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Dott. Alberto Cuccuru, Gli effetti penali della sentenza di patteggiamento
 nel giudizio disciplinare militare
settembre 2001

 

L’esercizio del potere disciplinare nei confronti del dipendente pubblico ed in particolare del militare in servizio permanente, non può avere luogo fino a quando il giudizio penale non sia concluso.

La sospensione del procedimento disciplinare, quando per gli stessi fatti pende procedimento penale, favorisce la coerenza dell’azione amministrativa evitando che la decisione del giudice penale, intervenuta necessariamente rispetto a quella del procedimento disciplinare, possa provocare la revisione di situazioni già esaminate sotto quest’ultimo aspetto [1]

In tal senso dispone l’art. 117 del d.p.r. n. 3/1957 che, quale norma di carattere generale, trova applicazione anche nei confronti del personale militare. La sospensione del procedimento disciplinare in pendenza del giudizio penale trova quindi giustificazione nella circostanza che, se il giudizio dibattimentale si conclude con una sentenza irrevocabile di assoluzione con formula “il fatto non sussiste” o “l’imputato non lo ha commesso”, all’autorità amministrativa è inibito l’esercizio della potestà punitiva-sanzionatoria sugli stessi fatti storici sottoposti alla cognizione del giudice penale essendo questa vincolata a quanto accertato da quest’ultimo (art. 653 c.p.p. e 97, 1 comma, D.P.R. 3/57). [2]

Dinanzi però ad un giudicato penale o ad una grave violazione di norme amministrative, per il militare in servizio consegue la violazione degli impegni assunti con il giuramento, in relazione al proprio status e al grado rivestito. [3]

E’ evidente che le conseguenze sulla posizione di stato e nel campo disciplinare di un giudicato penale dipendono dal tipo di sentenza o dalla natura del provvedimento emesso dall’autorità giudiziaria.

Se dubbi non vi sono nelle ipotesi di procedimento penale conclusosi con sentenza di condanna o di assoluzione [4] , numerosi problemi nascono nel chiarire se di fronte ad un giudicato conclusosi con una sentenza di applicazione della pena ai sensi degli artt. 444 e seguenti c.p.p., si possa instaurare un procedimento disciplinare di destituzione dall’impiego.

Il problema è quindi rappresentato dalle circostanze secondo le quali il giudice disciplinare deve prendere in esame quegli stesi fatti che hanno formato oggetto del giudizio penale, ancorché conclusosi con il cd. patteggiamento, al fine di stabilire le condizioni di cui all’art. 84, lett. A), b) del DPR n. 3 del 1957 e se quindi l’ulteriore permanenza in servizio del militare sia pregiudizievole per il prestigio dell’Istituzione ovvero per il buon andamento del servizio stesso [5] .

L’istituto dell’applicazione della pena su richiesta delle parti [6] è stato, sin dai primi tempi della sua previsione, al centro di vasto e significativo  dibattito avente come tema il problema della qualificazione giuridica della cd. Sentenza di patteggiamento e dei suoi effetti nei confronti del dipendente pubblico [7] .

Il meccanismo del “patteggiamento” , tipico modello di giustizia negoziata, presenta il vantaggio di risparmiare sia il dibattimento che un grado di impugnazione, perché la sentenza non è appellabile, ma solo ricorribile per Cassazione.

Quale corrispettivo, l’art. 445 comma I, prevede delle molteplici misure premiali per l’imputato, prima tra tutte la riduzione della pena fino ad un terzo [8] se questa non supera i due anni di reclusione o di arresto, soli o congiunti a pena pecuniaria.

La contrapposizione che vede la dottrina e al giurisprudenza nel individuare la natura giuridica ha condotto ad una pluralità di soluzioni.

Un primo orientamento dottrinale affermava un’equiparazione della sentenza di patteggiamento a quella di condanna, escludendo una difformità di natura tra decisione ex art. 444 e condanna in senso stretto, dal momento che anche il provvedimento conclusivo del rito alternativo è un decisum che applica e soprattutto irroga una sanzione penale. [9]

Altra dottrina, pur condividendo la presenza di un accertamento di responsabilità alla base del rito in esame, ne evidenzia il fondamento nel contenuto confessorio della richiesta di patteggiamento [10] .

Una posizione teorica del tutto lontana da quella precedente afferma invece che alcun accertamento di responsabilità possa esserci in un procedimento alternativo alla discussione e quindi al rito ordinario. Si tratterebbe di un rito che si conclude senza prove e senza processo e che si esaurisce in una condanna non supportata da attività di acquisizione probatoria  ma limitata allo stato degli atti.

Nel copioso dibattito va poi menzionata la posizione di chi sostiene un orientamento che si colloca in modo intermedio rispetto alle due prospettazioni illustrate, quasi a cristallizzare un “terzium genus” della decisione della sentenza in esame.

Secondo tale interpretazione la decisione adottata ex art. 444 non ha natura sia di condanna sia di proscioglimento. Al riguardo si osserva anzitutto che la dinamica del rito esclude ogni spazio all’accertamento della responsabilità dell’imputato

La giurisprudenza si è mostrata inizialmente divisa. La Corte Costituzionale [11] , con una sentenza interpretativa di rigetto, sul punto ha chiarito che l’imputato, quando chiede l’applicazione di una pena, lo fa soltanto per ridurre al minimo quel maggiore sacrificio della sua libertà, che egli, prevede all’esito del giudizio ordinario. [12]

E’ chiaro pertanto come non possa essere assolutamente condivisa secondo il ragionamento della Corte l’idea che nel cd. Patteggiamento l’imputato disponga della sua “indisponibile” libertà personale per autolimitarla

Un differente orientamento giurisprudenziale di cui costituisce espressione alcune decisioni del Consiglio di Stato [13] sul quale si è ormai da tempo assestata la Cassazione penale, esclude un riconoscimento di colpevolezza nel rito ex art. 444 e pertanto l’istituto del patteggiamento non comporta una presunzione di colpevolezza giuridicamente rilevante, ma è riconducibile ad esigenze di economie processuale. In particolare si nega la natura di condanna sulla base del noto argomento testuale dell’equiparazione, limitata a particolari effetti, di quest’ultima condanna.

Per completare il quadro è opportuno richiamare l’orientamento giurisprudenziale dei Tribunali amministrativi Regionali, che sulla base di un’ampia gamma di sentenze concordi, si è attestata sul principio della equiparazione tra sentenza di patteggiamento e pronuncia di condanna, con conseguente riconoscimento di colpevolezza del dipendente in ordine ai fatti commessi e contestati.

In realtà l’accertamento della natura giuridica della sentenza che applica la pena esige un preventivo esame della giurisprudenza, seppure oscillante, formatasi vigente l’abrogato art. 77 l. 689/81, che recava la indicazione epigrafica “applicazione di sanzioni sostitutive su richiesta dell’imputato”.

Si era assunto che la sentenza rivestiva carattere di condanna perché, in base al comma II del citato art. 77, il giudice era tenuto a determinare la pena sulla base dei criteri di sostituzione e di ragguaglio, e ad applicare la sanzione sostitutiva ritenuta più idonea al reinserimento sociale del condannato (art. 58), nonché a menzionare, nel dispositivo della sentenza, la pena detentiva inflitta e quella sostitutiva.

Stante la natura di pena delle sanzioni sostitutive, la sentenza avrebbe assunto, conseguentemente, il carattere di pronuncia di condanna. [14]

All’opposto, si è sostenuto che la sentenza non era definibile come una decisione di condanna, perché non venivano applicate, per legge, né pene accessorie né misure di sicurezza ( salvo la confisca quando è obbligatoria ex art. 240 comma II c.p.), mentre l’iscrizione della sentenza nel casellario giudiziale era redatta al solo fine di escludere dal beneficio chi ne avesse già usufruito, senza produrre nessun altro effetto.

Abrogato l’art. 77 in forza dell’art. 234 disp. Att. C.p.p., l’esame sulla natura giuridica della sentenza in oggetto si è ripresentato sotto il profilo dell’art. 445 nuovo codice di rito e, con esso, sono riaffiorate le divergenze sul valore della decisione come si è visto.

Pur senza avere la pretesa di esprimere al riguardo un giudizio risolutivo sulla natura della sentenza di patteggiamento, si può tentare, nel pieno rispetto delle tesi illustrate in precedenza, mettere un po’ d’ordine tra le discordi opinioni ed orientamenti.

Appare. Innanzi tutto, criticabile l’affermazione secondo la quale la richiesta dell’imputato riveli una confessione o, in ogni caso un’ammissione implicita di responsabilità.

L’imputato che propone una sanzione, non ammette il fatto, non fa di esso alcuna narrativa e non dichiara la sua colpevolezza: “L’istanza della parte, se formulata dall’imputato, è soltanto l’atto d’impulso di un rito che conduce ad una pronuncia giudiziale “allo stato degli atti” [15] .

Del resto, che la richiesta in oggetto non comporti ammissione di colpevolezza deriva, altresì, dal rilievo che un’affermazione di responsabilità non è configurabile senza un formale procedimento che approdi ad un giudizio di reità e senza le normali conseguenze, invece ed espressamente escluse dall’art 445 [16] , quali quelle relative al pagamento delle spese del procedimento (art. 535), all’applicazione della pena e dell’eventuale misura di sicurezza (art. 533) nonché all’efficacia del giudicato penale di condanna nel giudizio civile od amministrativo di danno (art. 651).

Poiché il rito del patteggiamento è caratterizzato dalla mancanza d’ogni attività d’accertamento del fatto contestato, l’imputato che richiede l’applicazione della pena o aderisce alla richiesta del pubblico ministero, si limita a manifestare la rinuncia a far valere le proprie difese e le proprie eccezioni alla tesi accusatoria, per cui e al tempo stesso, egli si astiene dal provare la propria innocenza ed esonera l’accusa dalla prova della di lui colpevolezza.

Del resto lo steso art. 546 c.p.p.( indubbiamente riferibili alla sentenza di condanna conseguente al patteggiamento) prevede alla lettera e), tra i requisiti della sentenza “l’indicazione delle prove poste a base della decisione stessa e l’enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie”; ciò significa, in contrasto con l’intenzione manifestata nella relazione, che un’interpretazione logica e letterale dell’art. 444 avallata dall’art 546 c.p.p., dimostra la necessità di un accertamento di responsabilità. [17]

Infine la tesi della natura di sentenza di condanna sembra vanificarsi anche per effetto di quell’orientamento giurisprudenziale secondo il quale, premesso che la disciplina giuridica sul patteggiamento non attribuisce al giudice il potere di affermare, nella decisione adottata, la responsabilità penale dell’imputato, questi può ricorrere per Cassazione, chiedendo ed ottenendo che la corte di legittimità annulli senza rinvio la sentenza limitatamente al giudizio di reità [18] , mediante il procedimento di retifica che emendi l’irritualità della locuzione contenuta nella sentenza, manifestando quindi un’inconciliabile tesi con l’asserita natura di condanna della decisione.

L’esigenza di comporre i profondi contrasti interpretativi ha richiesto l’intervento del legislatore che con l’intento di disciplinare la tormentata materia dell’ineleggibilità alle elezioni amministrative in dipendenza della condanna riportata in sede penale ovvero a seguito di misure di prevenzione, ha espressamente indicato che, per le finalità proprie dell’art. 15, la sentenza prevista dall’art. 444 del c.p.p. è equiparata a condanna.

Il legislatore ha altresì provveduto a chiarire che tale equiparazione si applica alle sentenze conseguenti al cd. Patteggiamento, “ pronunciate successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge”

Il patteggiamento è stato definitivamente equiparato a condanna. Con la legge 475/1999 il legislatore è intervenuto ancora una volta sulla tormentata disciplina della condanna riportata in sede penale. La giurisprudenza ha da tempo ritenuto equiparabile la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, ex art 444 del Cpp, alla sentenza di condanna. [19] Questa equiparazione viene ora espressamente affermata dal legislatore, mediante l’introduzione di un comma 1-bis nell’art 15: “ la sentenza prevista dall’articolo 444 del codice di procedura penale è equiparata a condanna. Tuttavia il legislatore mostra apertamente di dissentire dalla interpretazione fin qui  offerta dalla giurisprudenza, laddove2 afferma che la disposizione del comma 1-bis dell’art. 15 della legge n. 55, testé introdotta, si applica alle sentenze pronunciate dopo l’entrata in vigore della legge 475/99.

In definitiva il legislatore produce due effetti: il  primo, consistente nell’equiparazione ex lege, e quindi ormai indiscutibile, della sentenza di patteggiamento  alle sentenze di condanna; il secondo , consistente nell’impedire che tale equiparazione possa essere affermata, in via di interpretazione, per le sentenze di tale natura già pronunciate.

Il deferimento del militare al giudizio della commissione o giudizio di disciplina avviene poi in tutti quei casi nei quali la competente autorità militare ritenga,  in base alle risultanze dell’attività istruttoria compiuta, che l’incolpato sia passibile di essere rimosso dall’impiego e di perdere il grado per aver posto in essere “atti incompatibili con il proprio stato”, quindi del tutto ostativi ad una prosecuzione del rapporto di servizio.

A tal proposito è importante evidenziare come a seguito dell’intervento della Corte Costituzionale con la sentenza n. 17 del 1991, è necessaria la sottoposizione del militare al giudizio della commissione anche nel caso in cui l’autorità militare intenda infliggere la sanzione disciplinare della cessazione dalla ferma volontaria o dalla rafferma.

 

- dott. Alberto Cuccuru - settembre 2001


[1] Cons. Stato, sez. VI, 15 aprile 1996, n. 553 in C.S., 1996, 638.

[2] E’ pacifico che la sospensione del procedimento non deve essere disposta quando l’oggetto del giudizio penale non inerisca ai fatti addebitati nella sede disciplinare predetta, in tal senso Cons. Stato, sez. VI, 30 luglio 1997, n. 1149 in Foro Amm., 1997, 2018.

[3] Art. 10 R:D.M., D.P.R. n. 546/1986

[4] In caso di assoluzione con formula “il fatto non sussiste” ovvero “per non aver commesso il fatto” l’esame deve essere limitato ad accertare se dal procedimento penale emergono circostanze od elementi marginali o collaterali diversi dal fatto esaminato dal giudice penale, che rendendo concreto violazioni dei doveri derivanti dalle norme sullo stato giuridico e disciplinare, possono rendere passibile il militare di un provvedimento disciplinare di stato oppure di una sanzione ordinaria.

[5] In tal caso il procedimento disciplinare per giungere all’eventuale provvedimento destitutivo del militare deve essere avviato e concluso nei termini fissati dalla legge n. 19/1990.

[6] Tale rito deflativo del dibattimento,  ha una natura premiale mediante il quale l’imputato e il pubblico ministero concordano la pena per il fatto-reato contestato. Tra gli effetti derivanti dall’applicazione della pena su richiesta si ricordi la riduzione fino ad un terzo della pena, la mancata condanna del prevenuto al pagamento delle spese del procedimento, la mancata applicazione di pene accessorie e di misure di sicurezza, l’estinzione del reato., la mancata pronuncia del giudice sull’eventuale domanda della parte civile costituita, la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale rilasciato a richiesta dell’interessato

[7] L’accordo imputato-pubblico ministero sbocca nella domanda rivolta al giudice, di applicare una pena “diminuita fino a un terzo” e tale da non superare “due anni di reclusione o di arresto soli o congiunti a pena pecuniaria”, art. 444 comma I. Anche se l’istituto presenta parecchi punti di somiglianza con il giudizio abbreviato, se ne distingue perché l’accordo si realizza prevalentemente sulla quantità della pena e quindi sul merito e non sulla semplice contrazione del rito.. tra l’altro la diversità di struttura dei due procedimenti ha indotto la Corte di Cassazione ad escludere la convertibilità dell’uno nell’altro e ad affermare la loro alternatività  Cass.., sez. unite, 11 novembre 1994)

[8] Sulla portata della locuzione normativa “diminuita fino ad un terzo”, già con l’entrata in vigore del nuovo codice, sia la dottrina e la giurisprudenza sono apparse nettamente divise sul piano esegetico da assumere, affermando alcuni( Lattanzi, L’applicazione della pena, Dell’anno) che la riduzione di pena non potesse eccedere un terzo della pena, sostenendo altri che la diminuzione comportava una applicazione della sanzione estesa a non oltre due terzi. .Stante l’importanza della questione si è reso necessario l’intervento delle Sezioni Unite della Cassazione con una decisione con cui si sono allineate altre successive pronunce delle diverse sezioni.

[9] Sono per la tesi della natura di una sentenza di condanna: Cass. Sez. I, 22 marzo 1993, in Cass. Pen., 1994, p. 3075; Cass. Sez. I, 13 maggio 1994, in Arch. N.p.p.,1995, p. 130.

[10] Taormina, “Qualche altra riflessione sulla natura della sentenza di patteggiamento”, in Giust. Pen. 19990, III, c. 652. Altieri, “Natura della decisione ex art. 444 c.p.p.” in Arch., n. proc. Pen 1992, p. 362.

[11]   Cfr. sentenza  26 giugno-2 luglio 1990 n. 313 in Cass. Pen, 1990, II, p. 221, m.89.

[12] Dopo la citata sentenza del 2 luglio 1990 n. 313 il giudizio sulla responsabilità dell’imputato e la stessa determinazione della pena da applicare sono rimessi alla valutazione che ne fanno le parti, mentre al giudice è riservato il compito di valutare la congruità della pena nonché quello di prosciogliere l’imputato quando ricorrono evidenti cause di non punibilità.

[13] cfr. n. 681/96 sez. V.

[14]   Cass. Sez VI, 25 marzo 1983, ric. Sotgia, in Cass. Pen, 1985, p.2284 con nota di Viciconte.

[15] Cass. Sez. I, 19 febbraio 1990, ric. Migliardi, in Cass. Pen 1999, p. 106 n. 89 con nota di Vittorini-Giuliano.

[16] Cass. Sez. III, 22 ottobre 1993, ric Giglione, Cass, pen, 1995, p. 1010., m. 617.

[17] Molteplici e varie sono le determinanti che possono indurre l’imputato a non affrontare il rito ordinario: dalla tensione emotiva di un pubblico dibattimento, all’alea di un risultato che, secondo un giudizio di comune esperienza, non ha quasi mai la prevedibilità di una assoluzione clamorosamente scontata. A fronte di tali rischi vi è la sicurezza sia della sottrazione al regime di pubblicità della udienza camerale, che dalla elargizione, copiosa ed eterogenea della molteplicità delle misure premiali individuate in precedenza.

[18] Cass. Sez. V, 24 gennaio 1994, ric deligio, in Cass. Pen., 1995, p. 1941, m. 1195.

[19] Cfr Cassazione civile, sez. I, sent. 5 dicembre 1995 n. 12511 e 12 aprile 1996 n. 3490.

2 cfr art. 1, comma 3, della legge n. 475
 

 


 

 

 

 

 

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