dal
sito legge e giustizia:
Per
angustia del luogo di lavoro e insulti da parte del
caporeparto
(Tribunale di Torino, Sezione Lavoro I grado, 16 novembre 1999, Est.
Ciocchetti).
La
Sig.ra E.G., dopo aver lavorato per circa sette mesi alle dipendenze
della società E.D.P., ha chiesto al Tribunale di Torino,
Sezione Lavoro, la condanna dell’azienda al risarcimento del danno
biologico, per essere stata colpita da depressione psichica
in seguito a maltrattamenti subiti durante la prestazione
lavorativa. Ella ha sostenuto, in particolare, di essere stata adibita
al funzionamento di una macchina grafica collocata in uno spazio
angusto, occupato da cassoni ed altro materiale, in situazione
di isolamento dai compagni di lavoro e di essere stata sottoposta a
un trattamento ingiurioso da parte del capo reparto,
che reagiva alle sue segnalazioni di guasti della macchina e ai suoi
rilievi sulle condizioni di lavoro con bestemmie, insulti e frasi
sarcastiche.
Ella ha altresì fatto presente di essere stata costretta in un primo
tempo ad assentarsi e successivamente
a dimettersi, perché caduta in una grave forma di crisi depressiva,
con frequenti stati di pianto e agorafobia, senza
precedenti nella sua storia personale. L’azienda
si è difesa contestando le affermazioni dell’ex dipendente e
sostenendo comunque che essa non poteva essere chiamata
a rispondere di eventuali comportamenti scorretti del capo reparto. Il
giudice, dopo aver sentito vari testimoni, che hanno deposto sulle
condizioni di lavoro, sul comportamento del capo reparto
e sulle condizioni della lavoratrice, con sentenza in data 6 ottobre
– 16 novembre 1999 (Est. Ciocchetti), ha accolto la domanda,
determinando in via equitativa il risarcimento dovuto alla
lavoratrice in misura di lire dieci milioni.
Nella
motivazione della decisione il giudice ha rilevato, tra l’altro,
che la vicenda aveva formato oggetto di segnalazione da
parte della rappresentanza sindacale aziendale e che la malattia
della lavoratrice era attestata dai certificati esibiti. Del
pregiudizio subito dalla lavoratrice, ha affermato il giudice, deve
indubbiamente essere chiamato a rispondere il datore
di lavoro ai sensi dell’art. 2087 cod. civ., essendo questi tenuto
a garantire l’integrità fisio-psichica dei propri dipendenti e,
quindi, ad impedire e scoraggiare eventuali contegni aggressivi e
vessatori da parte di preposti e responsabili, nei confronti dei
rispettivi sottoposti.
Nel valutare la vicenda il giudice ha
ritenuto che essa debba essere classificata come un caso di "mobbing",
fenomeno ormai internazionalmente noto. "Il
termine, proveniente dalla lingua inglese e dal verbo to mob
(attaccare, assalire) e mediato dall’etologia – ha osservato
il giudice - si riferisce al comportamento di alcune specie animali,
solite circondare minacciosamente un membro
del gruppo per allontanarlo. Spesso nelle aziende accade qualcosa di
simile, allorché il dipendente è oggetto ripetuto
di soprusi da parte dei superiori e, in particolare, vengono poste
in essere nei suoi confronti pratiche dirette ad
isolarlo dall’ambiente di lavoro e, nei casi più gravi, ad
espellerlo; pratiche il cui effetto è di intaccare gravemente l’equilibrio
psichico del prestatore, menomandone la capacità lavorativa e la
fiducia in se stesso e provocando catastrofe
emotiva, depressione e talora persino suicidio".