positivo - che abbiamo avuto dai
colleghi che lavorano nella magistratura militare - che io ringrazio
tutti – le cui riflessioni sono stati assolutamente necessarie per
poterci orientare all’interno di questa materia.
Forse su una cosa possiamo essere tutti
d’accordo, ci sono due esigenze: da un lato, l’esigenza di una
riforma perché - ce lo diceva Falco Accame – da molto tempo, fin dal
1977 era attuale il problema della riforma complessiva dei codici
militari sia di pace che di guerra; esigenza fondata che non può
essere risolta con la politica dello struzzo, cioè ignorando i
problemi e puntando semplicemente al loro rinvio.
Dall’altro lato, però, c’è l’esigenza di valutare
attentamente i sentieri e le linee di riforma che ci vengono
proposte perché questi sentieri e queste linee di riforma per molti
aspetti sono inaccettabili, o addirittura rischiano di provocare un
mutamento della condizione di vita del nostro Paese, facendo
diventare il tempo di guerra, come diceva Raniero La Valle, non un
tempo straordinario ma un tempo ordinario, e quindi gettando
un’ombra sui diritti civili e sulla libertà di tutti i cittadini
italiani, che possono esplicarsi ed avere piena attuazione soltanto
in tempo di pace.
Noi dobbiamo reagire a questa situazione
attraverso il metodo della conoscenza dei problemi, dell’analisi e
dell’approfondimento. Io vorrei soltanto ripercorrere brevemente
alcune questioni che sono state sollevate, innanzitutto partendo
dall’inizio, i fini della legge delega, dall’art. 1. E’ sbagliata la
testa, non si può riformare una materia così complessa al solo fine
di assicurare la piena funzionalità della Forze Armate. A parte il
fatto che l’obiettivo non viene raggiunto, la riforma delle leggi
militari di guerra e di pace e dell’ordinamento giudiziario, non
riguarda soltanto la funzionalità delle Forze Armate, ma riguarda
una serie di beni pubblici che sono fissati nella Costituzione, e
quindi il fine dev’essere quello di prendere in considerazione tutti
questi beni pubblici ed articolare la riforma in funzione della
tutela e dell’attuazione dei beni pubblici affermati nella
Costituzione.
Abbiamo discusso appassionatamente del problema
della militarizzazione dei reati ordinari, qui ci sono opinioni
differenti, nelle analisi proposte dal dott. Scalfi, dal dott.
Roberti e dal dott. Dini, e ci sono accenti differenti anche
nell’intervento del dott. Intelisano.
Ora io mi chiedo una cosa, non corriamo il
rischio di forzare l’art. 103 della Costituzione allargando a
dismisura l’insieme dei reati militari e militarizzando i reati
comuni ? Oppure il legislatore può, per sua scelta, decidere, senza
porsi alcun limite sostanziale, quando un reato deve essere
considerato militare e quando no? Per esempio, la tutela
dell’interesse dello Stato che i cittadini paghino le tasse è una
cosa che incide sul funzionamento delle Forze Armate, o comunque sui
beni militari ?
Non lo so, però la militarizzazione del reato di
concussione, di corruzione, commessa dai militari della Guardia di
Finanza nell’esercizio delle loro funzioni, incide più che altro sul
bene costituzionale dell’interesse dello Stato alla tutela
dell’erario, non incide su interessi militari e quindi occorrerebbe
riconsiderare il problema dei limiti all’estensibilità del concetto
di reato militare.
Dobbiamo chiederci, quindi, se il legislatore può
tutto, sino a trasformare in reato militare anche un reato che non
lede gli interessi militari. Un altro problema molto grave è quello
dell’indurimento della disciplina militare, Purtroppo noi qui non
abbiamo avuto gli interventi dei rappresentanti dei COCER e non ci
possiamo giovare delle loro opinioni. Nel disegno di legge delega mi
sembra che venga ripristinato un reato cancellato dalla Corte
Costituzionale, quello che riguardava l’art. 180 I comma del codice
penale militare di pace che considerava un crimine la protesta
collettiva. Tuttavia un’istituzione che non può essere criticata
dall’interno è un’istituzione inefficiente. Quindi ripristinare
questa norma è in contrasto con il fine di assicurare la
funzionalità delle forze armate. Se si vuole assicurare la piena
funzionalità di qualunque organismo, bisogna anche garantire il
diritto di critica, perché la funzionalità non prescinde
dall’esercizio del diritto di critica di coloro che sono - diciamo
così- più vicini, più interessati al funzionamento dell’istituzione.
Perciò reprimere il diritto di critica incide negativamente sulla
funzionalità delle Forze Armate.
Tuttavia il problema più importante e più grave è
quello che viene affrontato nel passaggio dallo stato di pace allo
stato di guerra, o se si vuole, dell’introduzione più o meno
graduale della legge militare e della competenza dei tribunali
militari. Ora, io ricordo un episodio curioso che mi è capitato - fa
parte delle mie esperienze di vita - nel 1980. All’epoca lavoravo
alla pretura di Milano, ricordo che nel marzo del 1980 fu ucciso il
giudice istruttore Galli. Era un epoca in cui erano frequenti gli
attentati, molti magistrati, ufficiali dei Carabinieri o della
Polizia, insomma molte persone sono state colpite, voi lo sapete
meglio di me.
L’evento colpì molto i colleghi, seminando
angoscia e disperazione, come è ovvio e naturale. Ci fu una specie
di protesta all’ufficio istruzione del Tribunale di Milano. Molti
colleghi scaraventarono i fascicoli fuori dalle loro stanze
pretendendo che venissero trasferiti al Tribunale Militare, dicendo:
noi non vogliamo più questi fascicoli mandateli al Tribunale
Militare, qui c’è una guerra in corso, noi non siamo tribunale
militare, la repressione del terrorismo la devono trattare i
Tribunali militari..
In effetti, in quel periodo, c’è stato un
dibattito politico riguardo a se bisognasse reagire al terrorismo
facendo scattare la competenza dei tribunali militari o introducendo
la legge di guerra. Le posizioni erano nettissime, tutte le forze
democratiche furono contrarie alla scelta di far scattare la
competenza dei tribunali militari o di far scattare comunque una
sorte di dichiarazione di stato di guerra interna, cosa che
astrattamente il testo unico di pubblica sicurezza consentiva, anche
se con disposizioni chiaramente anti-costituzionali, ma formalmente
in vigore, in quanto la Corte costituzionale non le aveva mai potute
censurare, non essendosi presentata – per fortuna – l’occasione.
Esisteva, pertanto, la possibilità di far entrare
in vigore lo stato di guerra contro il terrorismo, ma tutte le forze
democratiche di allora furono contrarie e per fortuna questo
sviluppo non ci fu.
Ora, io valutavo diversamente la cosa da come la
valuto oggi: credo che se il problema della repressione del
terrorismo fosse stato affidato alla competenza dei tribunali
militari, la controindicazione principale sarebbe state la
difficoltà di giungere a risultati positivi nella repressione di
questo fenomeno, data la scarsità di risorse umane, e investigative
di questa giurisdizione. Sarebbe stato estremamente difficile che la
giurisdizione militare fosse riuscita a venire a capo del fenomeno
del terrorismo, così come ha fatto nel giro di 2 o 3 anni, dal ’80
al ’83, la giurisdizione ordinaria. La prima controindicazione
sarebbe stata proprio quella della scarsa efficienza di una risposta
di questo tipo. La vicenda del terrorismo, che abbiamo vissuto negli
anni ’80, dimostra che la risposta al terrorismo comunque deve
essere una risposta asimmetrica, non può essere una risposta di
guerra. Deve essere una risposta che necessita, da un lato, della
confidenza e della collaborazione di tutti i cittadini, dall’altro,
di un sistema di controllo di legalità diffuso, come può essere
assicurato soltanto dall’autorità giudiziaria ordinaria.
L’esperienza della nostra storia recente in fondo ci dimostra che
ogni opzione di risposta militare, o con strumenti ordinari o
extra-ordinem, ad attacchi di natura terroristica è inutile e che
l’unica risposta possibile è quella asimmetrica del ricorso agli
strumenti ordinari e razionali del sistema di coercizione penale
previsti nello stato democratico.
Tuttavia, nel disegno di legge c’è qualcosa di
più e di più inquietante. Questa previsione astratta dell’art. 4, -
forse volutamente - crea una situazione indistinta: non si riesce a
capire bene, come scatterebbe la competenza del codice penale
militare di guerra e con quali garanzie, e con quali procedure. E’
proprio la mancanza di garanzie e di procedure definite renderebbe
possibile questa situazione paradossale di cui ha parlato La Valle
prima, cioè che il tempo ordinario diventerebbe il tempo di guerra.
Nel momento in cui il tempo di guerra si può instaurare non sappiamo
come, ma in modo automatico senza forme di garanzia politica, che in
qualche modo marchino la differenza fra tempo ordinario di pace e
tempo straordinario di guerra, nel momento in cui non ci sono queste
garanzie, nel momento in cui è previsto che questo tempo si instaurì
- non si capisce bene come - a prescindere in ogni caso dalla
dichiarazione dello stato di guerra, allora vuol dire che il tempo
ordinario effettivamente vigente è il tempo di guerra, il tempo di
pace diventa un tempo straordinario. Ma questo comporta una
degradazione dei diritti civili, dell’ordinaria vita delle
istituzioni e dei diritti fondamentali delle persone.
È stato richiamato l’esempio di Genova, dal
collega Dini per dimostrare che in base alla normativa la situazione
di tipo Genova non sarebbe possibile l’instaurazione automatica
della legge militare. Questo è vero, però se non ci sono garanzie
politiche e procedimentali, non abbiamo neanche un argine per
evitare che in una situazione tipo Genova, si sveglia un domani un
prefetto, o qualcun’altro e dichiari l’ introduzione della legge
militare, la competenza dei tribunali militari anche sui civili, e
via dicendo. Quindi anche questo limite, che non si deve trattare di
episodi isolati di violenza, è più apparente che reale, nel momento
in cui non ci sono le garanzie procedurali che dispongono il
passaggio dal tempo di pace al tempo di guerra.
Un’altra cosa molto preoccupante è il fatto che
si prevede la possibilità di ambiti personali di applicazione della
legge militare di guerra. Anche questo è una previsione inquietante,
a parte l’aspetto che si creerebbero forme di discriminazione poco
compatibili con gli altri principi costituzionali. In questo modo si
avalla una tendenza a creare un diritto duale, per cui alcune
categorie di persone godono di diritti civili e ordinari, altre
categorie di persone godono di diritti attenuati, quindi in questo
c’è la prefigurazione di imbarbarimento complessivo del nostro
ordinamento, sul modello di imbarbarimenti che noi vediamo avanzare
in altri ordinamenti, dai quali, in verità, non abbiamo la necessità
di importare questi modelli di imbarbarimento; anzi, in qualche
modo, dovremmo opporci.