HOME APPROFONDIMENTI RASSEGNA STAMPA FORUM BLOG ANNUNCI RASSEGNA DIFESA
   

 

   

La revisione delle leggi penali militari:

una riforma per la pace o per la guerra?

 

 

La revisione delle leggi penali militari

 

I mutati scenari internazionali e le riforme di struttura delle forze armate impongono un intervento legislativo per la revisione delle leggi penali militari di pace e di guerra e per la riforma della giurisdizione militare. Ciò è tanto più urgente e doveroso in quanto è divenuto non infrequente il ricorso all’uso dello strumento militare per interventi di "ordine pubblico" all’estero, persino in assenza di un valido quadro legale di riferimento.

Il progetto di riforma presentato al Senato (Delega al Governo per la revisione delle leggi penali militari di pace e di guerra, nonché per l’adeguamento dell’Ordinamento penale militare), costituisce un disegno ambizioso perché incide sull’intero corpo normativo, sulla procedura e sull’ordinamento giudiziario, ma fornisce delle risposte discutibili all’esigenza di una riforma.

Esso, sembra muoversi nel cono d’ombra creato da quelle politiche (come la teoria della guerra preventiva e permanente) che aggrediscono i fondamenti razionali dell’ordine internazionale disegnato nel dopoguerra dalla Carte delle Nazioni Unite e abbassano la soglia della distinzione fra pace e guerra.

E’ necessario, pertanto, un esame critico ed approfondito dei vari profili messi in gioco e delle scelte operate, che non sono obbligate e possono essere modificate una volta che se ne comprendano gli effetti e la reale portata.

 

RELAZIONI INTRODUTTIVE:

Prof. Claudio De Fiores

(costituzionalista)

Dr. Paolo Scafi

(Sostituto Proc. della

Repubblica c/o Tribunale

Militare di Torino)

COMUNICAZIONI:

Dr. Sergio Dini

(Pres. Ass. Magistrati militari

italiani)

Dr. Livio Pepino

(Pres: Magistratura Democratica)

Dr. Benedetto Roberti

(Giudice Tribunale militare di

Padova)

Prof. David Brunelli

(Università di Perugia)

Avv. Desi Bruno

(Coordinamento Naz. dei Giuristi

Democratici)

On. Raniero La Valle

(giornalista)

On. Falco Accame

( Pres. ANAVAFAF)

CONCLUSIONI:

Dott. Domenico Gallo

(Coordinamento Naz. dei Giuristi

Democratici)

PRESIEDE:

On. Silvana Pisa

 

PARTECIPANO:

Sen. Giulio Andreotti, On. Paolo Cento, On. Laura Cima, Sen. Melchiorre Cirami, On. Famiano Crucianelli, Sen. Tana De Zulueta, On. Elettra Deiana, Sen. Piero Di Segni, Sen. Elvio Fassone, On. Pietro Folena, On. Alfiero Grandi, Sen. Luigi Malabarba, On. Pierluigi Mantini, On. Luca Marcora, On. Graziella Mascia, On. Marco Minniti, On. Giuliano Pisapia, On. Giovanni Russo Spena, On. Saverio Vertone, Sen. Giampaolo Zancan.

 

 

INTRODUZIONE

 

On. Elettra Deiana - Prc

Decostituzionalizzazione della guerra: un processo in atto

 

Le vicende succedutesi nel breve arco di tempo intercorso tra il giorno del convegno in titolo, che abbiamo organizzato per discutere le proposte governative di modifica dei codici penali militari, e quello a cui arriva a compimento, con il presente fascicolo, il lavoro di pubblicazione degli atti di quello stesso convegno, costituiscono l’ennesima riprova dello scollamento grave e forse irreversibile che si è prodotto tra la "questione della guerra" e il dettato costituzionale, tra il crescente potere decisionale che l’esecutivo si va attribuendo per quanto riguarda il ricorso all’uso della forza militare e il complesso meccanismo istituzionale che in Costituzione regola tale materia, sottraendola decisamente al "potere in prima istanza" del governo. Rappresentano infatti, queste ultime vicende, un’ulteriore e assai negativa accelerazione dei radicali processi ormai da tempo avviati che possiamo definire di decostituzionalizzazione della guerra, cioè di depotenziamento e sostanziale annullamento del dettato costituzionale e perciò di pressoché ormai definitiva sottrazione della materia ai vincoli costituzionali. Va a questo proposito precisato che la lettera degli articoli della Costituzione riguardanti il ricorso alla forza militare (11, 78 e 87 ) nonché la ratio ispiratrice di quegli articoli e i meccanismi istituzionali posti a presidio del loro ottemperamento, ne configuravano un carattere fortemente prescrittivo e vincolante. La materia relativa al ricorso all’uso della forza militare, stando alla Costituzione del 1948, si presenta infatti chiaramente sottratta al potere diretto dell’esecutivo, configurandosi come non disponibile alla messa in atto di strategie di politica internazionale, di questo o quel governo, che si sottraggano agli intendimenti costituzionali. Il governo, secondo il dispositivo della legge fondamentale, è chiamato ad assumersi responsabilità in questa materia secondo finalità (articolo 11) e modalità (articoli 78 e 87) assai precise e circostanziate protette dalla sovranità del Parlamento, il quale a sua volta deve stare al limite della Costituzione. Siamo oggi in un’altra epoca storica e la portata del mutamento smbra lontana dall’essere intesa in tutta la sua gravità.

L’operazione militare Antica Babilonia, confezionata e presentata in Parlamento e all’opinione pubblica come l’ennesima, meritoria missione di peace keeping, destinata, nelle argomentazioni del presidente del consiglio e dei ministri competenti, a valorizzare nel mondo il ruolo politico dell’Italia, ha rappresentato un vero e proprio salto di qualità negativo nella direzione di un più generale e evidente depotenziamento del vincolo costituzionale. Essa va inserita infatti in un contesto internazionale caratterizzato dalla strategia della guerra preventiva, dall’unilateralismo degli Usa, dalla campagna di svilimento e di delegittimazione delle Nazioni Unite e del diritto internazionale che hanno fatto da cornice alla preparazione e alla conduzione della guerra contro l’Iraq. Il nostro Paese è parte in causa in tutto questo. La partecipazione all’impresa militare in Iraq ha comportato e continua a comportare per l’Italia una pesante responsabilità sia diretta, come forza di occupazione di una porzione del territorio iracheno, sia indiretta, per l’avallo fornito prima all’intervento anglo-americano e poi alla sanguinosa gestione statunitense del dopoguerra. Le forze armate italiane sono state coinvolte direttamente in numerosi episodi bellici, hanno disgraziatamente subito perdite e disgraziatamente ne hanno inflitte. Molte. E hanno dovuto far ricorso, i militari italiani, a tattiche di controllo del territorio in tutto e per tutto simili a quelle tipiche di una forza occupante, anche con l’ausilio, per il crescere della tensione nella provincia di Nassirya, di mezzi corazzati da combattimenti non previsti nella primitiva versione della missione.

La decostituzionalizzazione della guerra è dunque in primis fattuale, pratica. Sta nella guerra che si fa: fuori e contro i vincoli della Carta del ‘48. E’ poi teorica e consiste nella ridefinizione stravolgente dei paradigmi stessi del concetto di guerra e nella riconfigurazione del Nemico – il terrorismo internazionale – che viene rigorosamente sottratto all’appartenenza a un preciso territorio, a una precisa identità statuale ma nello stesso tempo è identificabile come operante in qualsiasi territorio e all’interno di qualsiasi entità statale. Può anzi essere una qualsiasi entità statale catalogata come nemica da chi detiene oggi il potere di definire il bene e il male, la linea di confine tra l’uno e l’altro. I rogue states. Quindi la guerra può essere rivolta ovunque, a seconda delle intenzioni e delle opportunità individuate dal dominus mondiale. Gli Stati Uniti d’America.

Tende infine, la decostituzionalizzazione della guerra, a diventare giuridica, normata per legge. Passaggio decisivo e definitivo perché l’articolo 11 venga consegnato all’archivio storico delle cose che furono è infatti che la guerra sia "normalizzata", cioè resa "normalmente" accettabile, attraverso la norma, come variante della politica. Non più quell’impegnativo "ripudio" che la rendeva inaccessibile alla coscienza, inibita alla politica. Ma una nuova codificazione, che infrange i confini tra il concetto di pace e quello di guerra, che crea robuste reciprocità tra l’azione di polizia internazionale della nuova Nato e le "proiezioni" belliche mirate e stanare "i terroristi" e che istituisce un indeterminato e indefinito "tempo di guerra" a fronte di un altrettanto indeterminato e indefinito "pericolo terrorista". L’ideologia del para bellum si vis pacem portato alle estreme conseguenze. La guerra preventiva dei neocon a cui l’Italia si è accodata.

Questo è il nodo di fondo sotteso alla discussione intorno al provvedimento riguardante la riforma dei codici militari su cui è stata avviata la discussione in Senato e intorno a cui abbiamo voluto organizzare questo convegno.

La proposta del governo è del tutto in linea con lo spirito dei tempi, basta leggere la relazione introduttiva da cui emerge con lampante chiarezza l’obiettivo politico del provvedimento: fornire un contributo normativo, dunque una legalizzazione, al nuovo corso della guerra e alle sue finalità. Tutto l’articolato è d’altra parte costruito in tal senso.

Per questo una tale materia, al di là degli esiti ancora incerti del suo iter parlamentare, dovrebbe essere sottratta all’esclusiva competenza degli specialisti e entrare a far parte della discussione politica di quante e quanti si oppongono al nuovo corso delle cose.

Col nostro convegno abbiamo voluto dare un contributo in questa direzione.

 

On. SILVANA PISA – Ds

 

Vogliamo allargare il confronto – al di là delle aule parlamentari – sul disegno di legge Martino-Castelli che attribuisce al Governo la delega per una revisione generale dei codici penali militari di pace e di guerra e per un adeguamento delle norme dell’ordinamento giudiziario militare.

I principi sono fissati in un disegno di legge in discussione al Senato su cui ci interessa – prima del passaggio alla Camera – confrontare e raccogliere opinioni.

Che la materia trattata dai codici penali militari del ’41 fosse da rivedere non è una novità ed è dimostrato dai numerosi progetti di legge e persino da vere e proprie leggi che in questi anni hanno – per parti o in modo più organico – modificato parte dell’impianto della normativa originaria.

I codici del ’41 dimostrano la loro età e la loro inadeguatezza nei confronti del cambiamento del contesto internazionale e del rispetto della Costituzione repubblicana; risultano datati anche nei confronti delle modifiche intervenute nelle strutture e nelle esigenze delle Forze Armate, tanto più oggi che ci avviamo - personalmente con non pochi dubbi - alla sostituzione della leva obbligatoria con l’esercito professionale; vanno anche raccordati con il nuovo codice di procedura penale .

Mentre il codice penale militare di pace è stato nel corso degli anni modificato con diversi e incisivi interventi legislativi (legge 167 del 23 marzo 1956 dal titolo "Modificazioni al Codice penale militare di pace ed al Codice penale", legge 180 del 7 maggio 1981 "Modifiche all'ordinamento giudiziario militare di pace", legge 230 dell’8 luglio 1998 "Nuove norme in materia di obiezione di coscienza" e legge 689 del 26 novembre 1985 "Modifiche al codice penale militare di pace") , quello di guerra è rimasto complessivamente immutato (a esclusione della doverosa abolizione della pena di morte: legge 589 del 13 ottobre 1994) con l’idea di fondo che riguardasse una realtà – la guerra – remota e da evitare.

Quest’ultima annotazione tocca il punto politico più delicato rispetto all’attualità del dibattito nel nostro Paese.

Perché è vero che si possono fare osservazioni verso un disegno di legge che tende a "militarizzare" e a "corporativizzare" in modo non necessario né convincente quella che nel codice penale militare di pace era l’amministrazione della giustizia, ampliandone le competenze (basta per qualificare un reato come militare, e quindi a giustificare il ricorso alla magistratura militare, il solo fatto di essere commesso da militari?), ma il punto più fragile resta la materia del codice penale militare di guerra: preceduta da un dibattito costituito da un mix di "nuovo" e di "antico".

Il "nuovo" è determinato dal mutamento dello scenario internazionale: la fine dell’equilibrio bipolare, l’unilateralismo preventivo dell’attuale amministrazione Usa, la fragilità delle istituzioni internazionali che provoca l’indebolimento dell’applicazione delle sue norme, il cambiamento di senso – politico e culturale – del confine tra pace e guerra.

A quest’ultima modificazione ha contribuito anche il nostro Paese – dalla guerra in Kossovo in poi – utilizzando "missioni militari di pace" e "missioni umanitarie all’estero" (regolate dalla legge 331 del 14 novembre 2000) come grimaldello – ben al di là degli ordinari compiti di difesa nazionale e di rispetto dei trattati sottoscritti – per bypassare la nostra costituzione con la conseguenza di seminare un nuovo devastante senso comune.

L’elemento "antico" è ancora più inquietante: l’avere riesumato per le missioni del contingente italiano in Afghanistan e successivamente per l’Iraq il già citato codice militare penale di guerra del 1941 non più utilizzato dalla fine del secondo conflitto mondiale.

Il governo Berlusconi l’ha richiamato con decreto del dicembre 2001 convertito in legge all’inizio del 2002 accogliendo alcune modifiche indispensabili richieste dall’opposizione: modifiche a tutela e garanzia delle popolazioni civili che entrano in rapporto con i contingenti militari (abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti allo stato di militare; atti di tortura o altre condotte vietate dalle convenzioni internazionali) e modifiche a garanzia degli stessi militari che partivano per l’Afghanistan e della loro capacità operativa in quanto il codice militare di pace era inadeguato alle condizioni di ingaggio ed al contesto dell’Afghanistan.

Modifiche importanti, ma non sufficienti a sgomberare il dubbio di costituzionalità nell’applicare a missioni che si definivano di pace, il codice di guerra.

Conseguentemente dall’opposizione sono state presentate pregiudiziali di costituzionalità (da Rifondazione comunista per l’Afghanistan, dai Democratici di Sinistra per l’Iraq) respinte dalla maggioranza.

Per molti di noi risultava una contraddizione che schematicamente si può riassumere così: se si tratta di una missione realmente di pace – ed è soprattutto il contesto a determinarlo – non c’è necessità di applicare il codice militare di guerra (bastano alcune modifiche alla legge sulle missioni all’estero per evitare di lasciare senza tutela i soggetti deboli coinvolti); se invece la missione è solo nominalmente di pace, ma comporta per il contesto, per le regole d’ingaggio, per la catena di comando un uso delle armi non meramente difensivo – e questa era ed è l’opinione di molti di noi sulle fattispecie in oggetto – in questo caso ci troviamo di fronte ad una violazione della carta costituzionale.

Si usa uno slittamento di senso: "forzare" la costituzione contribuendo a creare un pericoloso precedente.

Il disegno di legge Martino-Castelli allarga la strada così tracciata abbassando la soglia della distinzione tra pace e guerra e rendendo possibile una sorta di introduzione graduale delle leggi di guerra che aggira la procedura garantista degli articoli 78 e 87 della Costituzione e ne intacca l’articolo 11.

Per qualunque tipo di missione (nella relazione al disegno di legge si parla di "operazioni internazionali di pacificazione o di uso della forza") per "adeguare le norme del codice penale militare di guerra e graduarne l’applicazione, in relazione alle esigenze connesse ai conflitti armati e alle operazioni militari all’estero" si dilata la nozione di un indeterminato tempo di guerra che giustifica l’adozione delle leggi di guerra.

Insomma adottando il termine di "conflitto armato" (più light rispetto a guerra) si applica la legge militare di guerra anche senza che le camere deliberino lo stato di guerra con buona pace degli articoli 78 e 87 della Costituzione.

La costruzione del nuovo ordine mondiale e il ricorso alla guerra preventiva, da esportare con spirito "missionario" , come risulta da alcuni passaggi della relazione introduttiva ("dove più necessitano gli interventi di pace, dove sembra non si conoscano più limiti alle atrocità") sottintendono che l’obiettivo della revisione dei codici penali militari è quello di offrire un contributo normativo, dall’interno, alla costruzione del nuovo ordine globale e alle teorie della guerra permanente. Come dire: normare l’emergenza bellica per normalizzare la guerra.

Ne risulta una dilatazione sorprendente e abnorme che viene estesa anche (art. 4, comma 1 lettera i del disegno di legge) al caso di "conflitti interni prolungati fra le Forze armate dello Stato e gruppi armati organizzati;" non solo: il rappresentante delle Forze Armate che eventualmente avesse commesso un reato in simile contesto non verrebbe giudicato dalla magistratura ordinaria ma dal Ministro della Difesa.

Ho parlato dei punti più salienti, ma altri se ne potrebbero citare:

a) Innanzitutto la fine del controllo istituzionale sull’entrata in guerra del paese: per il nostro ordinamento democratico la dichiarazione dello stato di guerra è soggetta al controllo delle due più alte istituzioni: specifica approvazione delle camere seguita dalla dichiarazione del Presidente della Repubblica: ora in base al ddl si ha una codificazione del concetto di guerra permanente e della non eccezionalità dell’entrare in guerra.

b) è estremamente pericoloso che come dice la relazione: "le missioni e l’impiego operativo delle Forze armate all’estero nell’ambito di operazioni internazionali di pacificazione o di uso della forza … come la prassi ha dimostrato, non richiedono il passaggio da uno stato di pace a uno di guerra". Vale a dire che è la "prassi" delle nuove guerre economiche di aggressione a dettare il quadro giuridico e non il contrario.

c) Insomma lo scenario che questo disegno di legge prefigura è preoccupante e sconcertante al tempo stesso: una sorta di super legge (legge speciale?) che con la pretesa di dare organicità ad una materia complessa compie delle forzature – non solo giuridiche – seriamente pericolose .

Mi auguro che l’opinione pubblica e i media intervengano in questo dibattito – tuttora clandestino e per addetti ai lavori – avvertendo l’allarme e lo stravolgimento giuridico e sostanziale che questo provvedimento comporterebbe.

 

Dott. PAOLO SCAFI

Sostituto Proc. della Repubblica c/o Tribunale Militare di Torino

 

Desidero innanzitutto ringraziare gli organizzatori dell’incontro per avermi invitato a partecipare e ad intervenire.

Sono ormai tredici anni che svolgo il mio servizio quale sostituto procuratore militare a Torino e ritengo, grazie a questa esperienza di magistrato militare, di poter fornire alla discussione qualche argomento di carattere operativo, frutto di mie riflessioni sulla mia attività e sui problemi pratici incontrati nel lavoro giudiziario di tutti i giorni.

Ovviamente, ripeto, nella mia relazione riporterò osservazioni di carattere prevalentemente pratico, che però ritengo comunque utili alla discussione.

Mi asterrò dal leggere il testo predisposto distribuito nella cartellina, rimandando ad esso coloro che siano interessati, e mi limiterò a richiamare alcuni aspetti che ritengo più rilevanti.

Devo innanzitutto chiedere scusa se all'interno della relazione scritta c'è un passaggio che, in maniera per me del tutto inaspettata, ha urtato la sensibilità di taluni: mi riferisco al punto in cui viene evidenziata l’inopportunità di passare alla competenza degli uffici giudiziari militari, (che fino ad ora si sono occupati solo di determinate fattispecie per di più ascrivibili a militari di leva) reati molto delicati, situazioni criminose complicate, fin qui perseguite dalla magistratura ordinaria.

Scrivendo questo non intendevo certamente accusare i colleghi magistrati militari, e me stesso, di incompetenza: volevo semplicemente sottolineare che quando alcuni uffici giudiziari per anni e anni si sono occupati solo di una certa materia, non discuto se più interessante, o più importante di altre, ma comunque solo di una certa materia, non si potrebbe così inopinatamente investirlo di un'altra serie di competenze indubbiamente complicate, perché sarebbe come prendere la sezione lavoro di un qualsiasi tribunale civile e all'improvviso passare i magistrati ed il personale ausiliario che vi era assegnato ad un lavoro del tutto diverso, dicendo agli interessati: da domani vi occupate, che so, di diritto di famiglia.

Con questo vorrei rasserenare i colleghi che mi hanno rimproverato, mostrandosi anche offesi di quanto da me riferito.

A questo proposito, entrando subito nel merito della questione, in relazione all'adeguatezza della struttura giudiziaria militare a contrastare determinati fenomeni criminosi, effettivamente nella relazione ministeriale al disegno di legge è stato riportato che il giudice militare sarebbe "ben attrezzato".

Molto diverse sono però le indicazioni riportate nella relazione annuale del Procuratore Generale Militare, dott. Bonagura, qui presente, il quale invece - molto più comprensibilmente e concretamente - proprio perché inserito nella nostra realtà, si è mostrato preoccupato proprio di questo, e cioè che obiettivamente si tratta di strutture giudiziarie le quali fino ad ora solo occasionalmente e con molta difficoltà si sono occupate di reati gravi di un certo tipo, quasi esclusivamente di (alcuni) crimini di guerra. Nel momento in cui si viene a studiare un progetto di riforma così radicale, si dovrebbe infatti tenere conto anche delle capacità di questa struttura di affrontare il numero e la tipologia di procedimenti che si vorrebbero riservare ad essa.

A questo riguardo mi sorprende molto il fatto che nello studio della commissione ministeriale, che si è occupata lungamente e comunque approfonditamente della questione, si sia ignorato il dato numerico. Infatti nessuno, al Ministero della Difesa, si è posto il problema su quanti saranno i procedimenti penali che i nove tribunali militari - diffusi in maniera anche abbastanza casuale sul territorio nazionale - saranno chiamati a trattare dopo la riforma.

Noi sappiamo, dalle statistiche del Procuratore Generale Militare, allegate alle relazione di cui parlavo prima, che l'attuale carico di lavoro è veramente risibile, parliamo di nove tribunali militari che in un anno hanno fatto, tutti insieme, 762 sentenze gip gup e 1000 sentenze dibattimentali, tre corti militari d'appello che hanno sfornato solo 100 sentenze, parliamo di una Procura Generale Militare di Cassazione che ha presentato le conclusioni per la decisione di 41 ricorsi in un anno.

Questa struttura io voglio sperare che non sia stata totalmente disoccupata, evidentemente era strutturata ed organizzata, come preparazione non dei magistrati ma del personale (spesso personale militare rimediato), su questo carico di lavoro.

Nessuno si è preoccupato al Ministero della Difesa di dire: voi, da ora in poi, invece di 1000 procedimenti l'anno ne avrete ben 10.000, 100.000, 50.000, 500.000 …, potrebbero essere pochi, potrebbero essere troppi nessuno di noi lo sa!

Credo che ci siano degli strumenti di rilievo statistico, a campione, che avrebbero potuto definire in maniera molto precisa il nuovo carico di lavoro.

Ma il problema principale, peraltro, è a mio parere quello ordinamentale: c'è una delibera del Consiglio della Magistratura Militare del 3 dicembre '96, che è riportata nella mia relazione scritta, ove il nostro organo di autogoverno aveva evidenziato e sottolineato i motivi per i quali un ordinamento giudiziario penale, con tutte le garanzie di indipendenza che la magistratura militare tuttora ha, non può essere formato solamente da 100 persone, motivi per i quali è impossibile concepire l’autogoverno di 100 persone, perché vuol dire che 25 di esse hanno incarichi direttivi, 5 di essi sono eletti per decidere della carriera dei restanti 95…, vuol dire che tutti i magistrati militari prima o poi faranno parte del Consiglio della Magistratura Militare, e se ciò può essere una cosa positiva sicuramente per i singoli magistrati, non lo è certamente per l’efficienza dell’ordinamento.

Quindi, con questa delibera del 3 dicembre '96, lo stesso Consiglio della Magistratura Militare aveva auspicato che, in sede di riforma della giustizia militare, non si prescindesse "dal considerare anche i gravi inconvenienti che in via fatto derivano da una strutturale inidoneità di una autonoma organizzazione giudiziaria di dimensioni troppo esigue", e vi risparmio la lettura del resto...

Come ampiamente illustrato in quella delibera, in buona parte riportata nella mia relazione, un ordinamento così piccolo ha causato delle tensioni, suscitando un sacco di problemi già con un carico giudiziario relativamente basso e, soprattutto, con procedimenti per lo più a carico di militari di leva, e che quindi non avevano risvolti di potere, non comportavano riflessi di natura politica, oserei dire: tremo, quindi, all'idea di cosa possa succedere quando un ordine giudiziario così esiguo, autogovernato con tante difficoltà, fosse chiamato ad occuparsi di vicende molto più complicate e di molto maggiore rilievo: nella delibera del Consiglio della Magistratura Militare che ho prima richiamato si fa riferimento a noti episodi di denunce incrociate tra colleghi, cose molto poco edificanti che succedono sicuramente anche nella magistratura ordinaria, ma che in 100, come aveva spiegato lo stesso Consiglio della Magistratura Militare, è più difficile superare, perché ovviamente è più difficile allontanare le persone le une dalle altre, per superare i contrasti personali…

Mi permetto poi di rappresentare come sia attualmente in fase avanzata l'approvazione da parte delle camere della riforma dell'ordinamento giudiziario ordinario. Per i magistrati militari notoriamente sono vigenti le medesime norme, i medesimi principi che governano l'ordinamento giudiziario ordinario. Ognuno può avere un suo giudizio più o meno positivo sulla riforma dell’ordinamento giudiziario ordinario attualmente in corso di approvazione da parte delle camere: sarebbe però certamente assurdo ipotizzare che detta riforma possa riguardare solo la magistratura ordinaria e non quella militare, fin qui regolata dalla medesima normativa.

Mi riferisco in particolare ad alcuni aspetti, a mio parere più condivisibili, di quella riforma, ad esempio alla temporaneità degli incarichi direttivi: nella magistratura militare, dove gli incarichi direttivi rischiano di diventare a vita (perché siamo talmente pochi che se un fortunato collega diventa Procuratore Militare della Repubblica da giovane ci resta trenta, quarant'anni) sarebbe ancor più necessaria una temporaneità di incarichi; è però convinzione diffusa tra i colleghi che sarebbe impossibile estendere tale istituto ad un organico così esiguo.

Non parliamo poi, passando ad argomenti un po' più spinosi e controversi, dei concorsi e della selezione dei magistrati ai fini della carriera.

Se dobbiamo applicare una normativa più selettiva, per scegliere 25 capi ufficio tra 100 magistrati, mi chiedo come si faranno questi concorsi, chi farà questi esami, come possa un organo di autogoverno così piccolo essere veramente indipendente nel gestirli.

Sarebbe sufficiente consultare il progetto di legge approvato dal Senato in materia di ordinamento giudiziario ordinario, per rendersi conto come tutte le novità che si vogliono introdurre siano assolutamente inapplicabili alla giustizia militare.

Come magistrato militare devo dire che non avrei per niente piacere se alla categoria alla quale appartengo non si applicassero quelle parti della riforma dell’ordinamento giudiziario comune che - da un punto di vista corporativo – vengono giudicate "più scomode": sarebbe come dire che tali norme "scomode" sono destinate solo ai colleghi ordinari, ma a me no, perché sono un magistrato di serie B oppure, che ne so, perché sono più affidabile da un certo punto di vista… . Non riesco proprio a capire come si possa concepire una soluzione del genere!

Per quanto riguarda la legislazione penale militare di guerra,vi confesso trattarsi di un argomento di cui non sono particolarmente esperto: sul punto nella relazione scritta ho riportato alcune osservazioni. Ritengo che la più importante sia quella sull'applicazione della legge penale di guerra indipendentemente da una dichiarazione di stato di guerra da parte delle camere.

Il Senatore Cirami, nella relazione alla commissione che sta esaminando il nostro progetto di legge, ha molto opportunamente sottolineato come sia molto incerta la distinzione tra quando si può applicare il codice penale militare di guerra e quando no, indipendentemente da una deliberazione delle camere, e ciò diventa ancora più pericoloso, a mio parere, quando si parla di uno stato di guerra interno, effettivamente già previsto dalla normativa precedente ma in realtà mai applicato.

Si vorrebbe infatti confermare la possibilità di applicare la legge di guerra nel caso in cui fazioni si combattano tra loro all'interno dello Stato o prendano le armi contro lo Stato stesso. Mi dicono gli esperti in materia che si tratta di istituti previsti dalle convenzioni internazionali al fine di applicare alcune norme penali di guerra a tutela di chi insorge contro il governo legittimo, ma è anche vero che queste norme non si possono applicare integralmente senza una delibera delle camere.

Mi riferisco in particolare ad una norma veramente preoccupante che è quella riferita alla condizione di procedibilità della richiesta del Ministro della Difesa, mi riferisco al comma 1, lettera L n. 7, dell'articolo 4 del DDL 2483, che vorrebbe subordinare la procedibilità per i reati militari connessi all'esercizio di funzioni di comando in tempo di guerra, con esclusione dei crimini di guerra, alla richiesta del Ministro della Difesa.

In questa maniera, approvando la legge così com'è, si prevedrebbe che in caso di guerra interna, indipendentemente dalla proclamazione di uno stato di guerra da parte delle camere, il comandante delle forze militari (e mi permetto di ricordare che anche i Carabinieri sono militari) che operano all'interno contro questi terroristi, contro coloro che fanno queste insurrezione o questi moti di piazza, potrebbe essere perseguito penalmente senza l'autorizzazione del ministro solo nel caso di crimini di guerra, mentre per tutti gli altri reati egli potrebbe essere perseguito solamente su richiesta del Ministro della Difesa, ovvero colui, tra l'altro, che ha chiamato alla carica di comando colui che deve essere giudicato in sede penale. Mi chiedo poi che cosa avrebbero da ridire il prefetto e il questore in quelle che sono situazioni tipo Genova, per fare un esempio, i quali invece si troverebbero "abbandonati" alla mercè giudice ordinario, il quale giustamente procede e fa quello che deve fare. Il generale dei carabinieri a Genova, ove si ritenesse che si fosse trattato di una situazione che giustificava l’applicazione della normativa penale di guerra (non ho capito poi a chi sarebbe riservata la valutazione …), solo lui, o il comandante dell'esercito eventualmente intervenuto, sarebbe limitatamente perseguibile in sede penale, con un privilegio assolutamente ingiustificato.

Si tratterebbe di introdurre privilegi fin qui non vigenti, perché il codice del ‘41 prevedeva qualcosa del genere, ma le disposizioni in materia erano ritenute abrogate.

E’ vero, la stessa norma prevede poi che lo stato di guerra interno non si applichi nel caso di limitati disordini di piazza, deve trattarsi di condizioni particolarmente gravi, diciamo una situazione di grave agitazione dell'ordine pubblico, ma mi pare una norma assolutamente pericolosa.

Questo era quello che intendevo riferire sullo stato di guerra.

Aggiungo che, inoltre, in casi del genere si vorrebbero introdurre alcune deroghe sotto il punto di vista processuale, cioè ove si tratti di militari impiegati all'interno per contrastare movimenti di piazza particolarmente violenti, si vorrebbe applicare non solo la legge sostanziale di guerra (con alcuni limiti), ma anche quella processuale.

A proposito della perseguibilità a richiesta del Ministro della Difesa per i comportamenti tenuti dai comandanti delle truppe, insisto sul fatto che, quantomeno per buon gusto, si sarebbe potuto almeno attribuire il potere di richiesta al Ministro della Giustizia, e non a quello della Difesa, il quale, ripeto, è colui che ha nominato il comandante che deve essere processato.

Passerò adesso a trattare della legge penale militare di pace, materia della quale mi sento più padrone perché è il mio campo, quello che ho trattato per tredici anni. Qualcuno che seguirà, credo il dott. Roberti, riferirà approfonditamente su un primo punto che adesso riporto solamente in termini diciamo riassuntivi.

Questo disegno di legge intende far diventare reato militare una serie di reati contro la pubblica amministrazione, contro l'incolumità pubblica, reati in materia di sicurezza del lavoro, tradendo la tradizione precedente e passando a una situazione antecedente al codice del ‘41.

Lo spiegherà meglio il collega, ma nel codice del ‘41 erano previsti da un lato reati militari, ossia reati che offendono principalmente gli interessi militari, che sono quelli classici, diserzione, disobbedienza, tutti quei reati là, e qualche reato contro la pubblica amministrazione, la truffa e il peculato, perché il legislatore del ‘41 aveva ritenuto che in questi ultimi casi l'offesa all'interesse militare fosse predominante. Dall’altro tutti gli altri reati che erano "militarizzati" dall'articolo 264 del c.p.m.p., nel testo vigente dal 1941 al 1958, non erano qualificati reati militari, erano qualificati "reati comuni di competenza del giudice militare". Qui mi fermo per non sottrarre argomenti al collega.

Premessa questa considerazione, nel momento in cui si vorrebbe qualificare militari, o comunque attribuire al giudice militare, i reati contro la pubblica amministrazione commessi dagli appartenenti alle forze armate, si fa una forzatura, oltretutto contro l'articolo 103 della Costituzione. L'articolo 103 della Costituzione ci dice che in tempo di pace, e siamo in tempo di pace, i tribunali militari conoscono dei reati militari commessi da militari, ed è chiaro che non è sufficiente qualificare un reato qualunque commesso da militare come reato militare per farlo diventare tale. E’ evidente che non si potrebbe qualificare come militare il reato contestato all’appartenente alle forze armate che uccide la moglie: è ovvio che quello non è un reato militare, non basta qualificare militare un reato per renderlo tale.

Con il progetto di legge delega all’esame del Senato si vorrebbe invece qualificare reato militare un certo numero di reati che militari non sono per niente, in tal modo scavalcando l'articolo 103 della Costituzione. Si tratta di norma costituzionale che non è soltanto un limite formale introdotto nel ‘48 in ragione di una prevenzione contro i militari, una prevenzione contro i giudici militari, perché all'epoca eravamo tutti con le stellette.

Il problema è che gli interessi tutelati in via principale nelle fattispecie criminose che si vorrebbero militarizzare non sono di natura militare.

Faccio un esempio che dovrebbe fugare qualsiasi dubbio.

Premesso che quando si parla di reati contro la pubblica amministrazione commessi da militari non ci di riferisce soltanto a reati ascrivibili a bersaglieri o marinai, ma parliamo anche di Carabinieri e di appartenenti alla Guardia di Finanza, responsabili ad es. del reato di concussione che il disegno di legge vuole militarizzare qualificandolo quale reato militare.

Il disegno di legge prevede infatti di sostituire l'articolo 220 c.p.m.p. con una disposizione che classificherebbe come tale qualunque fattispecie criminosa già qualificata nel codice penale comune quale delitto contro la amministrazione della giustizia, se commesso da militari, prevederebbe come reato militare qualsiasi violazione della legge penale costituente delitto del pubblico ufficiale contro la pubblica amministrazione, se commesso da militari…

Ovvero, il maresciallo dei carabinieri che costringe il fornaio a dargli il pane senza pagare commette reato di concussione, attualmente di competenza del giudice ordinario, punito da quattro a dieci anni: una volta passata la riforma tale condotta sarebbe qualificata quale reato militare. Quindi il fornaio vedrà giudicare colui che l'ha costretto a dargli il pane senza pagare (e faccio un esempio così ridicolo, perché gli esempi reali sono ben più tragici… ), dovrà vedere il responsabile di una condotta del genere processato da un giudice militare, dovrà difendere i propri interessi civili costituendosi come parte civile davanti ad un tribunale militare, che non è solo tale perché composto da magistrati togati della mia carriera amministrati dal Ministero della Difesa, ma che ha nel collegio un altro militare in servizio, e - ove si tratti di un imputato con grado militare di ufficiale - un altro militare che ha lo stesso grado dell’imputato. Credo allora che sia veramente improponibile militarizzare questo tipo di reati.

E non è questo l'unico caso che pone problemi del genere, perché quando si propone di militarizzare le violazioni in materia di sicurezza del lavoro accade lo stesso: se un generale responsabile di una caserma non rispetta la legge 626 ed un operaio civile rimane ucciso in un incidente mortale, è possibile che questo sia considerato un reato militare?

Se si possono avere opinioni diverse sull’opportunità di ampliare la competenza dei tribunali militari, ovvero di non ampliarla, di … "aggiustarla" un po', ritengo invece assurdo solo ipotizzare che reati di questo tipo siano attribuiti al giudice militare.

Si tratta di ipotesi del tutto inconcepibili, non di proposte opinabili sulle quali magari, trattandosi di un progetto del governo, quelli dell'opposizione non sono d'accordo…

Non si tratta del caso in cui trattandosi di un progetto di sinistra a me non mi va bene perché sono di destra, o viceversa!

Il giudizio sul punto mi pare infatti assolutamente pacifico, e questo a parte le ulteriori considerazioni relative alle gravissime difficoltà di gestire poi questo tipo di indagine: attribuire infatti la corruzione o la concussione ai tribunali militari vorrebbe dire che il pubblico ministero militare deve indagare acquisendo ordinariamente dichiarazioni da soggetti estranei alle forze armate ed alla giurisdizione speciale.

Il corruttore del militare senz’altro concorre con quest’ultimo nel reato ma verrebbe giudicato da un giudice diverso, con possibilità di sviluppi processuali completamente diversi: si tratta di considerazioni ispirate alla esperienza giornaliera dei nostri uffici.

Nel corso di indagini svolte negli ultimi anni presso alcune procure militari, è già accaduto di accertare che episodi di peculato militare (condotta criminosa già adesso di competenza del giudice speciale) erano poste in essere in questo modo: io ufficiale di amministrazione devo comprare la carta per fotocopie, tu imprenditore civile mi dai 1000 risme di carta per fotocopie, me ne fatturi però 2000, io te le pago tutte e poi tu mi restituisci l’importo versato in più (detraendo eventualmente il tuo … disturbo).

Si tratta di episodi de iure condito già qualificati peculato militare: quando io sostituto procuratore militare andavo ad acquisire dichiarazioni dall'imprenditore chiedendogli "scusi ma per caso avete concluso accordi del genere con i militari?" l'imprenditore non mi considerava neppure: solo in qualche caso (ma non credo che si voglia contare su una gestione della giustizia così "personalistica") ho trovato qualche collega ordinario, il quale si è chiamato l'imprenditore coinvolto nella faccenda ed è riuscito a farsi dire come andavano effettivamente le cose.

Con il disegno di legge governativo si vorrebbe insomma di riservare al giudice militare la competenza per tutti gli altri reati contro la pubblica amministrazione commessi all'esterno della caserma, anche ove siano coinvolti soggetti civili: si rischia così di garantire per determinati reati la sostanziale immunità penale ai militari.

Non sarebbe certamente giusto né razionale differenziare condotte criminose del genere commesse da carabinieri da quelle commesse da appartenenti, per esempio alla Polizia di Stato: si tratta infatti di illeciti commessi da soggetti che hanno i medesimi compiti d’istituto e lo stesso stipendio, curano ad esempio gli stessi acquisti di carta da fotocopie…

Ora, voglio dire una cosa che un pubblico ministero non dovrebbe dire: io non discuto se è giusto o non è giusto che, quando l’inquirente indaga per una corruzione, faccia capire all'imprenditore che ha corrotto il pubblico ufficiale che se non parla rischia la galera: ciò è probabilmente ingiusto e vessatorio, ma quello che sarebbe ancora - e di molto - più ingiusto sarebbe differenziare i vari casi: se colui che ha preso i soldi è un poliziotto si trova il magistrato ordinario che dice o fa capire al corruttore "guarda che se mi prendi in giro finisce male", mentre se quello che ha preso i soldi è un carabiniere, invece no…

Io non discuto: vogliamo essere garantisti, vogliamo dire che è ingiusto che il pubblico ministero usi queste forme di coercizione che spesso sono solo psicologiche, sono solo velate, non m'interessa, vogliamo dire che invece bisogna essere più garantisti, va benissimo, però non potremmo assolutamente accettare questa discriminazione che sarebbe ingiustificata, a parità di funzioni tra Polizia di Stato e Carabinieri, a parità di funzioni una differenza di controllo penale enorme!

Differenze di concreti poteri di indagine che non sarebbero peraltro limitate solo a quest'aspetto ma che dipenderebbero anche dall’ampiezza delle circoscrizioni territoriali e dalla esiguità delle dotazioni di organico dei singoli uffici giudiziari militari; abbiamo infatti solo nove procure militari, distantissime le une dalle altre, provviste di uno o due sostituti ciascuna: la possibilità concreta di intervenire al di fuori del comune o della provincia ove ha sede l’ufficio sono pochissime.

Io sono alla Procura Militare di Torino ed i comandi militari di quella città sono stati nel tempo tutti chi più chi meno "disturbati" dalla procura militare ove lavoro, ma quelli di Genova, distanti 150 chilometri dallo stesso ufficio requirente competente ad indagare, chi mai li importunerà…?

Forse è giusto che siano tutti tranquilli, non dico mica che è stato giusto dargli fastidio, però poi mi dovete spiegare anche qui la discriminazione tra le due città.

Ma la discriminazione investe anche i diversi soggetti, militari o civili, coinvolti nelle indagini: a seguito dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale il concorso nel reato militare dell’estraneo alle forze armate non comporta più attribuzione all’a.g.o. della competenza anche nei confronti del militare, quindi si hanno due processi che camminano per conto proprio.

Ed allora con la riforma che si intende varare succederebbe sempre più che i due concorrenti nel reato possano avere destini giudiziari estremamente diversi.

A proposito di concorso di civili nel reato militare, vi lascio immaginare cosa è successo con l’art. 513 c.p.p., nelle varie versioni modificate nella seconda metà degli anni ’90, quando all'imputato di reato connesso era stato riconosciuto il diritto di rispondere o no così determinando l’esito dei processi.

Il soggetto civile imputato di reato connesso chiamato a testimoniare davanti ai tribunali militari sì e no si presentava, mentre invece nell’altra sede rispondeva alle domande del collega ordinario: è possibile una cosa del genere?

Questo è quello che si rischia con un disegno di legge formulato non capisco per quali finalità, per quale motivo, forse per giustificare una struttura che ormai, ce l'ha detto il Procuratore Generale Militare d'Appello all’inaugurazione dell’anno giudiziario, non serve più a niente?

Certamente la ragione dell'esistenza di una qualunque istituzione pubblica non può che risiedere nell'attesa che da essa possano derivare benefici apprezzabili per la collettività, e per quanto riguarda la nostra istituzione giudiziaria al momento attuale questa attesa non è sufficientemente confermata dai fatti: questo ha detto il Procuratore Generale Militare.

I sostenitori del progetto di riforma hanno voluto giustificare l’ampliamento di competenza con asserite esigenze di razionalizzazione, ed in particolare con la volontà di eliminare i casi di processi doppi, ripetuti nei confronti dello stesso soggetto dinanzi al giudice militare ed a quello comune.

Per casi di doppio processo si intendono quelli in cui attualmente, principalmente per episodi di peculato militare, talvolta accade che, poiché il reato militare è più grave del falso ideologico (fin qui di competenza del giudice comune), e spesso i peculati militari vengono commessi predisponendo documenti falsi, l'ufficiale accusato di peculato militare si trova due processi, uno presso il giudice speciale per peculato militare, ed uno presso l’a.g.o. per il falso.

Si è detto allora: cerchiamo di razionalizzare, riserviamo tutti i reati contro la fede pubblica e tutti i reati contro la pubblica amministrazione commessi da militari al giudice militare, perché in questa maniera eviteremo il doppio processo.

Io non so come qualcuno abbia potuto sottoscrivere una cosa del genere, perché fino ad ora abbiamo avuto doppi processi solo per il peculato militare ed il falso ideologico, ma i casi del genere con questo progetto di legge sono destinati ad aumentare più che considerevolmente.

Si pensi ad esempio alle infrazioni penali in materia di sicurezza sul lavoro a cui conseguano incidenti mortali: l’omicidio colposo del civile avvenuto in caserma resterebbe (si spera) reato comune di competenza del giudice ordinario ed invece la violazione delle norme di sicurezza diverrebbe reato militare?

Ho già fatto l'esempio della concussione. Nella commissione ministeriale vi era qualcuno appartenente all'Arma dei Carabinieri: ma lo sanno i vertici dell’arma quale è il reato tipico del maresciallo? concussione e violenza sessuale alla prostituta, la concussione - che si vorrebbe reato militare - e la violenza sessuale - che resterebbe reato comune - e quindi due processi con due giudici diversi per un medesimo fatto. Altro tipico esempio: sequestro di persona, falso verbale di arresto, lesioni all'arrestato e arresto arbitrario, il falso nel verbale di arresto lo vorrebbero far giudicare al giudice militare, e invece le lesioni o il sequestro di persona al giudice comune. Si andrebbero a moltiplicare in maniera incredibile i procedimenti..... il maresciallo dei carabinieri prende soldi da un rapinatore per non denunciarlo, allora, l’omissione di atti d'ufficio reato militare, la corruzione reato militare, però l’omessa denuncia di reato comune resterebbe reato contro la giustizia ordinaria, quindi reato comune.

Per non parlare poi di situazioni assurde, io ufficiale dei carabinieri svolgo attività di favoreggiamento a favore di due delinquenti di cui uno è un collega militare e l’altro è un civile complice di quest’ultimo, con una stessa attività faccio allora due favoreggiamenti, uno perché ho disturbato la giustizia militare (mi riferisco ai reati contro l'amministrazione della giustizia, militare che si vorrebbero "militarizzare"), è l'altro perché ho disturbato, diciamo così, la giustizia comune?

Come si vede, il problema di una giurisdizione a macchia di leopardo, che tanto viene sollevato adesso per giustificare un intervento del genere, diventerebbe molto più grave e diffuso rispetto alla situazione attuale, ove casi del genere sono assai poco numerosi, limitati per lo più al peculato militare ed al falso ideologico.

Ma allora sarebbe bastato attribuire ai tribunali militari la competenza per i soli falsi strumentali al peculato militare, se proprio si voleva evitare i doppi processi e mantenere tale ultima fattispecie di reato militare, che comunque, a mio parere, sarebbe anch’essa ormai non più giustificata…

Qualche settimana fa ho partecipato ad un convegno presso la Procura della Repubblica di Torino dove c'era il dottor Caselli, Procuratore Generale di Torino, il quale parlando del mandato di cattura internazionale, del problema della criminalità internazionale, sottolineava trattarsi di problema grave perché i delinquenti, le associazioni a delinquere, arrivano a studiare a tavolino le strategie per "saltare" da una giurisdizione nazionale all'altra, per meglio curare così i propri interessi criminali.

Mentre il noto magistrato parlava, il sottoscritto rifletteva come qualcosa del genere potrebbe succedere anche nel nostro campo, ove si rischia di fare in modo che chi vuole delinquere si faccia un po' i conti su come muoversi nella zona grigia, tra il giudice ordinario e quello militare, e così meglio tutelare i propri interessi delittuosi.

Qualcosa del genere peraltro l'ho vista già accadere a Torino quando, in un momento in cui ritenevano che il giudice militare fosse più buono di quello ordinario, in un circolo ufficiali è successo un pasticcio: il direttore del circolo era un militare in pensione, l'hanno preso e l'hanno tolto di lì sostituendolo con un militare ancora in servizio, pensando così di stare più tranquilli; alla fine non è servito a molto però ci hanno provato...

Ho fatto questo esempio anche per ribadire come le mie osservazioni non derivino da studi astratti ma da considerazioni concrete maturate sul campo, frutto di quello che ho vissuto e visto accadere in tredici anni di attività giudiziaria requirente.

Mi permetto da ultimo di sottolineare come anche il progetto presentato dall'opposizione (1533 del Senato), Nieddu ed altri, se da un lato molto opportunamente prevede la soppressione del ruolo autonomo dei magistrati militari, dall’altro, incredibilmente (forse perché ritenendo che la magistratura militare fatta amministrare da ordinari sia sufficientemente garantita, garantista e indipendente) propone ampliamenti di competenza analoghi a quelle del progetto governativo, intendendo anch’esso militarizzare i reati contro la pubblica amministrazione in maniera incomprensibile, con una proposta per la quale ovviamente valgono le medesime critiche che ho espresso fino qui.

Voglio fare ancora un'ultima osservazione riguardo le fattispecie di reato militare di scarso allarme sociale, comunque tradizionalmente di competenza del giudice militare, che tali potrebbero restare anche per un giudice militare ridotto all'osso come sezione specializzata del giudice ordinario.

Anche su questo punto il disegno di legge riporta proposte abbastanza discutibili. Mi riferisco a due in particolare.

Il disegno di legge vorrebbe riformare - ampliandola - la fattispecie di danneggiamento colposo di bene mobile militare: nella relazione ministeriale è qualificata "evidente svista del legislatore del ‘41" l’aver lasciato impunito il danneggiamento colposo di oggetti di armamento militare: tutto ciò non è vero, il legislatore del ‘41 operava sotto un regime ben diverso dall’attuale ma non era così distratto, aveva valutato che, obiettivamente, il militare che strappa i pantaloni non può essere chiamato a risponderne davanti un giudice penale!

La legge delega vorrebbe ancora introdurre l'arresto per "i casi più gravi", così dice la legge, di assenza dal servizio.

L’arresto in flagranza per i disertori non è più possibile fin dal 1989.

In un passaggio della relazione ministeriale al disegno di legge 2483, peraltro, è evidenziato molto saggiamente come l'attività militare si articoli tra una condizione addestrativa (prevalentemente all’interno del territorio nazionale) ed una operativa (per lo più missioni all’estero).

Non riesco allora a comprendere come si possa pensare di prevedere l'arresto obbligatorio (o anche facoltativo) in flagranza per fatti di diserzione posti in essere durante la condizione addestrativa.

È chiaro che in zona di operazioni, o durante una missione all'estero, se non mi presento in servizio militare mi arresti, ma in condizione addestrativa ciò sarebbe assolutamente ingiustificato, anche qui la diversità di trattamento tra le forze di polizia ad ordinamento militare e le altre, ad esempio, sarebbe profondamente ingiusta, pur questa volta a scapito delle prime.

Mi si deve spiegare perché un frequentatore del corso da Ispettore della Polizia di Stato a Nettuno che questa sera decidesse di non rientrare in caserma al più perderebbe il rapporto di pubblico impiego, arrivederci e grazie, mentre un maresciallo dei Carabinieri, che invece sta frequentando lo stesso corso a Firenze, scuola allievi marescialli carabinieri, con i medesimi piani di formazione e destinato ad analoghi servizi di polizia, se non si ripresenta dovrebbe essere arrestato.

Sul punto anzi mi sentirei di ipotizzare una completa depenalizzazione della diserzione, quando questa sia commessa durante la condizione addestrativa.

Una scelta del genere sarebbe forse estremamente auspicabile una volta finita la leva obbligatoria, quando tutti militari in servizio saranno volontari con rapporto di pubblico impiego. Presso la Procura Militare di Torino ho già avuto modo di imbattermi in casi di militari professionisti i quali, denunciati per diserzione non avendo più giustificato la propria assenza dal servizio, richiesti in sede di interrogatorio del motivo per il quale non avessero più mandato i certificati medici una volta trascorsi sei mesi di assenza, hanno risposto: "ma mi è arrivata la lettera secondo la quale ero stato messo in aspettativa, non mi davano più lo stipendio, quindi io il certificato medico non lo ho più mandato, ho pensato di essere stato licenziato, anzi adesso posso tornare, domani torno e continuo il rapporto di impiego con lo Stato. Grazie, grazie …."

Credo di aver abusato fin qui pur troppo della pazienza dei presenti, concludo quindi ringraziando gli organizzatori di questo incontro, che mi hanno offerto l’opportunità di intervenire, e salutando tutti i presenti.

 

 

Dott. BENEDETTO ROBERTI

Giudice tribunale militare di Padova

 

Cercherò di essere breve, anche perché il collega mi ha rubato un bel po' di spazio; innanzitutto non sono un giurista, sono un pedestre del diritto, un pratico, e sono avvezzo a concretizzare le cose pur partendo da nozioni teoriche di dottrina, perché penso che compito del operatore del diritto sia di essere concreto visto che la finalità della giustizia, compresa la giustizia militare, é quella di rendere efficienza, ma non ha alle Forze Armate, come recita in premessa il Disegno di legge, e questa è una critica che sin d'ora voglio fare, non si capisce come si possa assicurare con questa tipologia di legge la piena funzionalità delle Forze Armate, e non assicurare in ipotesi la piena funzionalità a coloro, cioè gli Organi di giustizia, che ripristinano la legalità (questo connubio con l'amministrazione attiva penso non sia corretto). Condivido tutte le argomentazioni del collega e quindi non mi soffermo sulle stesse; anch'io, sin dall'inizio, ho trovato stranissimo che questa Commissione di studio e questo conseguente Disegno di legge governativo non siano stati preceduti da alcuna analisi statistica su dati di fatto; è assurdo che una legge non si basi su dati di fatto, su statistiche. Cioè, voglio dire, soprattutto per periodi di pace, come già detto il collega si riprendono, si militarizzano reati che sempre, sin dal 41, sono stati concepiti come reati comuni. Questo evidentemente per giustificare la scarsità di lavoro degli attuali Organi di giustizia militare. Ora, io, modesto pedestre del diritto, se avessi fatto parte della commissione, alla prima seduta, avrei chiesto: scusate, visto che sembrerebbe che il Ministro della Difesa in persona abbia detto che l'unica iniziativa legislativa del governo prevede, non la soppressione dei tribunali militari, del resto lo stesso Consiglio della magistratura militare sembra, come già detto il collega, essersi espresso in tal senso, ma abbia previsto, il ministro della difesa, l'unica possibilità sia quella di riorganizzare le competenze mediante un aumento del carico di lavoro. Allora, dato per scontato che penso che anche un'associazione possa opporsi a questa ipotesi legislativa se convinta, ma comunque dato per scontato che fosse obbligata questa scelta di politica legislativa, perché di politica legislativa si tratta, avrei detto scusate: vogliamo aumentare le competenze? Quali reati comuni che si militarizzano possono alleviare il modestissimo carico di lavoro dei tribunali militari? Io sono in servizio Padova, corte d'appello di Venezia, leggendo anche la stampa conoscendo anche i dati statistici, non penso che di questi reati comuni ne possono arrivare a fine anno più di una ventina trentina di procedimenti; ma questo giustifica l'aumento?; ma comunque al di là di questo analizziamo le statistiche prima di procedere ad una scelta legislativa così finalizzata. E questo è un argomento di premessa metodologico. Altro elemento che ha trovato, queste sono critiche personali posso benissimo sbagliare perché non sono un giurista, ho sempre pensato che quando si prospetta una revisione di un codice, quindi una materia complessa che si presume ordinata se pur ancorata a un periodo storico, si debba operare sulla base della miglior scienza, ossia della miglior scienza giuridica del momento. Ora, questo disegno di legge solo all'apparenza cerca di rivisitare la nozione dei reati militari dal punto di vista dell'oggettività giuridica, ma realtà, se si bada bene, se si segue punto per punto l'articolato, si segue la vecchia nozione della fedeltà o della mancanza di fedeltà di una certa tipologia di comportamenti da parte delle appartenenti alle forze armate; è la vecchia nozione del di Vico, Trattato di diritto penale militare del 1917. Allora, tenendo presente anche che, questo progetto di legge, in vari punti, come già detto il collega, prevede siano militarizzati reati che sono tutt’oggi reati comuni, definendoli all'improvviso reati militari, converrebbe brevemente sintetizzare qual’erano le conoscenze del legislatore del 41 a proposito della nozione di reato militare . All'epoca, ma anche negli anni 50, poi di questo argomento non se n'è parlato più perché il Parlamento ovviamente fedele all'articolo della costituzione 103, terzo comma, ha ritenuto che i tribunali militari in tempo di pace debbano conoscere soltanto dei reati militari commessi dagli appartenenti alle Forze Armate. Ecco della nozione di reato militare non si è più parlato negli ultimi decenni. Alla fine degli anni ’50 per l’ultima volta si discusse se il Codice penale militare dovesse essere complementari o integrale. Cosa significa codice penale complementare? Significa che il codice penale militare complementare contiene solo pochissime norme di differenziazione, di eccezione, rispetto al codice penale comune, sia in parte generale sia in parte speciale. Codice penale militare integrale significherebbe, secondo la concezione del Ciardi, anni 50, del Malizia e di altri, sempre anni 50, sarebbe un corpo iuris autonomo e indipendente. Per la parte speciale sopratutto dovrebbe comportare la codificazione di tutti quelli che sono la tipologia di reati militari, norma per norma senza far riferimento al codice comune o richiamando reati del codice comune però qualificandoli come reati militari perché commessi per soggettività dagli appartenenti alle forze armate; ciò bastava perché si ritenesse leso un interesse militare. Allora, prima del 41 erano vigenti i codici penali militari dell'esercito, della marina del 1869, i codici sardi; fin al 1941; durante la prima guerra mondiale nonostante le Circolari Cadorna si applicavano quei Codici; sono brevi accenni perché sono significativi. Dopo la prima guerra mondiale, il Governo, lo stesso Parlamento dato il contesto che il modo di fare guerra era cambiato; la guerra era diventata una guerra di popolo, anche le scienze militari erano cambiate, gli stessi armamenti la tecnologia, le modalità di offesa erano cambiate. Cioè si necessitava di un nuovo codice e allora abbiamo avuto la commissione Berenini, Commissione parlamentare Berenini, che ha concluso i suoi lavori, credo, nel 21-23. Definì il codice penale militare di pace e di guerra come un codice complementare, siamo nel 21. Già all'epoca il Legislatore, in sede parlamentare, prospettò che il codice militare penale di pace e di guerra dovesse essere complementare non solo nella parte generale ma, anche nella parte speciale, cosa che non rispecchia questo disegno di legge. Addirittura la relazione Berenini diceva che i reati militari dovevano essere solo quelli che il Di Vico pochi anni prima aveva teorizzato come militari, quelli esclusivamente militari. Il Di Vico nella sua nozione non basata sull'oggettività giuridica, cioè sulla lesione a beni ed interessi di una certa rilevanza militari, seguiva la nozione della mancanza della fedeltà del militare al suo status e a certi valori, e quindi concepì come reati militari, quelli quelli contro il servizio e contro la disciplina; quelli erano i reati militari, che tutto sommato troviamo nell'attuale codice vigente del ’41 sotto la voce reati contro il servizio, reati contro la disciplina militare. Quelli erano i reati militari, stante gli studi della Commissione Berenini. Un'eccezione per quel periodo, prima del ’41, il periodo tra le due guerre, è stata la commissione del senatore D’Amelio del ’26, che fu per il codice penale militare integrale, unica eccezione. Per ragioni più che giuridiche, basate sulla realtà dei fatti ed sappiamo che all'epoca e tribunali militari, gli organi della giustizia militare erano composti da ufficiali, non da magistrati togati di corso. Essendo i giudicanti degli ufficiali, dei militari si riteneva logico dovessero avere una conoscenza completa di tutte le possibili violazioni penali potessero essere commesse dai militari.

Quindi si diceva dovessero avere avanti a sè un corpo iuris completo , di modo da conoscere tutte le possibili violazioni che potevano essersi commesse da militari per agevolare il lavoro dei giudici militari non togati. Questo era il pensiero del senatore d'Amelio. Però riguardo la Commissione Berenini avevo dimenticato di dire che essa aveva previsto, nell'ottica dell'epoca, che i tribunali militari dovessero conoscere dei reati anche definiti comuni commessi dagli appartenenti le forze armate, una norma di rinvio tautologico, senza definire quali fossero; si diceva semplicemente che i tribunali militari dovevano conoscere dei reati comuni sottoposti alla giurisdizione dei tribunali militari; era stabilita anche un'altra norma che statuta che sono sottoposti alla giurisdizione dei tribunali militari i reati comuni commessi dagli ufficiali in servizio, comunque militari in servizio. Norma di carattere processuale più che sostanziale. Poi abbiamo avuto la Commissione d'Amelio di opposta tendenza. Poi altre due commissioni, una Reale del ’32 e una Parlamentare del ’37. Sono state tutte due per il codice penale complementare, quella reale del ’32 era presieduta da Di Vico e vi partecipava anche il noto Manzini, il quale Manzini ebbe a dire in occasione di quella commissione, (sono andato a vedere nei testi integrali), che reati militari da inserire nel codice penale militare di pace devono essere quelli esclusivamente militari, quelli ledenti, per contenuto, dell'interesse specificatamente militari, reati contro il servizio contro la disciplina. È vero che anche queste due Commissioni concludevano dicendo, ma perché nell'obbligo cancella ma perché nell'ottica del tempo non c'era la costituzione, concludevano dicendo che organi della giustizia militare dovevano conoscere anche dei reati comuni commessi dagli appartenenti alle forze armate; sempre la stessa nozione della commissione Berenini, nulla cambiava, perché all'epoca non si poteva nemmeno concepire che i tribunali militari composti sia da ufficiali non togati e sia da magistrati togati, magistrati togati e ricordiamo che fino a 1981 portavano le stellette facevano parte della giustizia militare, erano militari anch'essi, era inconcepibile che non potessero conoscere nella sua completezza la criminalità militare, questo nell'ottica del tempo. Ecco, siamo prima della guerra, la commissione come ho detto prima, quella parlamentare stava lavorando già da tre anni, era vicino il conflitto; si aveva la necessità di codificare questi principi; innanzitutto io ho osservato per queste commissioni prima di stendere un elaborato lavoravano addirittura per tre o quattro anni, cioè tre o quattro anni di studi, di analisi, di conflittualità all'interno, relazioni di minoranza, composizioni; vi partecipavano illustri penalisti, Manzini, Di Vico. Ecco avevamo la necessità per lo stato di guerra di una codificazione nuova, aggiornata, e quindi legislatore prende in mano il testo delle ultime due commissioni e lo codifica. Reati contro il servizio, contro la disciplina seguendo lo schema della nozione del di Vico, non tanto valutando l'oggettività giuridica, quanto valutando la qualità del soggetto attivo e la mancanza di fedeltà rispetto a certi valori consolidati nell'ambiente militare, tenendo presente una concezione istituzionalistica delle forze armate per cui venivano concepite sempre come la parte preponderante, importante, dell'organizzazione statuale; e per la realizzazione dei cui scopi si aveva la necessità di una codificazione autonoma; concezione istituzionalistica delle forze armate, che avevano un'autonomia regolamentare, e quindi un'autonomia, un'autonomia di codice, pur nell'ambito dell'ordinamento generale statale; questa peraltro era una concezione diversa da quella democratica, del resto ben definita nell'articolo 52 della Costituzione vigente; sta per entrare in vigore la guerra e quindi abbiamo questo elaborato però il nostro legislatore del 41, nota che oltre ai reati esclusivamente militari, quelli tipici militari, per cui aveva già elaborato un testo si aveva la necessità di avere degli altri reati contro l'amministrazione militare, contro la persona per esempio, contro patrimonio, perché? Perché ritenne che nel codice di pace potessero essere inseriti anche altri reati, che non avessero interesse esclusivamente tramite militare come gli altri ma che le ledessero un interesse comune però anche un interesse militare, prevalente, e quindi riprese, e andiamo al testo del ’41 e li abbiamo, alcuni reati previsti nel codice comune e li definisce reati militari, però li riprende lì definisce reati militari perché si aveva la necessità di strutturarli meglio rispetto com'erano strutturati nel codice penale, sempre con riferimento alla necessità delle forze armate com'erano organizzate sia per quanto riguarda la struttura contenutistica del reato nel suo precetto sia per quanto riguarda la sanzione penale o gli elementi circostanziali del reato; esempio: ma, poi si può fare lo stesso discorso: peculato militare, si ritenne che dovesse essere sanzionato, peculato militare commesso dal militare con una certa qualità, si ritenne dovesse essere sanzionato con un minimo edditale inferiore da due a 10, anziché da tre a 10 e come nel codice Rocco del 31, questo perché si ritenne che forse comporta minor disvalore tale reato, essendo commesso all'interno di un'istituzione. Concessione istituzionalistica, per cui si pensava desse minor disvalore sociale un reato commesso al suo interno. Lo stesso furto militare, si recupera, col 230 secondo comma e seguenti, prevedendo sanzioni meno afflittive per contenuto rispetto al codice comune, e sempre per la solita logica; e poi abbiamo delle ipotesi di furto, per esempio il furto del dipendente nei confronti del superiore, ipotesi che all'epoca si ritenevano di codificare perché non erano previste nel codice comune; questi sono degli esempi, ma quello che mi premeva di dire, riprendendo anche le relazioni al codice, e gli studiosi che si sono soffermati su questa scelta, per il fatto che legislatore pensava che questi soli fossero i reati militari da inserire nel codice accanto a quelli più tipicamente militari e non gli altri; poi comunque v’era una norma di chiusura di carattere processuale, l'articolo 264 del codice penale militare di pace che prevedeva la possibilità della giurisdizione militare anche per reati comuni commessi dagli appartenenti alle forze armate; infatti, riprendendo l'articolo 264 si nota che si dava la conoscibilità gli organi di giustizia militare, si cita una volta per tutte, l’art. 264: ecco: si prevedono delitti della legge penale comune, perseguibili d'ufficio commessi da militari: a ad anno del servizio militare, di ad anno dell'amministrazione militare, a danno di altri militari perché commessi da militari a causa del servizio militare con abuso della qualità di militare. Secondo me, per il legislatore del 41 erano, sono stati sono tuttora, reati comuni, riconosciuti dalla giurisdizione militare perché all'epoca, come ho già detto, nell'ambito di una concezione istituzionalistica, non ispirata al principio della democraticità dell'ordinamento, non potevano essere conosciuti dal giudice ordinario ma dal giudice militare. Poi cosa succede? Arriva la Costituzione, articolo 103: i tribunali militari in tempo di pace conoscono soltanto, l'avverbio è molto importante, i reati militari commessi dagli appartenenti alle forze armate. Tutti dicono, sono andato a vedere anche quello che disse il Pannain all'epoca, e lo posso anche citare, sono andato a tirarmi fuori un vecchio manuale sul codice penale militare, integrale Pannain disse all'epoca che quando il Costituente legiferò relativamente a questa norma aveva sotto gli occhi proprio la legge penale militare del tempo, quando si parlava di reati militari, per il legislatore costituzionale erano quelli che all'epoca erano contenute nel codice penale militare di pace; non i reati militarizzati che erano ritenuti, del resto dallo stesso legislatore ordinario, reati comuni, e pertanto non conoscibili dal giudice speciale, quindi già con la Costituzione i tribunali militari sono stati privati di gran parte del carico di lavoro, perché viene cancellata la possibilità di conoscere di questi reati, che la dottrina definì reati militarizzati; è pacifico ed è notorio che con la Costituzione questi reati non sono stati più conosciuti dal giudice speciale militare; sia la dottrina che per pacifico ritenne non potessero essere conosciuti, ma anche la stessa Corte di Cassazione nel pronunciarsi, per cui quando nel 1956 il legislatore intervenne per abrogare alcune norme tra quel famoso art. 264 non fece nient'altro che ratificare una situazione già esistente per giurisprudenza; quei reati non erano militari e il tribunale militare non poteva riconoscerli; e il legislatore del 56, rammento per tutti che la legge nacque a sostegno del noto procedimento a carico del critico cinematografico Aristarco che nello sceneggiare un film "L‘armata Sagapò" avrebbe vilipeso le forze armate, queste si ribellarono a quella sceneggiatura, e si ebbe, se non erro presso il tribunale militare di Verona aperto un procedimento; Aristarco era un ufficiale in congedo; intervenne il legislatore del 56 e modificò alcune norme, tra cui la soggettività militare, i militari in congedo furono diciamo tolti dal giudice speciale e poi si ratificò un indirizzo giurisprudenziale costante con la norma di cui all’art. 264 c.p.m.p. Comunque è importante dire che già con la Costituzione, questi reati comuni, che adesso nel disegno di legge li trovano addirittura militarizzati, ma con un'operazione ancor di più pregnante, perché vengono definiti nel disegno di legge reati militari, almeno il codice del 41 le definiva reati comuni adesso diventa non addirittura reati militari con tutte le implicazioni circostanziali, cause di giustificazione, pene accessorie, cioè prima erano reati comuni adesso diventano addirittura militari, un'operazione ancor di più pregnante anticostituzionale tant’è che vengono inseriti a pieno titolo nel codice penale militare di pace. Dopo il ‘56 cosa succede? I tribunali militari cercano di sollecitare il Legislatore a mutare orientamento, per sollecitazione delle alte sfere della magistratura militare dell'epoca venne presentata una proposta di legge, sembra di vedere l'attuale articolato, adesso siamo nel 2004, stiamo facendo l'operazione che nemmeno andò in porto negli anni 1956 e seguenti, militarizzare reati comuni, si tentò di fare della nozione formale di reato militare, articolo 37 del codice militare penale di pace che definisce reato militare quello previsto dalla legge penale militare, una nozione formale, si cercò, come si cerca adesso, di renderla una nozione sostanziale, cioè il reato che lede interessi militari, così come il 264 ed altri. Questi progetti non andarono in porto, per volontà dello stesso Parlamento che ritenne fossero in contrasto con una l'articolo 103 comma terzo della Costituzione italiana. Lo stesso Ministro della giustizia di epoca, l'onorevole Moro, ebbe ad opporsi esplicitamente, proprio in segno di approvazione della legge del ’56. Fatto sta che il legislatore dell'epoca, siamo quarantacinque anni fa, si oppose a questa militarizzazione di reati comuni. Abbiamo avuto poi nel 59 un'ulteriore tentativo della magistratura militare; fu tenuto a Verona a un congresso di diritto penale militare internazionale, cui parteciparono di Pannain, Bianchi d’Espinoza, magistrato della corte di cassazione, il Malizia, tutte le maggiori menti illuminate della magistratura militare; tennero un congresso finalizzato a prospettare la necessità di un codice penale militare integrale, ma tale progetto non ebbe seguito, fu fatto questo convegno, furono spese delle relazioni, ma tutto morì lì, nonostante il sollecito del Parlamento, per le stesse ragioni poch’anzi dette. Questo volevo dire, è una cosa anche importante, quando il Pannain,, che all'epoca era docente di procedura penale, se non sbaglio a Napoli, ed è anche lui a sostenere la necessità di un codice penale militare integrale, che quindi, soprattutto con riferimento alla parte speciale, riprendesse pedissequamente i reati comuni commessi da appartenenti alle forze armate se ledendi e interessi militari, a parte la difficoltà di definire una categoria siffatta, che lascia ampio spazio alla discrezionalità, con lesione del principio di tassatività laddove si viene definire una nozione di reato militare. Ecco, quando Pannain sollecitava questo, Pannain lo sollecitava sulla base di una richiesta ben chiara, diceva infatti che si doveva dare sostanza a dei tribunali militari privi di sostanza, all'epoca, e adesso nulla è cambiato, ma perché, diceva il Pannain? Perché i tribunali militari sono composti da militari, da militari e anche i giudici togati sono militari perché fanno parte del Corpo della giustizia militare, e quindi, in quanto militari, hanno la cognizione adeguata a giudicare quei reati anche comuni commessi dai militari. Ma questa tipologia di organi militari non ci sono più, perché nel 1981 è stata riformata la giustizia militare; quindi, in pratica, e caposaldo è che con la Costituzione si viene a elidere l'unione tra giurisdizione e legge penale militare. La costituzione rompe questa unione, e poi con l'evoluzione legislativa, abbiamo avuto un mutamento radicale di quelli che sono gli organi deputati a conoscere questa materia, che non sono più militari, sono giudici togati non appartenenti ad un Corpo militare. Quando si sono rotti questi equilibri, gioco forza, secondo me, per una commissione di studio è meglio andare verso altri orientamenti legislativi rispecchiante anche la realtà storica, la realtà internazionale. Dove abbiamo tribunali militari nei paesi Nato ? Turchia? Sì, in Turchia, in altri Paesi non ci sono, forse in Portogallo, dove si sono i tribunali militari adesso che giudicano di reati militari? Colombia; Siria, Israele, e Egitto, Giordania, in Belgio sono stati soppressi due anni fa, in Francia furono soppressi con Mitterand nel 69, in Germania, con il primo governo socialdemocratico, ma perché si prevedette la conoscibilità della legge penale militare sostanziale al giudice ordinario, penso che sia la soluzione ancorata alla storia, ed eliminante tutta quella serie di problematiche su cui il collega si è anche soffermato. Per me, questo disegno di legge rispecchia permanente delle ragioni corporative, una difesa della magistratura militare, delle proprie posizioni, ammesso che ce ne siano; tutt’ora i magistrati militari sono 103. Magistrati che sono riusciti ad avere un ufficio direttivo a quarant'anni, anche se sembra scandaloso, su questo dovrebbe interrogarsi l'opinione pubblica, con che professionalità uno può tenere un ufficio direttivo o quarant'anni, del resto è vero, E' vero che i concorsi sono anche virtuali, sono concorsi ad uffici direttivi senza concorrenti, con un’unica istanza , per cui non c'è bisogno di una valutazione dei titoli. Poi, una cosa che rende ancora impossibile il funzionamento della giustizia militare, ecco perché la soluzione deve essere la devoluzione della conoscibilità da parte dell'attuale legge penale militare sostanziale del giudice ordinario, è il fatto che se si approva quel disegno di legge di riforma dell'ordinamento giudiziario, non può non avere ripercussioni, come ha già detto il collega, all'interno della nostra giurisdizione, in tema di separazione delle funzioni, ammesso che non si vada verso la separazione delle carriere, per mezzo di concorsi, e metodi di organizzazione dell'ufficio di procura, un organico siffatto così ristretto è possibile che funzioni. Cosa facciamo? concorsi separati? Concorso separato per pubblici ministeri militari e giudicanti? Si arriverà senz'altro alla paralisi. Queste sono mie semplici osservazioni, un’unica cosa che posso aver notato di questo progetto, come ha già detto prima lo critico, perché doveva basarsi, dato che siamo nel 2004, su una concezione oggettivistica, nella tutela solo di beni di rilevanza costituzionale. Come è possibile salvaguardare la manifestazione sediziosa, articolo 184, per carità, la corte costituzionale l'ha salvato anche di recente, articolo 182 se non sbaglio, attività sediziosa, o i reati di reclamo collettivo, sono tutti i reati pacificamente incostituzionali, o meglio se vogliamo salvarli salviamoli, prefigurandoli garantendo il principio di offensività, non basandosi solo sul concetto di pericolo puramente astratto. Oppure si formula tutta una serie di reati senza seguire uno schema di oggettività giuridica, riprendendo i codici di prima, cercando di inserirsi in maniera disorganica qua e là, e quindi basandosi sulla concezione del Di Vico dei reati contro la fedeltà. Quindi, manca totalmente una concezione organica pur nell'ambito della militarizzazione di questi reati, per cui secondo me questo progetto va cassato integralmente, e andrebbero ripresi, ad esempio, perché da me condivisi, la proposta di legge di Dorigo- Violante formulata nel '94, che prevedeva la soppressione dei tribunali militari e il transito della magistratura militare e dei cancellieri militari nel ruolo degli ordinari. In sintesi, potestà di conoscere di reati militari, perché di una legislazione sostanziale militare c'è necessità, ci sono le forze armate e doverosa è la tutela di alcuni beni per il buon andamento del servizio, conoscenza da parte delle procure ordinarie e presso le sedi delle corte di appello si istituiscano delle sezioni specializzate, tipo il tribunale dei minorenni, composte magari da un ufficiale estratto a sorte, se non si vuole seguire il modello francese della totale soppressione. Del resto, come possiamo andar contro alla corte costituzionale, che più volte è intervenuta, e che, per esempio, ha detto, il relatore se non sbaglio era il Dell'Andro nel lontano '89, i tribunali militari sono stati considerati sempre, dalla corte costituzionale, come una giurisdizione eccezionale circoscritta entro limiti rigorosi e quindi con una deroga alla giurisdizione ordinaria, una deroga alla cui eccezionalità è sottolineata, per giunta, dall'uso dell'avverbio "soltanto" nell'articolo 103 III comma della costituzione, a conferma che la giurisdizione ordinaria è da considerare, in tempo di pace, come giurisdizione normale, quindi penso che sia questo intendimento che il legislatore dovrebbe avere sotto gli occhi quando legifera.

 

Dott. CLAUDIO DE FIORES

Costituzionalista

 

1. Il disegno di legge delega per la revisione delle leggi penali militari (di pace e di guerra) non costituisce soltanto un ampio e articolato progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario militare. Nelle sue disposizioni c’è qualcosa di più. Qualcosa - che non esiterei a definire - inquietante. E ciò non solo per le soluzioni normative che questo progetto concretamente delinea ed avalla, ma soprattutto per gli scenari globali che esso evoca: quello del nuovo ordine mondiale e della guerra preventiva, da esportare come –si evince da alcuni passaggi della stessa Relazione introduttiva – "dove più necessitano gli interventi di pace, dove sembra non si conoscano più limiti alle atrocità". Obiettivo sotteso alla revisione dei codici penali militari è, infatti, quello di offrire un contributo normativo, dall’interno, alla costruzione del nuovo ordine globale. Come dire: normare l’ingerenza bellica per normalizzare la guerra.

Siamo in presenza com’è evidente di un’ulteriore tappa, peraltro assai significativa sotto il profilo interno, della globalizzazione militare. Un processo, questo, di lungo periodo contrassegnato da una progressiva ed endemica crisi del diritto internazionale a cui è andato via via corrispondendo, in questi anni, l’avvio di una articolata e penetrante strategia di rielaborazione degli assetti "globali", lucidamente perseguita dalle potenze occidentali (il "nuovo modello di difesa" NATO, le guerre di globalizzazione, il conflitto bellico come strumento di affermazione delle incalzanti pretese di dominio degli USA).

Sono cose che conosciamo, così come conosciamo anche lo sforzo profuso in questi anni da buona parte delle cultura giuridica intenta a ridefinire, su queste medesime basi, le regole dell’emergente ordine internazionale, sulle quali fondare la nuova legittimazione all’uso della forza. Un tentativo forte e pervasivo, culturalmente proteso a razionalizzare l’esistente, suggellandone i rapporti di forza e le nuove forme di dominio. Fino al punto di sostenere che una nuova consuetudine internazionale che legittimerebbe l’uso della forza nei rapporti tra gli Stati ha già preso il sopravvento e che anche a livello interno "le diverse questioni di legittimità costituzionale dell’impiego delle forze armate all’estero possono essere considerate in gran parte superate da una prassi costante e sostanzialmente non più contestata". Di qui il convincimento, repentinamente maturato in dottrina, che una travolgente "decostituzionalizzione" (delle norme sulle pace, sulla guerra, sulla difesa, sulle relazioni internazionali) è ormai da tempo in atto e che, in definitiva, finanche lo stesso "richiamo alla clausola della guerra difensiva – sono parole di Giuseppe De Vergottini - non tiene più".

La riscrittura dei codici penali militari si colloca in questo quadro. Lo si evince dalla stessa relazione al disegno di legge protesa a raccordare il significato della riforma alla costruzione di un nuovo ordine globale e alla sue "nuove prospettive, in cui – viene detto espressamente - l’uso della forza militare diviene strumento e garanzia dei beni essenziali dell’ordine e della stabilità internazionali. Le Forze armate – si legge ancora - sono andate associando alla loro tradizionale e primaria funzione di difesa nazionale altri e nuovi compiti, manifestatisi soprattutto in occasione delle numerose missioni all’estero".

Siamo oggi in presenza, come si vede, di un processo lungo e articolato sul piano politico, ma altrettanto breve e intenso dal punto di vista normativo. Un processo per molti aspetti riconducibile alla L. 31 gennaio 2002, n. 6 (Conversione in legge con modificazioni del decreto-legge 1 dicembre 2001, n. 421, recante disposizioni urgenti per la partecipazione di personale militare all’operazione multinazionale denominata "Enduring Freedom". Modifiche al codice penale militare di guerra, di cui al regio decreto 20 febbraio 1941, n. 303"). È, infatti, proprio in quell’occasione che viene, con forza, ostentato per la prima volta il proposito di riesumare il codice penale di guerra per dare vita ad un "ordinamento militare ridefinito" in grado di recepire ed esprimere, allo stesso tempo, le recenti "trasformazioni del quadro internazionale" e i suoi nuovi assetti (Relazione introduttiva al disegno di legge Martino-Castelli   (N. 915), recante Modifiche al codice penale militare di guerra, di cui al regio decreto 20 febbraio 1941, n. 303).

2. E alle trasformazioni del quadro internazionale il progetto di delega si richiama, non a caso, ampiamente. Mi limito per ragioni anche di tempo ad evidenziarne un solo aspetto, a mio giudizio tra i più significativi. Quello concernente la dimensione giuridica del nemico. Da questo punto di vista la revisione delle leggi penali sembrerebbe ratificare sul piano normativo quella che è stato il mutamento di senso, l’alterazione anche semantica della nozione di nemico prodotta in questi anni dalle guerre di globalizzazione. Nel nuovo ordine mondiale la definizione di nemico non coincide più infatti con quella di Stato, ma ricomprende al suo interno un inedito universi di significati (dai singoli individui alle organizzazioni di persone). Un effetto indotto dalle pretese di dominio dell’Occidente e dai processi di costruzione del nuovo ordine mondiale innescati dalla fine del bipolarismo. Non è un caso che nel primo Documento sul nuovo concetto strategico dell’Alleanza (Roma, 7 novembre 1991) tale esigenza fosse già stata lucidamente avvertita: oggi – si legge nel Documento - la "sicurezza" degli Stati membri dell’Alleanza non è più posta a repentaglio, come in passato, dalla contrapposizione dei blocchi Est-Ovest o dalla "eventualità di una aggressione premeditata contro il loro territorio", ma "può essere messa in discussione da rischi di più larga natura, quali ... le azioni di terrorismo e sabotaggio".

Il progetto di legge delega Martino-Castelli sembra recepire appieno questo mutamento semantico da una parte trasfigurando la tradizionale nozione di "conflitti armati internazionali" da genus a species, fino a renderla, in definitiva, una ipotesi particolare e non più omnicomprensiva per l’applicazione delle leggi di guerra, uno dei tanti presupposti della loro operatività e non più il solo. Dall’altra dilatando a dismisura la nozione giuridica di "conflitto armato" fino ad estenderla anche ai "conflitti interni prolungati tra le Forze armate dello Stato e gruppi armati organizzati o tra tali gruppi" ( così la lett. i), punto 1, dell’art. 4 del disegno di legge). Quindi alle organizzazioni terroristiche. È interessante a questo proposito altresì evidenziare come in quest’ultima ipotesi (a differenza di quella immediatamente precedente contenuta sempre al punto 1 e nella quale - per intenderci – ci si richiama ai rischi di una "guerra civile o di una insurrezione armata") manca ogni riferimento al "territorio dello Stato". Come a dire, a differenza di una guerra civile o di un conflitto "fra gruppi di persone organizzate con le armi all’interno del territorio dello Stato", la guerra contro il terrorismo è legittima ovunque, anche al di fuori dei confini statuali. Dall’altra parte appare opportuno altresì segnalare che questa estensione della fattispecie normativa del conflitto armato rischia di ritorcersi gravemente, dal punto di vista processuale, anche sulle garanzie giurisdizionali individuali, sottoponendo intere categorie di soggetti ai Tribunali militari. Con la revisione dei codici militari le guerre di globalizzazione verrebbero quindi definitivamente normate e con esse anche i loro nobili obiettivi: la tutela dei diritti umani e la lotta al terrorismo internazionale destinati finalmente a trovare la loro "prima attualizzazione […proprio in…] questo corpo normativo". Un corpo normativo - come si legge espressamente nella relazione introduttiva al disegno di legge delega – imperniato sulla indefettibile esigenza di offrire un rapido e coerente "aggiornamento al diritto internazionale umanitario" al fine di assecondare le tendenze militari globali e, in particolar modo, quella connessa e "pressante spinta di dare uno status giuridico congruo all’operazione internazionale di lotta al terrorismo".

3. Da questo punto di vista il progetto di legge pare quindi ampiamente rispondente ai suoi propositi politici, rivelandosi nel suo impianto di fondo coerente e anzi per molti aspetti complementare agli scenari delineati dalle guerre di globalizzazione. Dove il progetto di legge delega appare invece maggiormente carente è il secondo fronte: quello della armonizzazione delle leggi militari ai principi fondamentali della Costituzione repubblicana. Un pretesa questa resa indifferibile – come si leggeva nella relazione introduttiva alla legge 6/2002 – dall’esigenza di rivedere molte norme del codice che "appaiono … con indiscutibile evidenza contrastanti con i valori costituzionali". Su questo terreno la riforma ci appare non solo fallimentare, ma in contraddizione con le sue stesse finalità. Certo è vero come è stato adeguatamente sottolineato - che l’art. 4, alla lettera p, invoca l’abrogazione dell’art. 75 (concernente la diffusione di particolari notizie di interesse militare) perché ritenuta lesiva della libertà di manifestazione del pensiero. Ma tale "concessione" – è bene precisarlo - avviene all’interno di un quadro normativo contrassegnato, all’opposto, da una latente e sistematica compressione delle garanzie costituzionali. Sia perché tali "concessioni" – come mi piace definirle – appaiono alquanto circoscritte e non coinvolgono altre disposizioni altrettanto lesive dell’art. 21 della Costituzione (si pensi all’art. 77 del codice che punisce la divulgazione di false notizie sull’ordine pubblico o su altre cose di interesse pubblico). Sia in ragione della commutazione di una serie alquanto ampia e (pericolosamente) indeterminata di reati comuni in reati militari. La riforma, sulla scia della legge 6/2002, prevede, infatti, la militarizzazione di tutti i delitti contro la personalità dello Stato, contro la Pubblica amministrazione, contro l’amministrazione della giustizia e contro l’incolumità pubblica. Ma anche dei delitti contro la persona qualora commessi da militare a danno di altro militare in circostanze per la verità assai poco circostanziate (in luogo militare, nel territorio estero nel corso di una missione e così via).

Una così massiccia e pervasiva militarizzazione dei reati comuni è destinata a ritorcersi gravemente non solo sugli attuali assetti dell’ordinamento giurisdizionale, ma più complessivamente su tutto sistema delle garanzie, producendo, da una parte – diciamo sotto il profilo oggettivo - una drastica compressione dell’area del controllo di legalità della giurisdizione ordinaria a tutto vantaggio della giurisdizione militare. Dall’altra, e quindi, sotto il profilo soggettivo, a una incauta espansione della giurisdizione dei Tribunali militari anche ai non militari.

4. Ma ciò che colpisce in modo particolare in questo progetto è l’azzardo costituzionale, la temeraria operazione da esso perseguita di aggirare surrettiziamente le norme costituzionali in materia di giurisdizione militare. Basti pensare all’abusivo utilizzo che è stato fatto delle disposizioni contenute all’art. 103 della Costituzione, maldestramente utilizzate dal disegno di legge per dilatare la sfera giurisdizionale di competenza dei Tribunali militari. A questo proposito va, preliminarmente, evidenziato che l’articolo 103, terzo comma, della Costituzione pone limiti alla giurisdizione militare ma solo per il tempo di pace, mentre attribuisce alla piena disponibilità della legge ordinaria la determinazione della giurisdizione per il tempo di guerra. Così ricorrendo ad una sorta di escamotage esegetico, il progetto governativo sembrerebbe, da una parte, affrancarsi definitivamente dalle disposizioni costituzionali previste per il tempo di pace che, come si è detto, vincolano la competenza della giurisdizione militare ad una ben circoscritta sfera di soggetti: gli "appartenenti alle Forze Armate". E dall’altra, sembrerebbe, invece farsi scudo della disposizione normativa contenuta al primo inciso del terzo comma dell’art. 103 ( "i tribunali militari in tempo di guerra hanno la giurisdizione stabilita dalla legge") per limitare drasticamente l’ambito di azione della giurisdizione ordinaria. Ma, nel far ciò, il progetto di delega sottopone (o meglio è costretto a sottoporre) la nozione costituzionale "tempo di guerra" ad una torsione interpretativa talmente profonda da farle assumere gran parte dei caratteri tipici sottesi alla definizione di "tempo di pace". D’altronde l’indistinzione pace-guerra è parte integrante del disegno di legge delega. Un disegno che tende a contemplare al suo interno un quadro alquanto flessibile e articolato di opzioni: le azioni di peace keeping e il conflitto bellico, la difesa armata e l’uso della forza, la pace e la guerra. La chiarezza con la quale la Relazione introduttiva illustra le "virtuose" ambiguità di questo modello è esemplare: nella legge di delega – si legge a questo proposito a pagina 5 - "lo statuto penale delle operazioni militari armate all’estero viene configurato – conformemente alla crescita della loro importanza – in termini modulati … si va, cioè dalla situazione estrema – quella della vera e propria guerra difensiva – in decrescendo verso modulazioni diverse dell’uso della forza militare, sostanzialmente fino al peace keeping, in modo tale da assicurare la congruenza e la proporzionalità dell’esigenza di coesione rispetto al contesto operativo generale dell’azione militare".

5. La dicotomia costituzionale "tempo di pace – tempo di guerra" viene così via via distillata dal disegno di legge delega, fino alla sua pressoché integrale dissoluzione. Al suo posto verrebbe, di converso, profilandosi una zona grigia dai contorni normativi flebili e indistinti. E dicendo ciò non mi riferisco soltanto alla esplicita istanza di conservazione – contenuta nella delega - dell’automatismo della integrale applicazione della legge penale militare di guerra ai corpi di spedizione all’estero in tempo di pace (già sotteso, d'altronde, all’articolo 9 del c.p.m.g.). Ma soprattutto al tentativo di sganciare definitivamente le disposizioni contenute nel codice militare dall’istituto della deliberazione dello stato di guerra ex art. 78 Cost. La lett. L) dell’art. 4 del progetto menziona, infatti, espressamente la possibilità di "applicazione della legge penale militare di guerra, anche indipendentemente dalla dichiarazione dello stato di guerra", non diversamente da quanto faceva l’art.2, primo comma, lett. d della L. 31 gennaio 2002, n. 6 che, a tal proposito, stabiliva che le disposizioni contenute nella legge "si applicano in ogni caso di conflitto armato, indipendentemente dalla dichiarazione dello stato di guerra". Il tentativo di aggirare le norme costituzionali sulla guerra è, in questo quadro, evidente. Attraverso l’impiego di simili escamotage si intende perseguire la definitiva rimozione sul piano giuridico (oltre che simbolico) dell’istituto dello "stato di guerra". Un istituto che dopo esser stato ripetutamente "circuito" in questi anni (dalla guerra del Golfo all’Iraq) si vuole ora espungere in tutte le sue implicazioni anche dalle leggi militari di guerra: questa è la posta in gioco della partita che oggi si è aperta. E a nulla valgono i contorsionismi interpretativi contenuti nella Relazione introduttiva intenti a distinguere la nozione di "tempo di guerra" da quella di "stato di guerra". La prima – si dice - mera espressione di una situazione concreta e di fatto. La seconda, invece, palese manifestazione di una volontà giuridica, di "uno stato di diritto, che deve essere deliberato e dichiarato secondo norme giuridiche interne". Tale discrimine interpretativo non convince. È vero che delle differenze tra le due espressioni esistono e che esse non fondano, come si è invece talvolta ritenuto, una endiadi. Ma si tratta pur sempre di differenze di tipo giuridico, che attengono cioè a due differenti nozioni giuridiche. Entrambe le definizioni appartengono, in altre parole, al diritto. Lo stato di guerra al diritto sostanziale (e costituzionale). Il tempo di guerra al diritto processuale (e penale-miltare). La Costituzione, utilizza non a caso il termine "tempo di guerra" in alcuni contesti "giurisdizionali" ben definiti: a) nell’attribuire alla legge la competenza dei tribunali militari (art. 103, 3 comma); b) nel derogare alla norma che ammette il ricorso in Cassazione, limitatamente alle "sentenze dei tribunali militari in tempo di guerra" (art. 111, comma 7). Ne deriva che il tempo di guerra non può che decorrere, sul piano giuridico, dalla dichiarazione dello stato di guerra. È questo l’evento che segna l’entrata in vigore delle leggi di guerra, la condizione risolutiva e immanente della loro applicabilità. È quanto si evince, in modo particolare, dallo stesso art. 3 del codice penale militare di guerra nel quale troviamo scritto: "La legge penale militare di guerra si applica … dal momento della dichiarazione dello stato di guerra fino a quello della sua cessazione". E ipotesi speciali, di deroga a questo principio - sebbene contenute in alcune disposizioni dello stesso codice - sarebbe bene che restassero tali e non venissero invece dilatate a dismisura con il rischio di trasformare la deroga in principio, l’eccezione in regola.

6. Eppure di una riforma c’è bisogno. La prassi parlamentare utilizzata per l’invio di missioni militari all’estero ha, ripetutamente, in questo decennio, dimostrato come il nostro ordinamento è giuridicamente sprovvisto di una normativa generale idonea a disciplinare le differenti tipologie di utilizzo delle Forze armate, in particolare al di fuori dei confini nazionali. Una lacuna, questa, che, ha contribuito ad aggravare ulteriormente la condizione di marginalizzazione politica delle Camere. Basti pensare che a partire (perlomeno) dalla guerra nel Golfo, il coinvolgimento del Parlamento nelle decisioni di politica militare è quasi sempre avvenuto contestualmente o (ancora più spesso) successivamente all’invio della missione. Di qui i ristretti margini di intervento e di decisione delle Camere, generalmente coinvolte solo nella fase successiva a quella dell’avvio delle operazioni militari attraverso la mera approvazione di atti di indirizzo (spesso alquanto generici nella loro formulazione) o (com’è frequentemente accaduto) solo in sede di conversione dei decreti-legge di finanziamento delle missioni.

La legge di riforma anziché contrastare tale esito sembrerebbe però consolidarlo ulteriormente. Incrinatosi il parallelismo funzionale che faceva discendere, in linea di principio, l’applicazione delle leggi militari di guerra dalla dichiarazione dello stato di guerra ex art. 87 della Costituzione, il quadro normativo delineato dall’attuale progetto di riforma appare soprattutto in alcuni suoi contenuti contraddittorio ed evanescente. La delega tende, infatti, ad eludere questioni salienti e nodi strutturali che non esiterei a definire di principio. A chi compete dichiarare l’applicazione, in situazioni di crisi, delle leggi militari di guerra? Con quali strumenti normativi? Qual è il ruolo che il Parlamento è chiamato a giocare in questa partita? Quali gli strumenti di garanzia? Tutte domande che, come si è visto, rimangono all’interno del teso gravemente eluse. La delega al governo risente infatti di una eccessiva duttilità di impianto determinata dall’introduzione di principi e criteri direttivi alquanto generici e controversi, alcuni dei quali aventi addirittura una connotazione "macrosettoriale".

In un quadro, così caotico, sotto il profilo normativo il Parlamento si trova ancora una volta costretto a subire la marginalità della propria condizione nella determinazione dell’indirizzo politico militare. E tutto ciò a esclusivo vantaggio dell’esecutivo. Sarà infatti il governo che, nel recepire la delega, dovrà, in maniera pressoché incontrastata, scegliere quali strumenti impiegare, quali soggetti coinvolgere, quali soluzioni normative privilegiare.

Ecco perché più che del progetto di legge io sarei sin da ora seriamente preoccupato per l’attuazione concreta che il governo intenderà dare ad una delega così ampia e generica. Bisogna allora tentare di invertire la rotta e tentare di recuperare un'altra idea di codice militare, incardinato sui principi costituzionali, che riconosca la centralità del parlamento e che soprattutto sia in grado di fare i conti con quel ripudio della guerra che è parte integrante della Costituzione repubblicana e oggi anche della coscienza politica di tanta parte dell’opinione pubblica (italiana e internazionale).

La difesa della legalità democratica e della Costituzione non può prescindere da tale impegno.

 

Dott. SERGIO DINI

Presidente dell'Associazione Magistrati militari italiani

 

Io ero una dei membri della commissione che ha steso il progetto di legge, anzi il più scarso il meno autorevole, visto che si è parlato molto dell'incapacità della commissione, quindi probabilmente sono il meno adatto per parlare di quello che è stato fatto: primo, perché ho preso parte a questo mal progetto; secondo, perché sono il più scarso di quelle che hanno fatto parte di questo progetto, così mal venuto, e così sono il difensore meno adeguato, forse sono stato invitato per quello proprio io, comunque, senza entrare in polemica con nessuno, non starò ad affrontare punto per punto quello che è stato affrontato con atteggiamento perlopiù critico dagli altri colleghi che mi hanno preceduto, molte sono state le censure, gli appunti non sia questo disegno di legge delega, su alcuni sono anche d'accordo. Penso che si debba muovere da una duplice premessa per cercare di capire le ragioni che stanno alla base di questo disegno di legge delega. Le premesse sono appunto due: al di là di ogni preconcetto ideologico, bisogna comunque tener presente che effettivamente, oggi come oggi, la distinzione pace/ guerra è sostanzialmente superata dai fatti. In qualche modo il legislatore deve anche prendere atto di questa situazione, che può piacere o può non piacere, a nessuno piace l'idea della guerra, a nessuno piace l'idea del conflitto armato, ma non si può neanche fare gli struzzi, e siccome non piace questo fenomeno umano e sociale, che esiste da sempre, non si può dire rinunciamo a pensarci, rinunciamo a predisporre qualsiasi tipo di normativa riguardo. Tra l'altro, è stato detto, da uno di coloro che sono intervenuti poc'anzi, questo è un fenomeno che non piace, questo sempre più massiccio utilizzo delle forze armate, in termini di legittimazione, interventi di guerra preventiva, in termini di pacificazione, questi gendarmi del mondo, ripeto potrà non piacere però è dal 82, quindi non sono pochi anni, dal 82 ad oggi, che sono cominciate e sono state sempre più cospicue queste missioni militari all'estero, e sono state avallate, sono state disposte dai governi addirittura del pentapartito, di pre-Tangentopoli, parliamo del 82, un'era politica fa, dal 82 ad oggi governi del pentapartito, governi di tecnici, governi di centrosinistra, governi di centrodestra, governi ancora del centrosinistra, hanno preso atto di questo fenomeno e, ripeto, non si può far finta che non esista. Allora, nascondere la testa sotto la sabbia, in questo caso, non è produttivo, non dimentichiamo che fino a che, con recenti normative successive al 11 settembre, si è preso atto che fosse opportuno, doveroso disporre eventualmente l'applicazione del codice militare penale di guerra a certi tipi di missione all'estero; il far finta che il codice penale militare di guerra fosse un abominio, che suonasse male, che fosse brutto il termine " guerra ", aveva creato dei guasti, aveva creato dei problemi, non indifferenti, non dimentichiamoci, siamo tutti di memoria corta, ma, ad esempio, quello che è successo in Somalia, documentato fotograficamente più volte, che ha fatto tanto gridare allo scandalo, ci sono state commissione d'inchiesta parlamentare e quant'altro, quei fenomeni, proprio perché non veniva applicato il codice di guerra che suonava male, veniva applicato il codice di pace che suonava bene, e che era politicamente corretto, ha fatto sì che quei fenomeni siano rimasti sostanzialmente impuniti, perché in realtà nel codice penale militare di guerra, già come formulato adesso, sono molto più tutelati i soggetti deboli dei conflitti, i feriti e malati prigionieri, di quanto non lo siano nel codice di pace, che però suona bene, allora facciamo suonare bene, tranquillizziamo l'opinione pubblica, mandandole col codice di pace e però freghiamocene di quelle che sono le ricadute concrete in termini di effettiva tutela. Quindi dico: prima premessa, non facciamo finta che questo fenomeno non ci sia, che è stato riconosciuto in qualche modo come ormai storicamente in corso da qualsiasi forza politica; seconda premessa, i tribunali militari attualmente non lavorano, non lavorano più, quanto meno se hanno lavorato in passato adesso non lavorano sostanzialmente più, ci sono tribunali militari che fanno quaranta sentenze all'anno, divise su due magistrati, 20 sentenze all'anno per magistrato, nessuno degli organi giudiziari di primo grado va oltre credo le 150 200 sentenze divise tra 2 o tre magistrati, non so fare calcoli di quanto costa ogni sentenza al contribuente, ma è evidente che è una situazione assolutamente insostenibile e impresentabile. Queste sono le due premesse e prendiamo per buono, perché è vero tutto quello che hanno detto i colleghi, circa attuale ìrrazionalità delle competenze, duplicità di processi, allora da queste due premesse ne discende un obbligo assoluto: bisogna che qualcosa in termini di riforma venga fatto. Questa situazione, ripeto, assolutamente impresentabile politicamente, moralmente, perchi lavora anche all'interno dei tribunali militari è penoso spesso scontrarsi con questa pochezza lavorativa, sapere che a fine mese si prende lo stipendio dopo aver fatto solo due sentenze, in questo senso dico forse è anche un'esigenza corporativa, certo che anche l'esigenza corporativa di lavorare di più, per venire incontro anche alle frustrazioni dei colleghi, se questo vogliamo dire essere una tutela corporativa bene questo è anche un intervento di tutela corporativa. Detto questo, quali sono le soluzioni? Sono stato fino a poco tempo fa, e per certi aspetti lo sono tuttora, aperto ad ogni tipo di intervento che risolva questo problema, questo problema,ripeto, assolutamente non procrastinabile. Allora, le soluzioni sostanzialmente sono due, in realtà si è accennato poco all'altra soluzione rispetta quella del disegno di legge delega, alcuni non hanno fatto proprio cenno a possibili disegni alternativi, invece se dobbiamo parlare seriamente bisogna dire che, non solo questo non va bene, questa è una costruzione fatta male, questo è un progetto fatto male, bisogna anche dire facciamo quest'altro, non si può dire questo fa schifo lasciamo tutto così come, che fa schifo lo stesso, anzi di più. Allora due soluzioni: una, sicuramente perfettibile, infatti essendo un disegno di legge delega, come tale, come disegno di legge, è aperto alle discussioni, agli apporti dei politici, non è che la commissione ha fatto un disegno di legge delega e pretende che sia ratificato così come è dal parlamento, è perfettibile sicuramente, in varie parti, non così tante poi in realtà, secondo me, come si è voluto dire fino adesso, ma sicuramente perfettibile. Primo, disegno di legge, la prima ipotesi di soluzione è quindi quella data da questo disegno di legge delega, cioè il mantenimento della struttura del tribunale militare, c'è questo contenitore, attualmente semivuoto, se non vuoto, riempiamo questo contenitore diamo contenuto a questo contenitore che in qualche modo viene mantenuto, e a cui viene data una qualche utilità, l'altra soluzione praticabile sarebbe, come accennato qualcuno di coloro che è intervenuto precedentemente, l'eventuale soppressione dei tribunali militari e la devoluzione al giudice ordinario delle attuali scarse competenze dei tribunali militari, però c'è da dire questo, credo sia senz'altro più semplice, riempire di contenuto questo contenitore che non da smaltire il contenitore, abolire il contenitore che ha una procedura di smaltimento, se vogliamo così dire, molto più complicata perché volenti o nolenti i tribunali militari sono previsti dalla costituzione, e allora, con ogni probabilità bisognerebbe affrontare una riforma di carattere costituzionale, che non credo sia proprio, in questo momento, tra le priorità delle forze politiche, di qualsiasi estrazione, credo ci siano altri problemi, dal punto di vista costituzionale in materia penale, gran parte dei problemi ancora in vigore. Quindi da una parte si sarebbe una procedura molto più articolate complessa, difficile, qual è una riforma costituzionale e dall'altra, sarebbe veramente la montagna che partorisce il topolino, perché non risolverebbe gran parte dei problemi sul tappeto, allora per questo io dico, posto che una soluzione a questo problema va data per le ragioni che abbiamo appena detto, e posto che la soluzione, allo stato più semplice più praticabile, come poi vedremo eventualmente in maniera più dettagliata, non così sballata come si vuol far passare, è quella del mantenimento dei tribunali militari con un adeguamento delle loro competenze. Perché dico che non è così fuori dal mondo questa ipotesi di cui al disegno di legge delega? Ho sentito delle argomentazioni, in realtà suggestive, ma per lo più fuorvianti, perlomeno secondo me fuorvianti, si è insistito molto, da parte di alcuni, sul pericolo insito nell'ampliamento di competenze dovute all'eventuale applicazione della legge di guerra a situazione non riportabili alla guerra in senso stretto, ma ai conflitti armati, dimenticando però che la dizione " conflitti armati internazionali " e la dizione " conflitti armati interni ", non è una dizione così peregrina e inventata da coloro che hanno fatto parte di questa commissione bensì è ripresa dai protocolli addizionali, dalla convenzione di Ginevra del 77, e lo stesso disegno di legge delega prevede espressamente, in particolare, cosa si debba intendere per conflitti interni. Questo è il problema che si è paventato, si è evocato lo spettro di Genova dicendo: attenzione che con questo tipo di normativa Genova si poteva impiegare il codice di guerra, io dico che questa è in realtà a una sciocchezza, a Genova non si sarebbe mai potuto applicare il codice di guerra, assolutamente, non con questo tipo di normativa, perché basta leggerla con un minimo di attenzione che si capisce come, quando si parla di conflitto interno, si parli, riprendendo ripeto la dizione dei protocolli addizionali di Ginevra, " ai conflitti interni tra gruppi di persone organizzati che si svolgano colle armi all'interno del territorio dello Stato e che raggiungano la soglia di una guerra civile o di un'insurrezione armata ", è evidente come, e infatti si dice espressamente, " si escludono dai conflitti interni le situazioni interne le situazioni di disordine o di tensione quali sommosse o atti di violenza isolati sporadici, o altri atti analoghi ", è evidente come la soglia di conflittualità richiesta perché scatti eventualmente la possibilità di applicare il codice penale militare di guerra è tutt'altra, non sono gli scontri di piazza, non sono le manifestazioni di piazza, non sono la rivolta del pane, anche questa di risorgimentale memoria, con uso di artiglieria contro i dimostranti, non sono queste le ipotesi, sono dei conflitti interni tra gruppi di persone organizzati e che si svolgano con le armi all' interno del territorio dello Stato raggiungano la soglia della guerra civile, che è tutt'altro rispetta Genova e rispetta manifestazioni di scioperanti. Ecco, quindi, evocare lo spettro di Genova per dire attenzione con questo disegno di legge delega si applica il codice penale militare di guerra al generale dei carabinieri, o al capitano dei carabinieri, che stava Genova, con tutto ciò che ne consegue in termini di procedibilità a richiesta del ministro della difesa, è una menzogna e nella realtà, una menzogna che va assolutamente, precisata, e smentita. Quindi, questo tipo di problema su cui ho sentito molto insistere, ovvero pericolosità del disegno di legge perché amplierebbe la giurisdizione penale militare a situazioni a soggetti che è assolutamente non possono essere ricompresi perché si evocherebbero spettro della guerra civile, è una cosa fuorviante. Non precise, parimenti, sono, devo dire, le affermazioni circa la mancanza di precisione nei criteri di delega per quanto riguarda, ad esempio, reati quali la sedizione o altro, per cui mancherebbe, o si sarebbero problemi in termini di offensività, sarebbero eccessivamente pericolosi in termini di libertà di manifestazione del pensiero quant'altro, in realtà, uno dei primi criteri delega parla proprio di adeguare la legislazione penale militare al regime di offensività, quindi anche in questo caso se è vero che si prevede in questo disegno di legge delega, tra le altre cose, il mantenimento del reato di sedizione ma, per esempio, si dice sulla base di un principe di offensività, cosa che finora non è. Ultimo problema, diciamo così, non intendo essere troppo lungo nell' intervento, si è anche detto perché devono essere tra reati militari determinati comportamenti, qual è il senso di militarizzare determinati reati, in realtà è anti storico, non si capisce costituzionalmente a cosa a pendere a, cosa attaccare, come giustificare costituzionalmente certe norme di delega, l'inserimento dei reati contro l'amministrazione della giustizia militare, reati di stupefacenti in ambito militare, reati contro la pubblica amministrazione, intesa con l'amministrazione militare. E realtà, i criteri costituzionali di riferimento se si vuole cercarli ci sono, gli articoli 3, 52, 97, 11 della costituzione, sono tutte norme costituzionali che hanno in qualche modo riferimento a beni di interessi militare, valore militari costituzionalmente garantiti, non parlo solo appunto dell'obbligo di difesa della patria, ma l'obbligo di difesa della patria uno dei valori costituzionali assolutamente importanti e strumentali, funzionali a questo, poi ci sono altri valori, non dimentichiamo anche che, sempre in costituzione, troviamo l'affermazione che le forze armate si improntano allo spirito democratico che deve informare in qualche modo il Paese tutto e allora anche la tutela più marcata dei diritti della persona attualmente sicuramente estranea al codice penale militare, è funzionale a quella tutela dello spirito democratico che deve informare le forze armate, così pure le stesse per il bene della pace, di cui parla l'articolo 11, trova una sua manifestazioni di tutela, trova degli argomenti, dei momenti di tutela in alcune di queste norme di legge delega, quindi vediamo come non sia vero che la costituzione non dica nulla circa i criteri cui si debba improntare il concetto di reato militare, la costituzione se si legge con attenzione, non pretendo di essere uno dei lettori più attenti della costituzione, ma neanche uno dei più disattenti, la costituzione dei criteri, dei valori di interesse militare li ha dati, la legge delega, si badi bene, non ha militarizzato tout court qualsiasi reato comune commesso dai militari, cioè se qualcuno picchia suo figlio a casa sua, fa maltrattamenti in famiglia, non viene giudicato dal tribunale militare. Cioè il carabiniere o il bersagliere che fa mancare l'assegno di mantenimento al coniuge, non commette per questo reato militare, perché in costituzione non c'è nessun aggancio a questo tipo di reato, ovvero non c'è un interesse militare sotteso a questo tipo di comportamento assolutamente privatistico, in costituzione troviamo degli agganci legati al buon funzionamento dell'amministrazione, intesa anche come pubblica amministrazione militare, quando si parla di tutelare il buon funzionamento e l'imparzialità dell'amministrazione, ecco questo è un valore costituzionale cui bene si attacca la legge delega quando parla di reati contro l'amministrazione militare in termini di corruzione, peculato, concussione, o quant'altro, non è un'invenzione di coloro che hanno fatto parte di questa commissione, non è un'invenzione di questo disegno di legge delega, di inserire questo tipo di valori come oggetto di tutela da parte di queste norme. Per tanto, ripeto e con questo concludo perché l'ora è tarda e sarebbe troppo lungo entrare sui singoli punti trattati dai colleghi che peraltro sono stati molti, non si può assolutamente ritenere praticabile il mantenimento di questa situazione, e il dire questo disegno di legge non va bene serve solo a procrastinare alle calende greche, per l'ennesima volta, una riforma che invece a questo punto, ripeto, è assolutamente improrogabile. Non so come reagirà, perché prima o poi cittadini lo sapranno, come reagirà il cittadino quando saprà che ci sono degli organi di giustizia così sotto occupati, questo tipo di riforma sarebbe comunque bene perl'amministrazione della giustizia in senso lato, perché comunque è vero che mancano statistiche su quanti reati comuni verrebbe attualmente recuperati dai tribunali militari ma, per esperienza diretta, vi assicuro che non sono assolutamente così pochi come si è voluto far credere e quindi sicuramente verrebbe reso un servizio al mondo della giustizia, del quale la giustizia militare fa parte, tanto quanto la giustizia ordinaria, non so ripeto, come reagirà il cittadino quando saprà che da anni c'è una struttura sottoccupata di cui fanno parte 100 magistrati circa che chiedono di lavorare di più, che possono lavorare di più, hanno le capacità tecniche per lavorare di più e meglio, e vengono lasciarti in uno stato di sostanziale inoccupazione.

 

Dott. FALCO ACCAME

Presidente dell' ANAVAF.*

 

Quando ero presidente della Commissione Difesa, la prima proposta che feci fu quella del riordino dei codici militari di pace di guerra. Mi sembrava una cosa urgente già allora, nel 77. È quindi con un po' di emozione che torno a parlarne oggi, 25 anni dopo. Tutto questo tempo trascorso vuol dire che c'è stata un'enorme indifferenza rispetto ad un problema che a me invece è sempre sembrato urgente. Vorrei fare una premessa, forse un po' astratta, a questo discorso che stiamo facendo. Credo che in qualche modo quando si affrontano questioni tanto fondamentali si debba guardare anche al retroterra " filosofico", al contesto culturale entro il quale un processo matura. I codici del 40, a cui adesso si sta rimettendo mano, sono codici che, erano ispirati alla filosofia del tempo. Codici che potremmo definire, per così dire, hegeliani, in cui si concepiva una specie di totalità militare. Da quel tempo, anche filosoficamente, è passata molta acqua; c’è stata la fenomenologia, l’esistenzialismo, sono cambiate molte visioni del mondo, l'essere di Heghel ha subito altre interpretazioni, sviluppato altri riflessioni, e il suo intreccio con il pensiero della fenomenologia ha prodotto un nuovo rapporto tra il soggetto e l'essere, che è fondamentale per affrontare questioni nodali come questa. Un problema di rapportabilità che dunque non può essere eluso. Credo quindi che dobbiamo distaccarsi da quella concezione hegeliana che ha ispirato i codici del ’40. Secondo me c’è poi un altro aspetto di questo problema; credo che molti si ricordano, almeno dagli studi liceali, il concetto di Heghel sulla guerra come purificatrice dei popoli. Per fortuna molta acqua è passata anche da quel modo di pensare. Questo è dunque per me il punto fondamentale. Almeno da dieci anni a questa parte si è aperta una frattura in questa dicotomia. In questa dualità di guerra e di pace si è inserito un nuovo elemento, che non è né di guerra né di pace. Oggi siamo di fronte una visione triale, quindi anche questa impostazione dei codici, ancorata alla dualità pace e guerra, è a mio avviso assolutamente superata, anzi lascia fuori quell'elemento terzo, di mezzo, che è l'elemento dominante oggi, e che non è sufficientemente indagato. Noi oggi ci muoviamo in un campo intermedio tra pace guerra. E qual è, in questo nuovo contesto, l'elemento discriminante? L'elemento discriminante, sono le norme di ingaggio. Il momento in cui si stabilisce che ci sono delle norme di ingaggio, che si può sparare, che quindi si può uccidere e si può essere uccisi, determina un cambiamento rispetto ad una situazione di pace, in cui questa situazione di ingaggio non vive, non esiste. Quindi noi non dobbiamo e non possiamo più affrontare questo problema a partire dalla vecchia dualità, ma introdurre nella nostra analisi, questa componente terza che poi è diventata un discrimine fondamentale. Da quanti decenni non si fanno più dichiarazioni ufficiali di guerra e tuttavia si usano le armi? Vediamo un esempio: cosa è successo in Somalia? Era un'operazione meno cruenta di un'operazione di peace-keeping perché doveva trattarsi di un'operazione di puro soccorso umanitario, che però ha prodotto 10.000 morti, alcuni anche nostri. Come li qualifico, in quale campo inserisco quei morti? E visto che io rappresento l'associazione che tutela le vittime delle forze armate proprio nel cosiddetto tempo di pace, a quei morti, alle vedove di quei soldati uccisi, agli orfani, spetta una pensione di guerra, o no? Allora, anche traducendo le questioni in banali vicende esistenziali noi vediamo che c'è un grosso vuoto da colmare. Pensiamo, per esempio, cosa succede adesso a Nassyria e dintorni, tanto per restare nell’attualità. Noi abbiamo mandato delle truppe, dei reparti con delle regole di ingaggio, pronte a sparare, ad uccidere e ad essere uccise. Nel momento dell’attentato, in cui arriva l'autobomba fosse stata in vigore la disposizione, così come il codice di guerra - magari un po' antiquato, ( articolo 52, credo ) - dice, ci sarebbe stata l'immediata sospensione del comando che non attua tutte le difese di una fortezza, come è successo appunto in questo caso; perché i morti ci sono stati per un’inadeguata difesa esterna alla base. Allora, in questa situazione, di non pace ma nemmeno di guerra dichiarata dal Parlamento, come si procede? Leggevo l'altro giorno che il Tribunale di Roma, il Tribunale civile per distinguerlo da quello militare, avrebbe l’incarico, nel caso si riuscisse ad individuare gli attentatori - e sulla parola attentatori c'è da fare qualche riflessione - di giudicarli a Roma. Questa è una cosa che rasenta l'assurdo: io stentavo a crederci nel leggerlo, perché è chiaro che se c'è stata un'operazione di guerriglia, o di guerra, un combattimento, cioè se ci sono state le disposizioni a Nassyria per fermare gli attentatori e fossero stati giustamente colpiti prima che potessero arrivare con l'autobomba, allora cosa sarebbe successo sul piano "legale"? Su questo pronto dobbiamo riflettere. Quello in Siria viene definito attentato, ma non lo è. Un attentato è tale quando ci sono dei civili inermi indifesi, in un autobus o in una discoteca, in un teatro, ma civili e indifesi, mentre qui siamo di fronte a dei militari che si debbono difendere, perché ci sono regole di ingaggio, che, in questa circostanza, non hanno funzionato perché non c'erano le difese appropriate, ma questo è altro discorso. Dobbiamo riflettere quando diciamo che è stato un attentato; no, questo non è stato un attentato, questa era un'azione di guerriglia che in queste situazioni è sempre possibile, così com'è stato possibile il check-point pass. Non ha fatto riflettere nessuno il check-point pass? Ecco un altro punto che vorrei introdurre nella disamina. Questo secondo punto riguarda una questione che non è rimasta al margine del dibattito, ma che per me è fondamentale e riguarda la competenza. Fino a quanto queste problematiche generali e influenzano la collocazione dei Tribunali militari. Oggi si insegna la teoria degli insiemi anche ai bambini delle elementari; quindi, prendiamo un insieme globale che può essere la giustizia in senso generale, e prendiamo un insieme più particolare che può essere la giustizia militare. Come si combinano le posizioni di questi insiemi? Tutti coloro che hanno studiato un po' di algebra o di diagrammi, l'insiemistica, come la si chiama, hanno presente quali sono le operazioni che si fanno tra due insiemi. E allora, prendiamo questo piccolo insieme della magistratura militare: come si può collocare rispetto all’insieme più globale? Queste sono le riflessioni di fondo che bisogna fare. Si può "collocare" all’esterno, oppure inquadrarlo completamente dentro; in termini linguistici essere una sineddoche, una parte per il tutto, essere inserito del tutto dentro, oppure in parte incluso e in parte escluso? Questo è per me il punto su cui bisogna, credo, ragionare. Personalmente ritengo che il tribunale militare dovrebbe essere un ambito di competenze militari. Quest'ambito di competenze militari, sul quale vorrei soffermarmi perché è ciò che più m'interessa, si colloca indubbiamente in uno spazio di congiunzione tra questi insiemi, perché da una parte, evidentemente, non può fare a meno dell’insieme globale, dell'essere globale della giustizia, e dall'altra parte non può fare invece a meno di quella specifica competenza, senza la quale, a mio parere, è problematico giudicare situazioni in cui sono coinvolti dei militari. Spesso queste situazioni particolari, specifiche, hanno punti di contatto con le situazioni civili, ma se ne differenziano, e solo che ci vive dentro, chi le conosce profondamente da dentro - forse, se posso fare una critica a tutto l'ambito della magistratura militare, è che manca un po' più di immedesimazione e di conoscenza reale dell'ambito militare – ha la competenza sostanziale per arrivare a un giudizio. Comunque, questa competenza c’è, ed è certamente superiore a quella che può avere un magistrato civile anche se il problema della competenza, a mio parere dovrebbe essere inquadrato nell'ambito della giustizia generale. Traducendo in termini particolari quel che è stato detto, con delle sezioni effettivamente specializzate che, da una parte, hanno l'orecchio attento a quell'essere globale che è alla giustizia e, da una parte, hanno l'altro orecchio attento a quella che è la conoscenza specifica delle situazioni militari. Quindi, io credo che ragionando su questa questione degli insiemi, su come si combinano questi insiemi, è lì che noi dovremmo trovare la condizione più giusta, tenendo conto di tutte le considerazioni che ho fatto. Per avvalorare quanto detto, vorrei citare qualche episodio che mi è capitato di trattare nei venti anni circa in cui vive l’ANAVAF. Ho già fatto un accenno alla questione di Nassyria, ma vorrei inserire in questa questione anche un altro aspetto, dal mio punto di vista, molto grave. Tutti noi abbiamo visto i reportages televisivi di questi ultimi tempi. C'è qualcuno di voi che abbia visto una pattuglia dei nostri militari indossare delle mascherine protettive? Ebbene se guardate, l' " Avvenire " di ieri (22 febb) ha quasi un’intera pagina dedicata ai bombardamenti in Iraq, con armi ad uranio impoverito proprio nella zona meridionale dove sono dislocate le truppe italiane. Gli inglesi hanno dichiarato di aver buttato lì 1,9 tonnellate di armi all’uranio; ebbene, chi è responsabile del fatto che i nostri soldati, e lo abbiamo visto, non usano nessuna precauzione? Se queste precauzioni sono indicate, perché non le vediamo applicate? E se, tra un anno, o quattro o cinque mesi, cominceremo avere primi malati e i primi morti, a causa dell’uranio impoverito, allora di chi sarà la responsabilità? Chi non ha eseguito gli ordini? Non è né una situazione di pace, né una situazione di guerra; ma è una situazione in cui probabilmente sono state impartiti degli ordini, o quantomeno date delle norme, e queste norme non sono state rispettate. Non so se sarà la magistratura civile o la magistratura militare a intervenire su una questione così grave, perché anche oggi ho dovuto segnalare l'ennesimo caso di morte nel poligono di Salto di Quirra per una possibile contaminazione da uranio, una cosa molto delicata quindi. In Afghanistan è lo stesso; certo, io sono stato un sostenitore perché lì venisse adottato il codice di guerra. Ma questo, perché? Perché, anche dal punto di vista dei militari, almeno fosse garantita alle vedove, agli orfani, qualora qualcuno fosse morto, un trattamento adeguato e secondo la normativa internazionale di Ginevra. Per questi motivi, almeno per me diventa chiaro, come affermavo prima, che il terrorista deve essere giudicato come prigioniero di guerra. Persino Saddam Hussein è stato considerato tale. E un tribunale civile, è veramente preparato ad affrontare queste questioni? Beh, se il magistrato, è persona intelligente, ragiona, si può "informare", però, è in questo momento che entra in gioco la competenza. Chi ha avuto esperienze, chi conosce profondamente la materia, deve poter valutare, e non chi è alle prime armi e può avere delle difficoltà ad affrontare una materia tanto complessa e particolare. Vi cito qualche altro episodio che mi è capitato in questi anni: due alpini sono caduti da un elicottero da 50 metri di altezza, sono morti. La vicenda secondo me implicava una grossa competenza particolare e specifica. Quell'elicottero era in missione militare di semplice trasferimento o era in missione antiguerriglia, come dichiarò a suo tempo il sottosegretario Bosi? Queste valutazioni è difficile che vengano correttamente considerate da un tribunale civile, più che magistrati specificatamente competenti in questo campo. A bordo dell'elicottero c'era un colonnello, cosa ci faceva il colonnello sull'elicottero? Chi era il responsabile ultimo, il colonnello o chi altro? Quali norme sono in vigore in una situazione come questa? La questione nella sua complessità, credo sia stato affidata ad una giovane magistrata di Lecce, che probabilmente avrà avuto non poche difficoltà ad affrontare questo caso che, per l'appunto, esige una grande competenza e una vasta conoscenza nel campo militare. Cito qualche altro episodio: i paracadutisti che sono morti a Pisa, Lucca, perché non si è aperto il paracadute. Alla fine credo sia stato condannato il generale Loi. La complessità dell’inchiesta, il processo, il travaglio che è ha comportato, per un Tribunale civile assolutamente impreparato ad affrontare una tematica così intricata, lo dobbiamo ad un magistrato molto tenace e scrupoloso nel portarlo avanti e giungere alla sentenza finale. A mio parere sarebbe stato molto più corretto e forse anche più semplice se fosse stato affidato ad un tribunale militare come la materia richiedeva. Guardiamo qualche altro caso. I piloti degli aerei AMX, che sono morti per es. 3 in sei mesi. Si tratta di valutare dunque se questo è un aereo sicuro o meno. Io ero a Torino quando cadde il primo con il collaudatore, al primo volo, e ho seguito con passione gli sviluppi giudiziari di tutta la vicenda e proprio per questo motivo posso affermare che i tribunali civili non possono essere all’altezza di una materia tanto specifica per cui è necessaria una particolare competenza in campo militare. Queste sono questioni, ripeto, che esigono, a mio parere, delle sezioni specializzate e delle persone specializzate. Sollevo ancora qualche dubbio in merito ad altre questioni, per es. l'impiego dei servizi segreti, questione estremamente delicata. Il personale dei servizi segreti militari è personale militare o civile? Io ancora non l'ho capito. Le problematiche interne, le deviazioni, le trasgressioni dei servizi segreti militari da chi dovrebbero essere giudicate? Da magistrati civili o da magistrati militari? Personalmente credo che dovrebbe essere la magistratura militare ad avere competenza e conoscenza specifica riguardo i servizi segreti, perché da questo dipende molto della democrazia del nostro Paese, eppure questioni così delicate e difficili vanno a finire nei tribunali civili. Abbiamo assistito a processi dove certamente la competenza nello specifico, mancava assolutamente. Prendiamo il caso Mitrockin, su cui a mio parere, doveva intervenire la magistratura militare, perché i servizi segreti per anni hanno avuto questi documenti e non hanno fatto assolutamente niente e questa mancanza ha condotto ad una situazione aberrante, perché non è pensabile, che in ambito civile ci siano dei conoscitori profondi di come deve funzionare un servizio segreto militare. Io ne dubito, ecco perché la competenza è un grosso problema. Ancora ultimo elemento, anzi due. Uno riguarda moltissimo il tipo di operazioni che vengono condotte, si è accennato alla Somalia, ad esempio, e al ruolo della polizia militare. Questo ha dell'incredibile.

È uscito un interessantissimo libro, " La polizia militare ", unico al mondo in questa materia, scritto da un colonnello Giuliano Ferrari. Il colonnello così conclude il suo libro "... al termine di tale arduo percorso verranno tratte le conclusioni e soprattutto si provvederà a verificare se un itinerario concettuale così lungo e articolato avrà consentito di raccogliere intorno alla polizia militare idee più chiare di quelle attualmente diffuse, poche, confuse e poco consistenti". Ora, fermiamoci a riflettere un attimo su cos'è la polizia militare, sul ruolo che deve svolgere e che svolge. Nonostante abbia letto con attenzione questo libro interessantissimo, io non sono ancora riuscito a capirlo. Allora, in una simile "baillamme", come si fa a valutare le questioni che riguardano la polizia militare se non si sa che cos'è la polizia militare? Per affrontare una riforma dei codici, bisogna almeno sapere che cos'è la polizia militare, quali sono i suoi compiti e le sue competenze. Quelle violenze che furono fatte in Somalia furono compiute dai carabinieri del Tuscania, che era la stessa polizia militare e che doveva prevenire queste violenze. Come si è risolta questa delicatissima questione? È stata spalmata tra tante procure civili che non hanno nessuna competenza in materia. Se io che da anni lavoro in questo campo, non so bene cosa sia la polizia militare figuriamoci cosa ne possono sapere dei magistrati civili. Quali sono i doveri, quale legge li stabilisce, questo non è detto da nessuna parte, siamo nel campo delle mere ipotesi e solo una vasta esperienza nel campo può aiutare a dirimere la materia. Ancora un argomento, l’ultimo, del quale mi sono dovuto occupare. È acquisito ormai, che non abbiamo avuto solo la Gladio nota in tutto il mondo, quella dei 622, ma anche "gladiatori" di altra natura, che hanno operato armati all'estero, ad esempio, in Tunisia, hanno avuto un ruolo operativo nella deposizione del presidente Burghiba. Dunque c’erano alcune persone, interrogate dalla procura di Roma nel 2000, le quali agivano, in un ambito assolutamente anticostituzionale perché le forze armate dipendono dal Presidente della Repubblica. Ciò che è potuto succedere è stato dunque che avevamo delle forze armate che operavano al di fuori di ogni contesto costituzionale. Alcune delle persone che hanno agito in questo ambito, sono ancora vive; due di loro erano qui a Roma pochi giorni fa ad un convegno quindi sono persone in carne e ossa, e interrogabili ecc. Possiamo comunque immaginare quanta competenza in campo militare sia richiesta per indagare quale fosse il ruolo di questo gruppo di gladiatori che è appurato, addestrava guerriglieri all'estero, in tutte parti del mondo. Proprio in questi giorni è uscito libro, " I misteri del caso Moro "di Giuseppe Ferrara, che nel frontespizio riporta un documento di estremo interesse su questi gladiatori. Uno di loro fu inviato prima del 16 marzo 78, giorno in cui viene rapito moro, a Beiruth, prima ancora del rapimento moro, per fare intervenire i nostri servizi segreti di stanza a Beiruth. Ho cercato di portare dunque nel dibattito la mia lunga esperienza in un campo tanto delicato e specifico, riportando qualche esempio tra i tanti, che come Presidente di quest'associazione mi è sembrato particolarmente significativo. A partire da questa mia esperienza ancora più evidente appare la necessità di investire investite in una riforma delle legge vigente, perché molte di queste cose di cui ho parlato finiscono per sfuggire al codice militare di pace o comunque non possono essere trattate con la dovuta competenza. La mia posizione su quanto si è detto è che innanzi tutto manca una premessa di carattere generale, un retroterra generale. Manca una suddivisione della materia in tre campi: il campo della guerra, se vogliamo, il campo della guerriglia, il campo della pace. Quello che io chiamo il campo della guerriglia, è quello preminente oggi. Perché una parte delle missioni, che riceve delle regole d'ingaggio ed quindi è pronta ad usare le armi, per me rientra in questo specifico. E manca soprattutto l’innesto di una specifica, profonda competenza del militare nel campo della magistratura civile. Senza affrontare questi argomenti credo che i cambiamenti che si possono fare, o che si faranno, saranno quanto meno parziali e inadeguati.

 

* intervento non rivisto dall’Autore

 

 

Dott. ANTONIO INTELISANO

Procuratore della Repubblica presso il Tribunale militare di Roma

 

Prima che iniziasse il convegno mi era stato richiesto se avevo intenzione di intervenire e, con un’abusata battuta, avevo risposto che "c’è il momento di parlare e il momento di ascoltare". Siamo alla vigilia di audizioni al Senato e quindi mi sembrava opportuno, più corretto, riservare le mie considerazioni ad altra sede. Prendo invece la parola, molto volentieri, perché credo che sia necessario fare un discorso sul metodo, perché ho sentito degli interventi molto appassionati ma personalmente ritengo che qualche considerazione metodologica anche senza particolare enfasi, vada fatta. Siamo di fronte a un problema complesso, quello della riforma dei codici, e forse bisogna procedere con approcci successivi.

Partiamo dalla legge penale sostantiva. Tra la legge penale sostantiva e la parte ordinamentale non c’è un rapporto di necessaria corrispondenza biunivoca: in ambito Nato – è stato anche ricordato questa sera – ci sono certamente dei Paesi che hanno una parte speciale della legge penale, un codice penale militare, ma non demandano la cognizione dei reati militari a strutture speciali quali sono i tribunali militari.

Quindi non c’è un rapporto di immedesimazione. Allora segmentiamo il discorso e partiamo dalla parte sostantiva. C’è davvero la necessità di una revisione, che poi essa venga fatta con una corposa "novella" legislativa o con una revisione complessiva, con un nuovo codice è aspetto secondario.

Però, abbiamo già una sicura fase di partenza, il disegno di legge governativo. Da questo punto di vista, la precisazione tecnica in che cosa consiste? E’ stato detto: ma qui si vuole contrabbandare per reato militare il reato comune. Questo non è assolutamente vero, perché se noi andiamo a vedere l’attuale struttura del codice vigente troviamo, lo ricordo a me stesso, reati esclusivamente militari e reati obiettivamente militari, non troviamo più i reati militarizzati a seguito della riforma del 1956.

Troviamo anche delle fattispecie che a parte i casi di concorso di civili e militari nello stesso reato militare, possono essere realizzate (articolo 14) da chiunque, anche dal civile, "da solo".

E’ questo perché? Perché il carattere di complementarità del codice del 1941 pose il legislatore di fronte a questa scelta: utilizzo del codice penale comune nelle parti in cui c’è l’offesa di un bene o di un interesse militare e creazione di fattispecie diverse, di fattispecie nuove, autonome, che possono avere come soggetto attivo chiunque. Ecco, nella formulazione di questo progetto, che è stato alla base dei lavori della Commissione, si è dovuto necessariamente, dato il criterio di "novella" legislativa, seguire questa ripartizione, tenendo conto che i reati cosiddetti militarizzati erano il risultato di una scelta, di una tecnica normativa particolare, perché invece dell’integralità si era scelto questo criterio di etero–integrazione della legge penale militare. Nella fase della revisione è stato seguito anche il criterio della tutela dei beni e degli interessi militari, ed è quello il criterio che in questa prima approssimazione ci interessa, per cui anche la previsione, per quanto possa sembrare stravagante, dei comportamenti che, in vista della cosiddetta esternalizzazione dei determinati servizi possono essere compiuti da chiunque, non è poi così stravagante se si tiene conto del criterio dell’interesse leso. L’interesse leso naturalmente non corrisponda a una necessaria attribuzione della competenza di quel reato all’organo speciale, al tribunale militare.

Questo è un discorso diverso. Adesso andiamo al secondo aspetto della questione: l’articolo 103 III comma della Costituzione italiana che oggi è stato citato più volte, ha messo dei "paletti" ben precisi. La Costituzione ha guardato ai tribunali militari con un certo sospetto, tant’è che, con la delimitazione almeno in tempo di pace della speciale giurisdizione, è stata molto esplicita in questo senso, perché il legislatore costituente aveva, non a caso ma sulla scorta di determinate esperienze che si erano storicamente consolidate, di fronte una realtà ben precisa, un ordinamento giudiziario militare che certamente non era in sintonia con alcuni principi costituzionali, segnatamente quello che richiede la garanzia di indipendenza anche per il giudice speciale. La situazione, com’è noto, è cambiata nel 1981 quando il legislatore repubblicano è intervenuto modificando sostanzialmente la normativa, tant’è che oggi la magistratura militare non è che l’appendice esterna, di fatto, della magistratura ordinaria.

Quindi, abbiamo un organo, formalmente di giurisdizione speciale, che è diventato un organo di giurisdizione specializzata. Questi i termini del problema.

I vincoli costituzionali rimangono. L’alternativa è quella dell’unità della giurisdizione oppure quella della specializzazione secondo l’indirizzo che proviene anche, in maniera piuttosto sentita, dal mondo militare. Tutte e due sono modelli tra di loro alternativi, praticabili oggi in questa situazione. C’è un dato relativo alla revisione complessiva della normativa, che, se da un lato abbraccia in termini di necessità la modifica della parte sostantiva del codice penale militare di pace, si pone invece in termini non costrittivi per quanto riguarda la soluzione di carattere ordinativo, questa si ad alto tasso di politicità.

La posizione mediana qual è? In relazione alla particolare specialità che è richiesta a determinate situazioni, per esempio, le peace support operations, o le peace–keeping operations, che caratterizzano l’attuale fase del diritto internazionale ci vuole probabilmente un organo di giurisdizione che sia deputato almeno a questo tipo di esigenze.

E questo perché? Perché le attuali norme che abbiamo in tema di persecuzione di reati commessi all’estero, art. 9 e seguenti del codice penale comune, oppure il codice di procedura penale comune, art. 10, in cui c’è un’individuazione delle competenze (questo risaltava anche dall’intervento dell’Ammiraglio Accame) piuttosto vaga. Ci vuole un organo di particolare specializzazione che costituisca il punto di cerniera di queste esigenze.

Ricordo a me stesso che noi abbiamo ratificato lo statuto della Corte penale internazionale, la cui competenza ha una connotazione di sussidiarietà rispetto a quella nazionale.

Nello statuto c’è scritto "complementarità", ma, in effetti, il concetto più corretto è quello di sussidiarietà. Ebbene, una delle tre tipologie di reati di competenza della Corte è costituita dai crimini di guerra, quindi in questo almeno, direi come ultima spiaggia, si può cogliere o si deve cogliere il discorso dell’eventuale specializzazione o dell’eventuale necessità.

Non si può, ecco perché torno al discorso del metodo, ribaltare il problema e dire oggi: questa struttura, la giurisdizione penale militare, è in termini economici una struttura dissipativa.

Ebbene, è vero e lo sarà sempre più vero perché avremo un esercito professionale e verrà completamente meno il sistema di reclutamento della leva. Però, ecco, non è che dobbiamo vedere le cose in funzione della notazione: siccome la giurisdizione militare è una struttura dissipativa i magistrati militari non hanno niente da fare, per cui troviamogli qualcosa da fare.

Il problema va ribaltato e va visto dal generale al particolare, partendo dai principi e traendone le conseguenze necessarie. Credo che le concrete soluzioni vadano agganciate a queste modeste considerazioni, che pur con tutte le deficienze della estemporaneità mi sono permesso di sottoporre alla vostra attenzione. Grazie.

 

 

On. ELETTRA DEIANA Prc

 

Voglio innanzi tutto spiegare le ragioni per cui con Domenico Gallo ho voluto organizzare questo incontro. La ragione fondamentale sta nel tentativo di sottrarre questa materia, così complessa e difficile, ma nello stesso tempo così fondamentale, ai luoghi ristretti e riservati del Parlamento, o degli uffici-studi del Ministero della Difesa e collegarla, come credo sia necessario, alle problematiche più generali che riguardano i concetti di difesa, le politiche internazionali, la ridefinizione in atto di importante materia costituzionale, oggi all’ordine del giorno. Parto da una notazione strettamente personale che però ha molto a che vedere con le considerazione su questa materia. Il mio interresse per le questioni militari in senso specifico, non solo genericamente per la pace, è nato nel 1991, di fronte ai videogames notturni dei bombardamenti chirurgici su Bagdad e nello scombussolamento che aveva creato, in molte di noi, la decisione del Parlamento italiano di partecipare alla guerra contro gli iracheni. Che alcuni miei connazionali in divisa stessero bombardando insieme ad aviatori di mezzo mondo Bagdad mi sembrò un’ enormità, qualcosa che provocò in me un grande spaesamento. Evidentemente avevo interiorizzato a fondo il "mito" dell’art. 11 della Costituzione. Mi sembrava quell’articolo un punto di realizzazione di grande civiltà giuridica, di forte civilizzazione delle relazioni tra i popoli, e nulla poteva rimetterlo in discussione. Da allora, dal punto di vista politico, e da quello costituzionale, è passato un secolo. Molte cose in questi ultimi dieci anni, molti fatti, molte parole, molte metafore, molti ossimori – primo fra tutti la "guerra umanitaria" -, hanno concorso potentemente al processo di ridefinizione post-costituzionale della guerra, e della pace.

Questo è l’interesse per questa materia apparentemente così lontana e così specialistica. Questo testo, che il Senato ha cominciato a discutere, rappresenta un passaggio essenziale in questo processo, appunto, di ridefinizione post-costituzionale del concetto di difesa, del rapporto tra guerra e pace, tra stato di guerra e stato di pace, nel mescolamento e nella confusione, volutamente costruita tra tempo di pace e stato di pace, tra tempo di guerra e stato di guerra. La legittimazione del ricorso da parte dello stato allo forza militare è un punto fondamentale e vincolante della Costituzione, vero e proprio architrave dell’assetto costituzionale. La ridefinizione post-costituzionale di cui parlo mette sotto tiro quei fondamentali elementi che la Costituzione definisce in articoli di stringente chiarezza, inequivocabili perché non si tratta soltanto dell’art. 11, ma si tratta anche dell’art. 78, che attribuisce al Parlamento la facoltà di definire e dichiarare lo stato di guerra, e all’art. 87 che attribuisce al Presidente della Repubblica i poteri di sottoscrivere lo stato di guerra. Stato di guerra, cioè condizione netta e inequivocabile, segnata da elementi qualitativamente diversi da quelli che connotano lo stato di pace.

Dall’inizio degli anni ’90, conviviamo con le guerre e con una molteplicità di definizione della guerra: guerra per ristabilire l’ordine,. guerra umanitaria, guerra di pacificazione, guerra contro il terrorismo, addirittura, come nell’ultimo caso della guerra contro l’Iraq, guerra per assicurare la salvezza mondiale, la salvezza del mondo contro le armi di distruzione di massa possedute da Saddam Hussein e contro il rischio ventilato da Bush e Blair che in 45 minuti il regime di Bagdad potesse partire all’attacco dell’Occidente.

Queste guerre, non solo l’ultima, ma complessivamente tutte le guerre degli anni ’90, sfuggono alla certezza della loro definizione e alle norme che ne dovrebbero stabilire la legittimazione secondo il Diritto Internazionale, i trattati e le convenzioni e, per quello che riguarda l’Italia, i vincoli costituzionali. Abbiamo assistito ad uno slittamento progressivo di tutti questi concetti. Siamo stati dentro uno slittamento successivo di senso che ha sollevato poche critiche, se non nel caso dell’ultima guerra, e che ha praticamente costruito le condizioni psicologiche e culturali, oltre che fattuali, per l’accettazione di questo stesso slittamento di senso, per l’interiorizzazione sociale e culturale di un contesto che è quello che descriveva prima nel suo intervento Accame, un contesto terzo rispetto alla certezza della definizione della guerra e della pace. Come con grande onestà intellettuale ha chiarito il dott. Dini nel suo intervento, l’accettazione del superamento della distinzione tra guerra e pace, questo superamento è nei fatti. Ma il fatto che sia nei fatti, non significa che possa essere definito come giuridicamente legittimo, politicamente accettabile. Il problema che non ci sia stata una sollevazione critica da parte di nessuno su questo slittamento semantico e di senso e del costituirsi di una situazione di scambiabilità tra cose difformi come la pace e la guerra, tutto questo, a mio parere, costituisce l’elemento più negativo di tutta questa vicenda. Le cosiddette missioni di peace-keeping a cui l’Italia partecipa nelle varie parti del mondo sono il frutto per lo più di guerre a cui l’Italia ha partecipato: prima delle attuali missioni nei Balcani, ci sono stati bombardamenti; prima della missione "Isaf", a Kabul, c’è stata la guerra contro l’Afghanistan, c’è stata la partecipazione delle Forze Armate italiane a "Enduring Freedom", per non parlare della guerra contro l’Iraq che ha avuto caratteristiche, rispetto alle rotture operate dalla partecipazione alle altre, assai più nette, assai più chiare. Da questo punto di vista, l’unilateralismo delle scelte americane ha chiarito il contesto, senza però fornire elementi di riflessione su tutto quello che era successo precedentemente e che ha molto a che fare con il presente. Ma ha chiarito per lo meno alcuni elementi di questo processo di slittamento successivo e di deflagrazione di tutti gli elementi di certezza che presiedevano precedentemente al nodale problema del passaggio tra la pace e la guerra e di tutti gli annessi e connessi, di tutti i vincoli che la costituzione repubblicana aveva posto affinché il passaggio non fosse arbitrario, non fosse cioè materia di decisione dei governi e non fosse fatto privato tra i governi, come nei fatti sta accadendo. Perché nei fatti è successo questo: la forza militare non è più disciplinata dalla Costituzione, dagli organi a cui la Costituzione attribuisce il potere, stanti alcune condizioni vincolanti, di decidere ma diventa praticamente materia gestita dai governi e avallata con un voto che non significa nulla perché è un voto che dà un mandato in bianco al governo. Per questo ritengo che il disegno di legge di cui stiamo discutendo sia di estrema gravità. Non condivido l’empirismo con cui il dott. Dini ha giustificato le parti più negative del disegno di legge, cioè la sua osservazione sul fatto che siamo ormai in una situazione diversa e che il testo si riferisce ad una situazione di fatto, che non si può prescindere dalle situazioni di fatto. Proprio su questo bisogna esprimere un giudizio. In realtà le situazioni di fatto sono state create ad arte e oggi si tenta di normarle, di arrivare ad una loro legalizzazione tacendo che ciò è avvenuto attraverso un degrado continuo delle norme precedenti. Penso, tuttavia, che l’impostazione di trasparenza che il dott. Dini ha dato alla materia, sia molto importante. Credo che sarà molto importante in sede parlamentare affrontare le problematiche, in maniera ampia e suscitando un dibattito che vada oltre le aule del Parlamento. Il testo presentato dal governo si presenta essenzialmente nei termini di un testo che cerca di definire la problematica della guerra in un contesto chiaramente post-costituzionale. Nel testo non si fa mai riferimento agli articoli fondamentali della costituzione in materia di difesa, stato di guerra, soggetti preposti alla dichiarazione dello stato di guerra, ecc. Sostanzialmente il testo si riferisce al contesto nuovo, che è venuto costituendosi con le nuove guerre, le successive e reiterate violazioni all’art. 11, l’adattamento sociale. Bisogna aprire la discussione su chi e come e perché questo contesto sia stato creato e a che cosa corrisponda. Dobbiamo aprire la discussione sul contesto strategico, geopolitico odierno. L’ordine mondiale succeduto alla seconda guerra mondiale era un ordine che obbediva ad una logica, che aveva dei soggetti responsabili, delle istituzioni. Oggi si tratta di avere chiarezza sull’orizzonte verso cui andiamo e quindi di conseguenza fare una discussione sul testo che non sia tecnica che non sia unicamente dedicata a questo o quell’articolo o alla parte dell’ordinamento giudiziario militare, in senso di efficacia, di buonsenso, di prudenza ecc.. ma complessivamente su tutta quanta la materia. Già al Senato, il senatore Cirami, nel dibattito nelle Commissioni congiunte (Difesa e Giustizia) che sono preposte in sede referente alla discussione, ha sollevato una serie di appunti condivisibili al disegno di legge, che vanno tutti nel senso delle osservazioni professor De Fiores. In particolare voglio sottolineare quanto De Fiores ha detto della confusione che c’è nel testo intorno alla nozione di tempo di guerra e di stato di guerra, si tratta del presupposto da cui muove la proposta di legge: la nozione costituzionale del tempo di guerra, che indica un arco preciso, definito, in sede parlamentare, in sede di sovranità del legislatore si slabbra e si perde nella nozione di una situazione di fatto indefinita e indefinibile, cioè sostanzialmente la tesi che qui ci ha illustrato il dott. Dini. Questa situazione di fatto può prescindere dalla dichiarazione dello stato di guerra. Sostanzialmente è quello che è avvenuto nei 10 anni che abbiamo alle spalle. In questi 10 anni siamo passati da essere un paese dotato della Costituzione e dell’articolo 11 e dei vincoli che ne derivano per quanto riguarda la politica di ricorrere all’uso della guerra, a un paese che dipende su questa materia dalle scelte del governo in carica. Abbiamo partecipato ad una serie di imprese di guerra che però non erano dichiarate, non facevano parte di una configurazione di stato di guerra dichiarato e motivato dalle ragioni di fondo che la costituzione adduce come indispensabili, cioè la difesa del territorio nazionale, perché la sola guerra che la costituzione repubblicana ammette è quella per la difesa del paese. Ci sono molti modi per indebolire o smantellare la Costituzione del 48. Un modo è quello di operare delle modifiche costituzionali che modificano la Carta per via, appunto, costituzionale, spesso modificandone lo spirito, la ratio fondamentale in gran parte. Altro modo è mettere in un vuoto pneumatico e quindi in una sostanziale inefficacia alcuni punti della costituzione che difficilmente possono essere affrontati nella stessa maniera in cui si affrontano altre tematiche. Certamente l’articolo 11 della costituzione è di quelli che non possono essere modificati per far spazio ad una concezione diversa della difesa, allora va avanti questo processo di slittamento, di metamorfosi e quindi di adattamento sociale al nuovo che avanza: le nuove guerre mascherate da altra cosa oppure camuffate da ragioni superiori. Io credo che in questo passaggio storico-politico, il disegno di legge in questione, la revisione dei codici penali, militari di pace e di guerra sia un passaggio nodale, che contribuirà grandemente sul piano giuridico al processo in atto di decostituzionalizzazione della guerra. La battaglia per la pace, le politiche di pace passano attraverso tante cose. Io credo anche attraverso l’attenzione a problemi come quelli cui stiamo discutendo, a un disegno di legge come questo, che può concorrere potentemente alla legittimazione attraverso la norma di quel processo di modifica degli apparati concettuali e di modifica di meccanismi di legittimazione della guerra che sta andando avanti informalmente e che potrebbe conoscere un importante momento di formalizzazione giuridica, attraverso l’approvazione di questa legge.

 

 

On. RANIERO LA VALLE

Giornalista *

 

La cosa che mi ha impressionato è che nella relazione del disegno di legge si sottolinea come il codice penale militare di guerra sia rimasto sostanzialmente fermo dal ’41, a parte l’abolizione della pena di morte nel 1994, mentre il codice militare di pace ha subito diverse modifiche. E c’è anche un’esaltazione di questo codice, nel senso che viene definito come tecnicamente molto elevato, anche per aver in qualche modo precorso i tempi poiché, nelle previsioni riguardanti i reati contro le leggi e gli usi della guerra, ha in qualche modo affermato anzitempo la sanzionabilità dei crimini di guerra, e ha potuto, quindi, punire i crimini di guerra prima ancora, delle vicende di Norimberga. La domanda che mi sorge spontanea è allora: se questo codice è così buono, perché proprio adesso si sente il bisogno di cambiarlo, si sente la necessità di fare un’innovazione tanto profonda? Evidentemente proprio perché è cambiato il contesto generale, è cambiato il rapporto tra la pace e la guerra; l’intervento di Elettra Deiana era in questo senso molto preciso, il vero problema è il rapporto tra lo Stato e la guerra.

Ora, è un po’ grottesco che nella relazione si affermi che la differenza, riguardo alle Forze Armate, tra la situazione di guerra e la situazione di pace starebbe nel fatto che in pace le Forze Armate sarebbero in una condizione generale di addestramento, mentre invece in guerra sono in una condizione di impiego operativo; è, quindi, il cambiamento tra queste due modalità dell’essere delle Forze Armate che oggi impone una modifica per cui il codice penale militare di guerra in realtà debba estendersi anche a situazioni che di guerra non sono. Ora, che questa sia la differenza tra stato di guerra e stato di pace non è affatto vero. Perché, in realtà, le Forze Armate in tempo di pace non sono in sonno, né si occupano solamente di operazioni di addestramento; hanno invece altri compiti che sono definiti nelle leggi di principio: quindi, la salvaguardia delle libere istituzioni democratiche, l’intervento in caso di pubblica calamità, e in ogni caso, non sono mai dedite solo all’addestramento. Questo argomento viene però usato per motivare che alle missioni all’estero, in cui l’impiego operativo può anche giungere a rimarchevole intensità, debba applicarsi in modo graduale il codice penale militare di guerra. Questa è la ragione che viene detta ufficialmente, ma evidentemente la vera ragione è un’altra. Anzi, sostanzialmente le ragioni sono due: la prima, che non va dimenticata, è l’avvenuto passaggio dall’esercito di leva all’esercito di mestiere, all’esercito volontario. Questo è uno dei grandi fattori che spinge gli attuali riformatori a rimettere mano a tutta la codificazione penale militare, e di questo dobbiamo chiederci il perché? Perché nel caso del mestiere delle armi, in un certo senso, l’apparato recettivo, coattivo deve essere molto più forte, più incisivo di quanto non sia nei riguardi di un esercito di leva. Perché nel caso di un esercito di mestiere è molto più difficile richiamarsi a quei valori comuni condivisi che si potrebbe pensare, in un esercito di leva, possono motivare comportamenti confacenti alla disciplina militare anche indipendentemente dalla coercizione. Cioè, c’è un maggiore coinvolgimento ideale, ideologico dei coscritti rispetto a delle persone che fanno il mestiere delle armi per mestiere. Nella milizia come mestiere, venendo meno le ragioni di coscienza, la difesa della patria con tutta la mitologia che si è costruita intorno ai valori militari, perde di senso. È dunque tutto questo che viene meno nell’esercito di mestiere; non a caso l’obiezione di coscienza esce dalla scena con il passaggio dall’esercito di leva all’ esercito di mestiere, quindi la coscienza non è più invocata, e allora restano solamente le ragioni, da un lato, della convenienza, dell’utile, come è proprio di ogni lavoro, dall’altro, le ragione della coercizione e della repressione. Perciò diciamo così: la disciplina, la conformità dei comportamenti rispetto ai modelli richiesti, si ottiene col denaro e col bastone. L’altra ragione è che nello stesso tempo per incentivare l’arruolamento si promette un Foro speciale, che è sempre un privilegio. Tu sarai giudicato da quelli come te, da quelli della tua corporazione, della tua casta: è un po’, insomma, la riproduzione dei fori speciali, come il foro ecclesiastico, come se, anche per la legge penale, gli sportivi potessero essere giudicati solo dai giudici sportivi; oppure come se si introducesse un foro speciale di imprenditori che giudicano solamente gli imprenditori. Questa è la prima ragione, diciamo, della novellazione così radicale. La seconda ragione è più grave ed è, appunto, quella che è stata evocata prima: la distinzione tra stato di guerra e stato di pace. Cade la distinzione perché tutto lo Stato è in stato di guerra , ma siccome lo stato di guerra è previsto dalla costituzione perché è dallo stato di guerra che derivano delle precise conseguenze, allora i riformatori ricorrono a questa forzata, inesistente, distinzione tra stato di guerra e tempo di guerra, per cui lo stato di guerra è transitorio, mentre il tempo di guerra viene assunto come permanente. In questa distinzione fra stato di guerra e tempo di guerra passa la transitorietà dello stato di guerra come fatto di eccezione, come fatto quindi che richiede tutta una serie di garanzie costituzionali per essere affermato e dichiarato; è il tempo di guerra, che diventa invece la condizione comune, abituale. Ora, questo non è un mutamento di un capitolo dell’ordine giuridico; è un mutamento antropologico. Se voi questa discussione su questo codice la portate fuori dalle aule degli addetti ai lavori, la portate ai cittadini dicendo: guardate, questo codice dice che d’ora in poi il vostro tempo tutto intero è un tempo di guerra, cioè, voi non vivete in un tempo di pace che incidentalmente, o catastroficamente o come volete, può diventare tempo di guerra, il vostro tempo è tempo di guerra ed è tanto vero, che si dice esplicitamente nella relazione che non c’è più la possibilità di distinguere tra tempo di guerra e tempo normale di vita: il tempo normale di vita è diventato un tempo di guerra, ma questo, allora, è un cambiamento non solo antropologico, è un cambiamento di stato sociale, di civiltà.

E’questo ciò che, secondo me, va valutato e su cui va innestata anche la critica tecnica alle modifiche che sono proposte a questi codici perché, insomma, non è per caso che lo stato di guerra era considerato uno stato di eccezione e derivava dall’art. 11, e siccome l’art. 11 ha decretato che l’Italia ripudia la guerra, quindi, non è più abituale per l’Italia essere in guerra. Lo stato di guerra è, in qualche modo, un fatto residuale che, avendo l’Italia ripudiato la guerra, resta possibile unicamente in caso di difesa contro un attacco armato alla patria, il che non vuole certamente dire attacco agli interassi economici del Paese, non vuole certo dire il petrolio, e ancora meno gli interessi economici degli Stati Uniti o dello stesso Occidente. Allora, è per questo che lo stato di guerra è eccezionale e può sottostare a quelle procedure garantiste che sono fissate in costituzione. La novità è che oggi, in quello che viene definito e si vuole far diventare il nuovo secolo americano, la guerra non è più un’eccezione. Dopo il suo ripristino nel ’91, con la guerra del Golfo, è stata insediata come nuova forma di governo del mondo globalizzato. La guerra è permanente perché lo stato in cui si è deciso deve essere il mondo, dopo l’11 settembre, è uno stato di guerra. Non a caso Bush si proclama presidente di guerra; il che vuol dire che quello stato di eccezione che è proprio della guerra diventa uno stato abituale e quindi anche la sospensione dei diritti, anche la sospensione delle garanzie che è propria dello stato di eccezione, diventa permanente perché il presidente si definisce presidente di guerra e lo stato in cui si vive è uno stato di guerra. Naturalmente la lotta al terrorismo è il pass-partout che serve per rendere permanente lo stato di guerra. Allora, appunto in questo senso, credo che questa riforma sia un segnale che vada assunto in tutta la sua gravità e perciò non basta opporsi alla riforma, occorre lottare per ripristinare lo stato di pace, ripristinare la condizione di guerra come sua eccezione e ripristinare la distinzione che secondo i riformatori sarebbe venuta meno tra il tempo di guerra ed il tempo normale della vita. Ma, a questo punto, bisogna dire che a produrre questa trasformazione del tempo normale di vita in tempo di guerra, contribuisce una percezione generale. Questa perdita della distinzione non avviene per qualche evento incontrollabile o per decisione altrui, dipende da una volontà anche nostra; il nostro governo, il nostro Stato, partecipa ad una politica che trasforma il tempo normale di vita in tempo di guerra, questo è quello che noi stiamo facendo. E, fare addirittura una riforma dei codici che sanzionano questo fatto, vuol dire che questa scelta diventa una scelta permanente e addirittura sancita legislativamente. Questa operazione perversa, politicamente errata, di trasformare uno stato di pace in uno stato di guerra e un tempo normale di vita in un tempo permanente di guerra, questa operazione politica, viene assunta come in qualche modo definitiva e legislativamente sancita. E vorrei dire che proprio la vicenda dell’Iraq dimostra la catastroficità di questa scelta perché l’Iraq è precisamente la prova di cosa significa trasformare uno stato di pace in uno stato di guerra, un tempo di pace in un tempo di guerra. La vera ragione del ritiro di tutte le truppe straniere dall’Iraq, e quindi anche di quelle italiane, consiste proprio in questo: che attraverso l’invasione, attraverso la presenza delle truppe straniere in Iraq, il tempo abituale di vita degli iracheni, ma ormai di tutto il Medioriente e di tutto il mondo, è stato trasformato in tempo di guerra e la presenza di queste truppe è una presenza patogena che produce giorno per giorno stragi e delitti, è il passaggio da una forma di resistenza armata all’invasione a una forma di guerra civile. E, a questo punto, non si potrebbe neanche dire che le truppe straniere sono lì, o potrebbero stare lì, se l’ONU glielo ordinasse, perché, anche in questa stessa riforma del codice penale militare di pace e di guerra, si mantiene il principio che non è un esimente di responsabilità l’obbedienza ad un ordine ingiusto o che sia chiaramente un ordine contro le istituzioni, contro l’ordinamento, che l’ONU potesse disporre una presenza di truppe straniere a seguito di un’invasione in uno stato sovrano sarebbe un ordine ingiusto e sarebbe chiaramente contro l’ordinamento e contro le istituzioni, quindi perfino a norma della proposta-riforma dei codici penali di guerra italiani la permanenza delle truppe italiane in Iraq non si potrebbe giustificare neanche in presenza di una deliberazione dell’ONU che lo richiedesse.

Credo quello che soprattutto conta rilevare, è questo slittamento che viene fatto: come si trattasse quasi di un fatto di routine da una tradizionale condizione, in cui la pace è la condizione normale della vita e la guerra, semmai, è un’eccezione alla condizione inversa. Un po’ come quella definizione della pace che si trovava qualche settimana fa sul "Corriere della Sera" in cui si diceva che la pace è la guerra che si riposa.

 

* intervento non rivisto dall’Autore

 

 

Dott. DOMENICO GALLO

Coordinamento Naz. dei Giuristi Democratici

 

E’ impossibile parlare di conclusioni: ci troviamo di fronte ad un dibattito appena aperto e abbiamo visto come questo dibattito intreccia temi di importanza fondamentale e di estensione enorme. L’argomento che abbiamo trattato riguarda le situazioni che interessano il profilo dell’Italia nelle relazioni internazionali e quindi il volto dell’Italia nei rapporti con l’ estero, le missioni militari, gli interventi comunque nel campo della pace e della guerra. E’ una materia che intreccia i problemi dei diritti di cittadinanza e delle garanzie fondamentali, sia da un punto di vista della fruizione dei diritti civili, quelli dei cittadini in divisa, ma anche i diritti civili di tutti gli italiani, laddove si prospetta la possibilità di un ricorso facile all’instaurazione della legge di guerra sul territorio nazionale, ovvero nei confronti di determinate categorie di persone. Ci troviamo di fronte ad un discorso che intreccia temi di procedura penale e intreccia temi di diritto sostanziale, quindi la necessità di una riflessione più profonda credo che sia all’ordine del giorno. Noi questa sera abbiamo iniziato questa riflessione e abbiamo potuto farlo grazie al contributo - molto positivo - che abbiamo avuto dai colleghi che lavorano nella magistratura militare - che io ringrazio tutti – le cui riflessioni sono stati assolutamente necessarie per poterci orientare all’interno di questa materia.

Forse su una cosa possiamo essere tutti d’accordo, ci sono due esigenze: da un lato, l’esigenza di una riforma perché - ce lo diceva Falco Accame – da molto tempo, fin dal 1977 era attuale il problema della riforma complessiva dei codici militari sia di pace che di guerra; esigenza fondata che non può essere risolta con la politica dello struzzo, cioè ignorando i problemi e puntando semplicemente al loro rinvio.

Dall’altro lato, però, c’è l’esigenza di valutare attentamente i sentieri e le linee di riforma che ci vengono proposte perché questi sentieri e queste linee di riforma per molti aspetti sono inaccettabili, o addirittura rischiano di provocare un mutamento della condizione di vita del nostro Paese, facendo diventare il tempo di guerra, come diceva Raniero La Valle, non un tempo straordinario ma un tempo ordinario, e quindi gettando un’ombra sui diritti civili e sulla libertà di tutti i cittadini italiani, che possono esplicarsi ed avere piena attuazione soltanto in tempo di pace.

Noi dobbiamo reagire a questa situazione attraverso il metodo della conoscenza dei problemi, dell’analisi e dell’approfondimento. Io vorrei soltanto ripercorrere brevemente alcune questioni che sono state sollevate, innanzitutto partendo dall’inizio, i fini della legge delega, dall’art. 1. E’ sbagliata la testa, non si può riformare una materia così complessa al solo fine di assicurare la piena funzionalità della Forze Armate. A parte il fatto che l’obiettivo non viene raggiunto, la riforma delle leggi militari di guerra e di pace e dell’ordinamento giudiziario, non riguarda soltanto la funzionalità delle Forze Armate, ma riguarda una serie di beni pubblici che sono fissati nella Costituzione, e quindi il fine dev’essere quello di prendere in considerazione tutti questi beni pubblici ed articolare la riforma in funzione della tutela e dell’attuazione dei beni pubblici affermati nella Costituzione.

Abbiamo discusso appassionatamente del problema della militarizzazione dei reati ordinari, qui ci sono opinioni differenti, nelle analisi proposte dal dott. Scalfi, dal dott. Roberti e dal dott. Dini, e ci sono accenti differenti anche nell’intervento del dott. Intelisano.

Ora io mi chiedo una cosa, non corriamo il rischio di forzare l’art. 103 della Costituzione allargando a dismisura l’insieme dei reati militari e militarizzando i reati comuni ? Oppure il legislatore può, per sua scelta, decidere, senza porsi alcun limite sostanziale, quando un reato deve essere considerato militare e quando no? Per esempio, la tutela dell’interesse dello Stato che i cittadini paghino le tasse è una cosa che incide sul funzionamento delle Forze Armate, o comunque sui beni militari ?

Non lo so, però la militarizzazione del reato di concussione, di corruzione, commessa dai militari della Guardia di Finanza nell’esercizio delle loro funzioni, incide più che altro sul bene costituzionale dell’interesse dello Stato alla tutela dell’erario, non incide su interessi militari e quindi occorrerebbe riconsiderare il problema dei limiti all’estensibilità del concetto di reato militare.

Dobbiamo chiederci, quindi, se il legislatore può tutto, sino a trasformare in reato militare anche un reato che non lede gli interessi militari. Un altro problema molto grave è quello dell’indurimento della disciplina militare, Purtroppo noi qui non abbiamo avuto gli interventi dei rappresentanti dei COCER e non ci possiamo giovare delle loro opinioni. Nel disegno di legge delega mi sembra che venga ripristinato un reato cancellato dalla Corte Costituzionale, quello che riguardava l’art. 180 I comma del codice penale militare di pace che considerava un crimine la protesta collettiva. Tuttavia un’istituzione che non può essere criticata dall’interno è un’istituzione inefficiente. Quindi ripristinare questa norma è in contrasto con il fine di assicurare la funzionalità delle forze armate. Se si vuole assicurare la piena funzionalità di qualunque organismo, bisogna anche garantire il diritto di critica, perché la funzionalità non prescinde dall’esercizio del diritto di critica di coloro che sono - diciamo così- più vicini, più interessati al funzionamento dell’istituzione. Perciò reprimere il diritto di critica incide negativamente sulla funzionalità delle Forze Armate.

Tuttavia il problema più importante e più grave è quello che viene affrontato nel passaggio dallo stato di pace allo stato di guerra, o se si vuole, dell’introduzione più o meno graduale della legge militare e della competenza dei tribunali militari. Ora, io ricordo un episodio curioso che mi è capitato - fa parte delle mie esperienze di vita - nel 1980. All’epoca lavoravo alla pretura di Milano, ricordo che nel marzo del 1980 fu ucciso il giudice istruttore Galli. Era un epoca in cui erano frequenti gli attentati, molti magistrati, ufficiali dei Carabinieri o della Polizia, insomma molte persone sono state colpite, voi lo sapete meglio di me.

L’evento colpì molto i colleghi, seminando angoscia e disperazione, come è ovvio e naturale. Ci fu una specie di protesta all’ufficio istruzione del Tribunale di Milano. Molti colleghi scaraventarono i fascicoli fuori dalle loro stanze pretendendo che venissero trasferiti al Tribunale Militare, dicendo: noi non vogliamo più questi fascicoli mandateli al Tribunale Militare, qui c’è una guerra in corso, noi non siamo tribunale militare, la repressione del terrorismo la devono trattare i Tribunali militari..

In effetti, in quel periodo, c’è stato un dibattito politico riguardo a se bisognasse reagire al terrorismo facendo scattare la competenza dei tribunali militari o introducendo la legge di guerra. Le posizioni erano nettissime, tutte le forze democratiche furono contrarie alla scelta di far scattare la competenza dei tribunali militari o di far scattare comunque una sorte di dichiarazione di stato di guerra interna, cosa che astrattamente il testo unico di pubblica sicurezza consentiva, anche se con disposizioni chiaramente anti-costituzionali, ma formalmente in vigore, in quanto la Corte costituzionale non le aveva mai potute censurare, non essendosi presentata – per fortuna – l’occasione.

Esisteva, pertanto, la possibilità di far entrare in vigore lo stato di guerra contro il terrorismo, ma tutte le forze democratiche di allora furono contrarie e per fortuna questo sviluppo non ci fu.

Ora, io valutavo diversamente la cosa da come la valuto oggi: credo che se il problema della repressione del terrorismo fosse stato affidato alla competenza dei tribunali militari, la controindicazione principale sarebbe state la difficoltà di giungere a risultati positivi nella repressione di questo fenomeno, data la scarsità di risorse umane, e investigative di questa giurisdizione. Sarebbe stato estremamente difficile che la giurisdizione militare fosse riuscita a venire a capo del fenomeno del terrorismo, così come ha fatto nel giro di 2 o 3 anni, dal ’80 al ’83, la giurisdizione ordinaria. La prima controindicazione sarebbe stata proprio quella della scarsa efficienza di una risposta di questo tipo. La vicenda del terrorismo, che abbiamo vissuto negli anni ’80, dimostra che la risposta al terrorismo comunque deve essere una risposta asimmetrica, non può essere una risposta di guerra. Deve essere una risposta che necessita, da un lato, della confidenza e della collaborazione di tutti i cittadini, dall’altro, di un sistema di controllo di legalità diffuso, come può essere assicurato soltanto dall’autorità giudiziaria ordinaria. L’esperienza della nostra storia recente in fondo ci dimostra che ogni opzione di risposta militare, o con strumenti ordinari o extra-ordinem, ad attacchi di natura terroristica è inutile e che l’unica risposta possibile è quella asimmetrica del ricorso agli strumenti ordinari e razionali del sistema di coercizione penale previsti nello stato democratico.

Tuttavia, nel disegno di legge c’è qualcosa di più e di più inquietante. Questa previsione astratta dell’art. 4, - forse volutamente - crea una situazione indistinta: non si riesce a capire bene, come scatterebbe la competenza del codice penale militare di guerra e con quali garanzie, e con quali procedure. E’ proprio la mancanza di garanzie e di procedure definite renderebbe possibile questa situazione paradossale di cui ha parlato La Valle prima, cioè che il tempo ordinario diventerebbe il tempo di guerra. Nel momento in cui il tempo di guerra si può instaurare non sappiamo come, ma in modo automatico senza forme di garanzia politica, che in qualche modo marchino la differenza fra tempo ordinario di pace e tempo straordinario di guerra, nel momento in cui non ci sono queste garanzie, nel momento in cui è previsto che questo tempo si instaurì - non si capisce bene come - a prescindere in ogni caso dalla dichiarazione dello stato di guerra, allora vuol dire che il tempo ordinario effettivamente vigente è il tempo di guerra, il tempo di pace diventa un tempo straordinario. Ma questo comporta una degradazione dei diritti civili, dell’ordinaria vita delle istituzioni e dei diritti fondamentali delle persone.

È stato richiamato l’esempio di Genova, dal collega Dini per dimostrare che in base alla normativa la situazione di tipo Genova non sarebbe possibile l’instaurazione automatica della legge militare. Questo è vero, però se non ci sono garanzie politiche e procedimentali, non abbiamo neanche un argine per evitare che in una situazione tipo Genova, si sveglia un domani un prefetto, o qualcun’altro e dichiari l’ introduzione della legge militare, la competenza dei tribunali militari anche sui civili, e via dicendo. Quindi anche questo limite, che non si deve trattare di episodi isolati di violenza, è più apparente che reale, nel momento in cui non ci sono le garanzie procedurali che dispongono il passaggio dal tempo di pace al tempo di guerra.

Un’altra cosa molto preoccupante è il fatto che si prevede la possibilità di ambiti personali di applicazione della legge militare di guerra. Anche questo è una previsione inquietante, a parte l’aspetto che si creerebbero forme di discriminazione poco compatibili con gli altri principi costituzionali. In questo modo si avalla una tendenza a creare un diritto duale, per cui alcune categorie di persone godono di diritti civili e ordinari, altre categorie di persone godono di diritti attenuati, quindi in questo c’è la prefigurazione di imbarbarimento complessivo del nostro ordinamento, sul modello di imbarbarimenti che noi vediamo avanzare in altri ordinamenti, dai quali, in verità, non abbiamo la necessità di importare questi modelli di imbarbarimento; anzi, in qualche modo, dovremmo opporci.

Io ringrazio tutti, credo che questo momento sia stato utile per tutti, lo è sicuramente per noi, può essere l’avvio di una discussione approfondita e senza preconcetti che nel nostro paese non c’è mai stata, ma è necessario che ci sia. Perché i problemi effettivamente ci sono, ci sono i problemi che ha notato Falco Accame, i problemi che hanno rilevato le persone che sono intervenute. Noi abbiamo effettivamente delle missioni all’estero di vario tipo che sono state decise da governi di ogni orientamento ci sono missioni, che possono essere contestate e altre che possono essere, magari, anche incontestabili, ma i problemi rimangono e dobbiamo affrontarli.

Rimane il problema di adeguare il nostro apparato normativo agli obblighi che vengono dal Trattato di Roma che ha istituito la Corte Penale Internazionale, dalle altre convenzioni di diritto umanitario, quelle del 49 di Ginevra, che non hanno trovato ancora piena applicazione nel nostro ordinamento, noi abbiamo questi problemi, dobbiamo trovare delle soluzioni soddisfacenti per tutti, che rispettino i valori e i principi della costituzione, che costituiscono, a nostro avviso ancora dopo 50 anni un punto di riferimento dal quale non si può prescindere, pena l’imbarbarimento

Grazie.

 

Coordinamento Nazionale dei

Giuristi democratici

e

On. Elettra Deiana

Gruppo parlamentare PRC


 

 

 
 

 

   
 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

Google
Web www.forzearmate.org

 

 

 


Iscriviti alla nostra NEWS LETTER gratuita!

Periodicamente ti informeremo sulle novita' di interesse del personale, e della Difesa in generale!
 
   


           
   

 

ARRETRATI ECONOMICI CONTRATTO DI LAVORO MILITARI 2004/05