LA SECONDA RELAZIONE MANDELLI

TOGLIETELA DAL COMMERCIO!...

di Falco Accame 

 

 

a cura di Falco Accame
Presidente ANAFAF
 

Ritirate quella relazione e al piu' presto!

E' il pensiero che mi è sorto spontaneo a leggere la seconda relazione Mandelli che, nonostante tutte le critiche poste alla prima, non cambia quasi nulla salvo riconoscere, dopo l'errore che hanno dovuto ammettere nei calcoli, la elevata "significatività statistica", cioè l'altissima incidenza dei linfomi di Hodgkin. Nonostante che la grande maggioranza dei casi di contaminazione constatati siano comparsi tra reduci della Bosnia, area per la quale ancora oggi la Commissione non conosce i luoghi di impatto delle armi all'uranio (proiettili e missili), continua imperterrita a includerla come oggetto della relazione. E ciò anche se a pag. 14 della relazione si legge che "non si hanno informazioni in merito alla possibile contaminazione da uranio impoverito per quanto riguarda la Bosnia e in particolare l'area di Serajevo".

Non c'è bisogno di essere un ricercatore o uno scienziato per capire che non è possibile fare uno studio sui possibili rischi dell'uranio impoverito senza disporre dei dati piu' elementari che dovrebbero essere a base del lavoro. Senza conoscere i luoghi dove sono cadute le armi (e i tempi) come è possibile sapere se nelle vicinanze si trovano persone che potevano venire contaminate? Le norme di sicurezza impartite a firma del colonnello Osvaldo Bizzari (e a nome della Forza Multilaterale Ovest) in data 22.11.99, indicano che la distanza di sicurezza/rischio da un carro armato distrutto (cioe' da un obiettivo delle armi all'uranio) è di circa 500 metri. E se questa valutazione è stata fatta ed anticipata in campo internazionale essa non puo' non derivare da studi ed esperienze precedenti (infatti le norme sono simili a quelle già emanate nel 93 dalle forze armate USA per la Somalia le quali sono state concepite sulla base delle esperienze nella guerra del Golfo).

Se non si puo' stabilire se un militare si è trovato ad una certa distanza (che sia 500 o 50 o 5.000 o 50.000 metri) dal luogo di impatto, come si puo' stabilire l'entità della popolazione militare potenzialmente affetta da contaminazione? Per i 40.000 uomini presi in considerazione come presenti, complessivamente, in Bosnia e Kosovo come si stabilisce che essi debbano considerarsi come potenzialmente esposti al rischio di contaminazione? Tra l'altro la situazione in Bosnia differisce da quella del Kosovo perche' nella Bosnia il personale non aveva ricevuto alcuna disposizione protettiva, mentre in Kosovo, almeno dopo i primi 5 mesi, aveva ricevuto tali disposizioni e differente quindi il rischio corso. C'è da chiedersi se anche chi si trovava ad esempio a 50.000 metri dall'impatto delle armi (da mezzi o infrastrutture distrutte ove si è depositata la polvere di uranio) è da considerarsi potenzialmente esposto. In questo caso si ammette che dosi di polvere all'uranio siano sufficienti anche a 50 km di distanza, a causare tumori. Quale è allora questa distanza, elemento assolutamente fondamentale per stabilire il numero dei militari da includere nel rapporto tra casi verificatisi e il numero dei soggetti potenzialmente implicati?

Nella relazione non è detto. Apparentemente tutti i 40.000 presenti vengono considerati suscettibili di essere contaminati qualsiasi sia la distanza dai luoghi di impatto. Ma questo presupposto non è avvalorato dalla benchè minima valutazione scientifica. Se al denominatore della frazione che mette in rapporto il numero dei casi di tumore verificatisi e il numero dei soggetti presi in considerazione si scrivesse ad esempio 20.000 anziche' 40.000 il risultato ottenuto sarebbe totalmente diverso. E se nel Kosovo si hanno delle indicazioni, sia pure assai generiche, circa le coordinate dei luoghi di impatto per la Bosnia queste non esistono e quindi non possono nemmeno determinarsi delle zone di minore o maggiore rischiosità per i reparti, anzi per le singole persone di ciascun reparto, perche' anche in uno stesso reparto è ben diversa la situazione di chi, come è il caso di uno dei reduci della Bosnia (defunto) operava per effettuare rilievi su edifici distrutti senza alcuna protezione e chi nel suo stesso reparto, operava in una struttura lontana dalla zona di impatto e nel chiuso di un edificio.

Per fare una indagine epidemiologica, condizione ovviamente indispensabile, è sapere dove i singoli si sono trovati rispetto al luogo dell'impatto e al momento dell'impatto. E circa il luogo di impatto occorre precisare che non è la stessa cosa se vi è caduto un proiettile che puo' contenere 300 gm di uranio anzichè un missile che puo' contenere 300 kg!

Per quanto concerne la Bosnia i Comandi che hanno diretto le operazioni conoscono dal 1995 tutti i rapporti di operazione di ogni singolo raid e quindi conoscono il momento in cui è avvenuto, il numero di armi all'uranio (e non) impiegate, la posizione geografica colpita perche' questi dati sono contenuti, appunto, nei rapporti di operazione. La base di Aviano, al comando di un colonnello dell'Aeronautica italiana, dispone evidentemente di tutti i rapporti dei raid effettuati sulla Bosnia e partiti da questa base. E allora c'è da domandarsi perche' la Commissione Mandelli non abbia chiesto ed ottenuto i dati indispensabili per procedere ad un esame analitico della situazione.

Nel caso non avesse potuto disporne era allora un evidente dovere etico (ancor prima che epistemologico) quello di rifiutarsi di impostare uno studio senza i piu' elementari dati di partenza necessari.

Che senso ha per la Bosnia una affermazione del tipo: "Per le neoplasie maligne ematologiche e non, considerate nella globalità emerge un numero di casi inferiore a quello atteso"?

Come si puo' parlare di numero di casi atteso se non si sa quale deve essere considerato in Bosnia il numero del personale potenzialmente esposto, dato che non si sa entro che raggio si debba considerare come possibile la contaminazione e non si conosce dove erano dislocate rispetto ai punti di impatto e che compiti svolgevano coloro che potevano essere soggetti di esposizione (se non si conosce cioè la loro "storia espositiva"). Un conto ben diverso è se consideriamo come potenziali esposti 20.000 militari, oppure 10.000, oppure 5.000. In assenza di questi elementi la relazione è priva di valore.

Lo scrivente per qualche anno della sua vita ha fatto il ricercatore operativo ed è stato in questa veste capo del gruppo di Ricerca Operativa Interforze delle Forze Armate e capo del gruppo SADOC, il gruppo che ha progettato il sistema automatizzato di Direzione delle operazioni di combattimento della Marina Militare ed ha quindi di necessità qualche cognizione metodologica nel campo della ricerca. Ed è in questa veste che esprime il suo sconcerto per il modo in cui una materia cosi' delicata di ricerca, che implica valutazioni sul rischio della vita e della morte per nostri militari, è stata trattata. Ma il problema riguardava, è bene ricordarlo con tutta evidenza, anche e prima di tutto, il problema dei civili che si sono trovati nelle stesse condizioni di esposizione dei militari. E loro, nè in Bosnia nè in Kosovo, hanno potuto adottare alcuna misura di protezione!

Le considerazioni finora svolte non hanno preso in esame un'altra serie di problematiche, anch'esse tutte di grande rilevanza. Nella relazione non viene trattato il problema dell'impatto chimico delle armi (ma solo quello delle radiazioni) mentre una larga parte della letteratura scientifica sull'uranio impoverito mette in rilievo proprio gli effetti chimici di queste armi.

Non si fa cenno inoltre al problema della durata della permanenza dei militari nell'area balcanica (è stata considerata come presenza anche quella di solo un giorno!). Non si è preso inoltre in considerazione il fatto che tra i casi di morte e di malattia, per le quali si sospetta che la causa possa essere la contaminazione dall'uranio impoverito, vi sono quelli che riguardano personale che ha operato nella guerra del Golfo, in Somalia e nei Poligoni di tiro. Queste persone vengono considerate come se non fossero mai esistite.

Non è stata effettuata alcuna sperimentazione di verifica "in corpore vili" sempre richiesta dal metodo scientifico effettuando, nei poligoni di tiro, delle misurazioni sugli effetti dell'ossido di uranio emanato nelle esplosioni.

La prima relazione e' stata annunciata su tutti i mass media come una valutazione secondo la quale non doveva ritenersi esistente alcun pericolo dall'uranio impoverito e cio' in totale contrasto con quanto si evince dalle norme di sicurezza ufficialmente emanate dal nostro Ministero Difesa e anche da quelle di altri paesi. L'unica nota di cautela, che peraltro non ha inciso minimamente sulla valutazione globale, riguarda i linfomi di Hodgkin. Nell'insieme, per le ragioni sopra illustrate, queste valutazioni non si basano su studi credibili, quindi debbono essere ritirate.

E' il minimo che si deve per il rispetto delle vittime e dei familiari delle vittime (oltre che per il rispetto dei canoni della scienza).

a cura di Falco Accame
Presidente ANAFAF

 

 


 

 

 

 

 

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