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SEDIZIONE

CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA N. 519

Depositata in cancelleria il 21 novembre 2000.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

- Cesare MIRABELLI Presidente

- Francesco GUIZZI Giudice

- Fernando SANTOSUOSSO "

- Massimo VARI "

- Cesare RUPERTO "

- Riccardo CHIEPPA "

- Gustavo ZAGREBELSKY "

- Valerio ONIDA "

- Carlo MEZZANOTTE "

- Fernanda CONTRI "

- Guido NEPPI MODONA "

- Piero Alberto CAPOTOSTI "

- Annibale MARINI "

- Franco BILE "

- Giovanni Maria FLICK "

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 183 e 182 del codice penale militare di pace, promossi, nell'ambito di diversi procedimenti penali, con ordinanze emesse in data 4 settembre e 11 dicembre 1999 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale militare di Torino, iscritte ai nn. 695 del registro ordinanze 1999 e 38 del registro ordinanze 2000, e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 52, prima serie speciale, dell'anno 1999 e 8, prima serie speciale, dell'anno 2000.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 27 settembre 2000 il Giudice relatore Guido Neppi Modona.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Con ordinanza emessa il 4 settembre 1999 il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale militare di Torino ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 21, 24, secondo comma, 25, secondo comma, 52, terzo comma, e 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 183 del codice penale militare di pace.

La norma denunciata punisce con la reclusione militare fino a un anno, se il fatto non costituisce un più grave reato, il militare che pubblicamente compie manifestazioni sediziose o emette grida sediziose.

Il giudice rimettente premette che il pubblico ministero aveva esercitato l’azione penale nei confronti di un militare, primo caporal maggiore effettivo ad un reggimento artiglieria da montagna, imputandogli il reato di cui all'art. 183 cod. pen. mil. di pace, perchè "pubblicamente compiva manifestazione sediziose ed emetteva grida sediziose uscendo dai ranghi e gridando più volte "non vogliamo marciare vogliamo il recupero"", chiedendo l’emissione di decreto penale di condanna alla multa di lire 2.250.000.

A parere del giudice a quo i fatti, quali emergono dagli atti di indagine, consentono di ricondurre la condotta dell’imputato a quella prevista dall’art. 183 cod. pen. mil. di pace, ma la disposizione incriminatrice violerebbe il principio di tassatività e determinatezza (art. 25, secondo comma, Cost.), che impone di formulare il precetto penale "con chiarezza in modo che sia univocamente desumibile la norma-comando", così che il cittadino medio possa facilmente comprendere cosa é, e cosa non é, penalmente vietato e il giudice non goda "di arbitrio nel reprimere i comportamenti umani", mentre la norma non definisce affatto la nozione di "manifestazioni e grida sediziose".

Il termine sedizione, osserva il giudice a quo, non é giuridico e il suo significato etimologico indica solo "separazione da un qualcosa": esso rappresenterebbe un elemento normativo di carattere vago, "fondantesi su un concetto politico che, malgrado ogni sforzo interpretativo, non consente di individuare il parametro valutativo cui riferirsi", così da lasciare spazio a letture soggettive del dato normativo, condizionate da "fattori emozionali, magari legate al contesto socio-culturale o al periodo storico".

Del resto, prosegue il rimettente, l’incriminazione dell’attività o delle manifestazioni sediziose non é costante nelle legislazioni penali: il fatto che non ve ne fosse alcuna traccia nel codice Zanardelli, d’impronta liberale, e che sia stata invece introdotta nel codice Rocco (artt. 654 e 655 cod. pen.) e nei codici militari del 1941, dimostrerebbe che é espressione di una concezione autoritaria dello Stato, rispetto alla quale, però, la legge e il regolamento di riforma della disciplina militare (legge 11 luglio 1978, n. 382 e d.P.R. 19 luglio 1986, n. 545) hanno rappresentato una radicale inversione di tendenza, avendo ricondotto la posizione soggettiva del militare alle armi a quella di cittadino dotato di diritti, non più solo gravato da particolari doveri.

Al riguardo non é sufficiente, a parere del giudice rimettente, che la Corte costituzionale con le sentenze n. 120 del 1957 e n.15 del 1973 (riferite agli artt. 654 e 655 del cod. pen. comune) e con l’ordinanza n. 57 del 1984 (riferita all’art. 183 del cod. pen. mil. di pace), abbia affermato che "la sedizione corrisponde ad un comportamento che ha, nella comune comprensione ed esperienza, un preciso significato tradizionale generalmente accettato e penalmente rilevante, che implica ribellione, ostilità, eccitazione al sovvertimento nei confronti delle pubbliche istituzioni, così da risultare idoneo in concreto a scuotere e porre in pericolo l’ordine pubblico". La giurisprudenza di merito e di legittimità - prosegue infatti il rimettente citando decisioni del Tribunale superiore militare e della Cassazione degli anni settanta -, vuoi in relazione all’art. 183 cod. pen. mil. di pace, vuoi con riferimento agli artt. 655 e 654 cod. pen., si sarebbe infatti richiamata a definizioni disomogenee, spesso diametralmente opposte, della nozione di sedizione.

Il reato punito dall’art. 183 cod. pen. mil. di pace sarebbe stato, così, ritenuto a volte di pericolo concreto, ma altre volte di pericolo astratto: ravvisandosi il delitto anche nel comportamento meramente critico o protestatario, la cui pericolosità per l’ordinamento militare viene presunta.

A rendere compatibile con i principi costituzionali la fattispecie censurata non basterebbe quindi "il riferimento ad un opinabile e generico [...] concetto tradizionale universalmente accettato giacchè é la giurisprudenza di tutti i giorni che depone per il contrario".

Una accezione della nozione di "sediziosità" che, per la sua indeterminatezza, consente la incriminazione di ogni critica rivolta, seppure in maniera "forte", al sistema militare, comporterebbe quindi, da un lato, anche la violazione dell’art. 52, terzo comma, della Costituzione, che vuole l’ordinamento delle forze armate improntato allo spirito democratico della Repubblica, dall’altro la violazione dell’art. 21 della Costituzione, e cioé del diritto alla libera manifestazione del pensiero.

Secondo il rimettente, infatti, l’incertezza sul contenuto del precetto penale legittimerebbe ogni interpretazione che, in nome di una male intesa esigenza di autotutela dell’ordinamento militare, sacrificasse il diritto di libera manifestazione del pensiero.

Il "difetto di tassatività e determinatezza" della fattispecie comporterebbe inoltre la concreta vanificazione del diritto di difesa dell’imputato, oltre che dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale. L’impossibilità di conoscere con certezza ciò che é consentito e ciò che é vietato impedirebbe infatti al pubblico ministero di individuare i comportamenti in relazione ai quali esercitare l’azione penale, mentre sul piano processuale verrebbe diminuito, per colui nei cui confronti é esercitata l’azione penale, il sistema delle garanzie, poichè alla contestazione di un giudice "arbitro assoluto", il cittadino militare non avrebbe da opporre argomenti certi.

Infine la violazione del principio di determinatezza comporterebbe la violazione del principio di uguaglianza, poichè la possibilità di differenti letture del precetto rende possibili decisioni diverse, e dunque diversi trattamenti dei cittadini militari, pure in presenza di identiche situazioni di fatto.

Peraltro, l'art. 3 Cost. sarebbe violato anche sotto un ulteriore profilo: secondo il rimettente sussisterebbe infatti un evidente parallelismo tra la norma denunciata e quella dell’art. 654 del codice penale comune, identica alla prima sia per la materialità della condotta incriminata, sia per la durata della pena detentiva, con l’unica differenza che l’una prevede un delitto, l’altra una contravvenzione. A seguito della legge 25 giugno 1999, n. 205, che ha tra l'altro delegato il Governo a trasformare in illecito amministrativo la contravvenzione di cui all’art. 654 cod. pen., senza nulla disporre in relazione alla identica previsione del codice penale militare di pace, si sarebbe determinata "una ulteriore disparità di trattamento tra cittadini, a seconda che essi siano o meno alle armi e proprio quando il legislatore sembra aver preso contezza dello scarso disvalore sociale della manifestazione sediziosa o, quantomeno, dell’assenza di pericolosità sociale nei soggetti che abbiano tenuto siffatti comportamenti".

1.1. - E’ intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.

L’Avvocatura richiama le decisioni della Corte che hanno ritenuto la legittimità costituzionale delle disposizioni del codice penale comune in materia di "sedizione" (sentenze n. 120 del 1957 e n. 15 del 1973) e la pronuncia che ha dichiarato manifestamente infondata analoga questione sollevata sull’art. 183 cod. pen. mil. di pace (ordinanza n. 57 del 1984).

A parere dell’Avvocatura le considerazioni svolte dalla Corte, segnatamente in tale ultima decisione, con riferimento agli artt. 3 e 25 Cost., non possono dirsi sovvertite dal diritto "vivente" cui fa riferimento il rimettente, che é anteriore alla pronuncia della Corte. Sgomberato il campo dalla asserita violazione del principio di determinatezza, non residuano spazi d’accoglimento in relazione agli ulteriori parametri evocati dal rimettente, perchè alla violazione degli artt. 21, 24, 52 e 112 Cost. dallo stesso rimettente é dato rilievo proprio e solo in quanto ulteriore e logico sviluppo del vizio costituito dalla indeterminatezza della fattispecie.

Quanto alla violazione dell’art. 3 Cost. sotto il profilo della disparità di trattamento tra ordinamento comune e ordinamento militare, l’Avvocatura ritiene che, quand’anche le situazioni fossero ritenute omogenee, esulerebbe dai poteri della Corte una pronuncia che, intervenendo sulla norma denunciata, producesse "l’effetto di omologare, sul terreno della riconduzione del fatto al novero degli illeciti amministrativi piuttosto che penali come su quello lato sensu sanzionatorio, la fattispecie prevista dall’ordinamento militare con quella prevista dall’ordinamento comune".

2. - Con ordinanza emessa in data 11 dicembre 1999 il medesimo giudice ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, 21, 24, secondo comma, 25, secondo comma, 52, terzo comma, e 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale anche dell'art. 182 del codice penale militare di pace.

La norma impugnata, rubricata "Attività sediziosa", punisce con la reclusione militare fino a due anni il militare che svolge un'attività diretta a suscitare in altri militari il malcontento per la prestazione del servizio alle armi o per l'adempimento di servizi speciali.

Il giudice rimettente premette che il pubblico ministero aveva esercitato l'azione penale, chiedendo emettersi decreto penale di condanna alla multa di lire 2.250.000, nei confronti di un maresciallo ordinario dell'Esercito italiano, imputandogli il reato di attività sediziosa continuata (artt. 81, secondo comma, cod. pen. e 182 cod. pen. mil. di pace) perchè con dichiarazioni, pubblicate in giorni successivi da quotidiani diversi, riferendo di uno stato di malcontento fra i quadri delle Forze armate, minacciava di organizzare lo sciopero della mensa e insinuava che si sarebbero dovuti dimettere i vertici della struttura militare e il Ministro della difesa, così svolgendo attività diretta a suscitare in altri militari il malcontento per la prestazione del servizio alle armi.

Il procedimento era sorto a seguito della segnalazione del Capo di stato maggiore dell'esercito, che aveva trasmesso al pubblico ministero gli articoli di stampa nei quali l'imputato, membro del Consiglio centrale di rappresentanza (COCER) dell'Esercito, "criticava aspramente, con linguaggio ed aggettivazioni anche eccessive, l'inerzia del Ministro della difesa ed i vertici della forza armata nell'assumere le difese della Brigata E.I. Folgore, e manifestava l'intendimento di organizzare una eclatante forma di protesta dei militari, quale l'astensione dal rancio, per esternare il già diffuso malcontento imperante".

A parere del rimettente gli accertamenti svolti dalla Procura militare consentivano di ritenere acquisita la prova non solo della materialità dei fatti, così come addebitati all'imputato, ma anche della "intenzionalità richiesta dalla norma penale contestata e costituita dall'intendimento di rafforzare un già diffuso malcontento verso il servizio militare".

Il fatto, poi, che le esternazioni provenissero da un appartenente al Consiglio centrale di rappresentanza dell'Esercito, e cioé da "soggetto qualificato ed eletto dalla base dei militari", conferiva loro - secondo lo stesso giudice a quo - una valenza tale da "obbligare il Cocer ad intervenire, successivamente al fatto, bollando le dichiarazioni dell'odierno imputato quali inopportune e proprio perchè l'annunciato sciopero del rancio fungeva da minaccia per fare revocare la rimozione del Comandante della brigata Folgore".

Osserva, tuttavia, il rimettente che il reato contestato configura un'ipotesi affatto peculiare di reato di pericolo presunto, meglio di reato di pericolo di un pericolo, di "incerta offensività per difetto strutturale di tipizzazione della fattispecie incriminatrice".

La condotta tipica consisterebbe, secondo la giurisprudenza, in ogni attività che, "minacciando di intaccare la compattezza del consorzio militare attraverso la diffusione di fermenti di disordine", pone in pericolo il bene giuridico "disciplina militare". La fattispecie di cui all'art. 182 cod. pen. mil. di pace configurerebbe di conseguenza, a parere del rimettente, un "delitto di attentato a pericolo presunto", a forma libera, che consente, per le intrinseche difficoltà ermeneutiche, una tale libertà all'interprete da sfociare in arbitrio.

La giurisprudenza, infatti, avrebbe ravvisato gli estremi della attività "sediziosa" nelle più svariate modalità di condotta: "propaganda orale o scritta, palese o clandestina; diffusione di volantini in caserma, pubblicazioni di articoli che invitino i militari a non imbracciare le armi, che censurino la politica governativa (come nel caso di specie)", nonchè nel comportamento tendente a sollecitare i militari ad aderire a forme di protesta "forti" quali lo sciopero del rancio o ad aumentare un malcontento già diffuso.

A rendere problematica l'esegesi della norma si sommerebbero, quindi, da un canto la latitudine della nozione di sedizione e attività sediziosa, dall'altro la matrice ideologica del legislatore che nel 1941 aveva previsto tale incriminazione contro la disciplina militare, in relazione alla quale, tuttavia, la legge di riforma 11 luglio 1978, n. 382 e il d.P.R. 19 luglio 1986, n. 545 hanno dettato norme sicuramente significative di un radicale mutamento di concezione.

Con argomentazioni analoghe a quelle svolte nella precedente ordinanza relativa all'art. 183 cod. pen. mil. di pace il giudice a quo afferma dunque che la fattispecie é indeterminata perchè il concetto di sedizione non é giuridico, nè é desumibile con certezza dal linguaggio corrente.

L'art. 182 cod. pen. mil. di pace violerebbe in primo luogo gli artt. 13 e 25, secondo comma, della Costituzione, con riferimento al principio della "necessaria offensività del reato a beni di rilievo costituzionale".

Ad avviso del rimettente, infatti, la fattispecie impugnata integrerebbe un reato di attentato, e sarebbe perciò espressione di una scelta di politica criminale volta ad "anticipare" la protezione di beni ritenuti meritevoli di particolare tutela. In relazione a tale categoria di reati in dottrina e in giurisprudenza si registrano, secondo il rimettente, orientamenti contrapposti: accanto a chi ritiene che il requisito della idoneità della condotta a porre in pericolo il bene giuridico protetto sia postulato quantomeno dalla disposizione di carattere generale dell'art. 49 cod. pen., altri affermano che il reato consisterebbe in un fatto di "mera disobbedienza" e sarebbe, dunque, sufficiente ad integrare la condotta incriminata la mera possibilità che essa ponga in pericolo il bene tutelato, non richiedendosi anche la possibilità che l'evento (di pericolo) si realizzi.

In particolare, in relazione al reato di cui all'art. 182 cod. pen. mil. di pace, il rimettente sostiene che la giurisprudenza militare di merito é costante nel ritenere che "ogni critica, sol che sia astrattamente idonea a suscitare malcontento", é idonea a integrare un atto di "indisciplina" tale da giustificare l'incriminazione. Secondo tale giurisprudenza, dunque, la fattispecie, "priva di "clausole negative" [...] e priva di dizioni da cui possa dedursi come necessaria una idoneità della condotta a porre in pericolo il polimorfico concetto di disciplina militare", integrerebbe un delitto di pericolo presunto, coincidente con l'astratta disubbidienza del precetto: in aperta violazione dei parametri costituzionali evocati, dai quali discende la necessità che alla sanzione penale si faccia ricorso solo come rimedio estremo e solo per la repressione di figure di reato che "devono essere costruite in funzione offensiva di ben determinata oggettività giuridica, procedendosi con una sorta di tipizzazione delle offese".

La disposizione violerebbe inoltre il principio di tassatività e determinatezza della norma penale (art. 25, secondo comma, Cost.), che impone la formulazione del precetto penale "con chiarezza in modo che sia univocamente desumibile la norma-comando", così che il cittadino medio possa facilmente comprendere cosa é, e cosa non é, penalmente vietato e il giudice non goda "di arbitrio nel reprimere i comportamenti umani", in quanto "arduo é definire realmente ciò che si debba intendere per "attività diretta a suscitare il malcontento fra militari"", e fa "difetto una nozione di sedizione, che abbia una significanza generale e tradizionale", come dimostrerebbe la "giurisprudenza di tutti i giorni".

La previsione del reato di attività sediziose, consentendo, in conseguenza di una visione autoritaria dello Stato, la incriminazione della critica rivolta, seppure in maniera "forte", al sistema militare, comporterebbe quindi anche la violazione, da un lato, dell’art. 52, terzo comma, della Costituzione, che vuole l’ordinamento delle Forze armate improntato allo spirito democratico della Repubblica, dall’altro dell’art. 21 della Costituzione, e cioé del diritto alla libera manifestazione del pensiero, riaffermato, anche per i militari, dalla legge di principio sulla disciplina militare, n. 382 del 1978.

A tal proposito il rimettente afferma che "alla tesi per cui la condotta sanzionata dall'art. 182 cod. pen. mil. di pace non consiste nella critica anche aspra degli ordinamenti militari, sorretta dalla garanzia costituzionale della libertà di manifestazione del pensiero (ved. sentenza Corte costituzionale n. 30 del 1982), non si é adeguata la giurisprudenza di merito, forse perchè la Consulta non ha effettuato interventi manipolativi della norma".

Il difetto di tassatività e determinatezza della fattispecie, lasciando arbitro il giudice nella individuazione del significato da riconnettere alla descrizione della condotta contenuta nella norma denunciata, comporterebbe infine - sulla base delle medesime argomentazioni già svolte nella precedente ordinanza - la concreta vanificazione del diritto di difesa dell’imputato, oltre che dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale per il pubblico ministero, nonchè la violazione del principio di uguaglianza.

2.1. - E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, rilevando che la questione parrebbe inammissibile, in quanto il rimettente ha esposto con dovizia di argomentazioni i motivi per i quali in astratto la norma in oggetto sarebbe in contrasto con i precetti costituzionali, "senza scendere funditus nella specificazione della fattispecie concreta".

Nel merito, a parere dell'Avvocatura, la questione sarebbe, poi, infondata, alla luce di quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 30 del 1982. Gli ulteriori argomenti svolti dal ricorrente sarebbero invero sorretti da argomentazioni di carattere storico e sociologico piuttosto che giuridico.

 

Considerato in diritto

 

1. - Vengono sottoposte al giudizio di questa Corte due questioni di legittimità costituzionale, sollevate nell'ambito di diversi procedimenti penali dal medesimo Giudice per le indagini preliminari del Tribunale militare di Torino, relative, rispettivamente, agli artt. 183 (Manifestazioni e grida sediziose) e 182 (Attività sediziosa) del codice penale militare di pace.

Le censure di costituzionalità rivolte all'art. 183 cod. pen. mil. di pace si basano essenzialmente sulla dedotta violazione del principio di legalità (art. 25, secondo comma, Cost.), a causa della assoluta mancanza di determinatezza e tassatività della fattispecie incriminatrice: in particolare, risulterebbe impossibile attribuire alle nozioni di grida e manifestazioni "sediziose" un significato chiaro, preciso e univoco, sia sul terreno del linguaggio giuridico, sia su quello del lessico corrente, e il carattere "sedizioso" della condotta incriminata verrebbe desunto da valutazioni soggettive, legate al contesto socio-culturale o ai diversi periodi storici.

L'assoluta indeterminatezza della nozione di "sediziosità" viola, ad avviso del giudice rimettente, anche altri parametri costituzionali: l'art. 52, terzo comma, Cost., in quanto consente di applicare l'art. 183 cod. pen. mil. di pace a mere manifestazioni di protesta e di critica, considerate di per se stesse espressive di ribellione nei confronti dell'autorità militare e, dunque, pericolose per l'ordine pubblico militare, in contrasto con il principio secondo cui l'ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica; l'art. 21 Cost., perchè il cittadino militare vede compromessa la sua libertà di manifestazione del pensiero, sacrificata dall'esigenza di tutela della "coesione" dell'ordinamento militare; l'art. 24, secondo comma, Cost., in quanto l'imputato del reato di manifestazioni e grida sediziose non può opporre ad un giudice "arbitro assoluto" dell'interpretazione della norma altro che i "difformi precedenti giurisprudenziali"; l'art. 112 Cost., in quanto impedisce al pubblico ministero di individuare con certezza i comportamenti incriminabili, sacrificando così il principio di obbligatorietà dell'azione penale; l'art. 3 Cost., sia perchè, essendo possibili differenti letture della norma, i cittadini militari sono esposti a decisioni diverse, e quindi a diversi trattamenti processuali, pure in presenza di identiche situazioni di fatto, sia per la diversità di disciplina tra ordinamento penale comune e militare, in quanto, essendo stato depenalizzato il reato di cui all'art. 654 cod. pen., le grida e manifestazioni sediziose costituiscono reato solo per il militare.

Per quanto concerne l'art. 182 cod. pen. mil. di pace, particolare rilievo viene riservato alla dedotta violazione degli artt. 13 e 25, secondo comma, Cost., sotto il profilo che il reato in esame - qualificato dal rimettente come "delitto di attentato a pericolo presunto", nel senso che ogni critica astrattamente idonea a suscitare malcontento può integrare gli estremi del reato - eluderebbe il principio della necessaria offensività del reato, che richiede appunto che le fattispecie incriminatrici siano costruite in funzione dell'offesa a una determinata e tipicizzata oggettività giuridica.

Le altre censure di costituzionalità fanno riferimento ai parametri costituzionali già evocati con riferimento all'art. 183 cod. pen. mil. di pace: sarebbero dunque violati l'art. 25, secondo comma, Cost., sotto il profilo della lesione del principio di legalità, a causa della indeterminatezza e incertezza della condotta incriminata, qualificata come sediziosa solo nella rubrica dell'art. 182 cod. pen. mil. di pace e poi definita genericamente come "attività diretta a suscitare in altri militari il malcontento per la prestazione del servizio alle armi o per l'adempimento di servizi speciali", cioé con espressioni di significato equivoco e prive di sufficiente precisione; l'art. 52, terzo comma, Cost., in quanto l'incriminazione di attività di mera protesta e critica si porrebbe in contrasto con il principio secondo cui l'ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica; l'art. 21 Cost., perchè l'indeterminatezza della nozione di "sedizione" e la generica descrizione della condotta incriminata comprometterebbero la libertà di manifestazione del pensiero del cittadino militare, sacrificata dalle esigenze di tutela della "coesione dell'ordinamento militare"; nonchè gli artt. 24, secondo comma, 112 e 3 Cost., per le medesime ragioni già esposte nell'ordinanza di rimessione relativa al reato di manifestazioni e grida sediziose.

Poichè le questioni oggetto delle due ordinanze di rimessione hanno in comune la lamentata carenza di determinatezza della nozione di sedizione, che interviene in entrambi i reati di attività sediziosa e di manifestazioni e grida sediziose, e si basano su censure di costituzionalità quasi sempre coincidenti, deve essere disposta la riunione dei relativi giudizi.

2. - I due reati oggetto delle censure di legittimità costituzionale sono contenuti nel titolo III "Reati contro la disciplina militare", capo II "Della rivolta, dell'ammutinamento e della sedizione militare", del codice penale militare di pace, e sono rispettivamente rubricati "Manifestazioni e grida sediziose" (art. 183) e "Attività sediziosa" (art. 182). Fanno parte, secondo la qualificazione ad essi riservata nella Relazione al progetto del codice, delle così dette "forme minori o complementari di sedizione", tra le quali figurano anche il reclamo collettivo previo accordo (art. 180) e la raccolta di sottoscrizioni per rimostranza o protesta (art. 184). Questi reati sono già stati oggetto di interventi della Corte, grazie ai quali gli elementi costitutivi e l'oggettività giuridica delle forme minori di sedizione militare sono stati definiti e circoscritti con maggior precisione.

Per ciò che attiene, in particolare, alle fattispecie in esame, é stata dichiarata la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 183 cod. pen. mil. di pace in riferimento agli artt. 3 e 25, secondo comma, Cost. Al riguardo, la Corte ha affermato - riproducendo pressochè testualmente il contenuto di due decisioni sul reato di grida e manifestazioni sediziose previsto dall’art. 654 del codice penale comune (sentenze n. 15 del 1973 e n. 120 del 1957) - che "il concetto di 'sedizione' corrisponde ad un comportamento che ha, nella comune comprensione ed esperienza, un preciso significato tradizionale generalmente accettato e penalmente rilevante, che implica ribellione, ostilità, eccitazione al sovvertimento nei confronti delle pubbliche istituzioni, così da risultare idoneo in concreto a scuotere e porre in pericolo l'ordine pubblico" (ordinanza n. 57 del 1984).

Per quanto concerne il reato di cui all'art. 182 cod. pen. mil. di pace, la Corte, chiamata a decidere della questione di legittimità costituzionale di tale fattispecie, sollevata con riferimento all'art. 21 Cost., ha rilevato che la condotta sanzionata "non consiste nella critica anche aspra degli ordinamenti militari"; critica che, in quanto tale, é sorretta dalla garanzia costituzionale della libertà di manifestazione del pensiero (sentenza n. 30 del 1982).

Prendendo in esame altri reati minori di sedizione militare, la Corte ha poi ritenuto che vanno ricondotte alle fattispecie di sedizione in senso stretto, quali sono quelle previste dagli artt. 182 e 183 cod. pen. mil. di pace, le manifestazioni di dissenso "caratterizzate dall'ostilità o ribellione verso le istituzioni o gli ordinamenti militari" e "dall'idoneità [...] a porsi come espressioni di violenza sovvertitrice" (v. sentenza n. 126 del 1985, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 180, primo comma, cod. pen. mil. di pace - Domanda, esposto o reclamo collettivo, previo accordo, di dieci o più militari). Non é poi mancata la precisazione che anche ai reati minori di sedizione militare si applica il principio dell'accertamento in concreto dell'offensività della condotta, rimesso alla valutazione del giudice (sentenza n. 24 del 1989, relativa al reato previsto dall'art. 184 cod. pen. mil. di pace - Raccolta di sottoscrizioni per rimostranza o protesta. Adunanza di militari).

3. - Alla luce degli specifici precedenti costituzionali, le questioni sono infondate.

In relazione al reato di cui all'art. 183 cod. pen. mil. di pace i dubbi di costituzionalità sollevati sotto il profilo della violazione del principio di legalità non hanno più ragion d'essere, ove si tenga conto del risalente e oramai consolidato indirizzo della giurisprudenza costituzionale, seguìto dalla giurisprudenza comune, per il quale gli estremi necessari per qualificare come "sediziosa" la condotta incriminata risultano determinati con sufficiente precisione.

Secondo tale indirizzo, le manifestazioni e grida "sediziose" penalmente rilevanti sono dunque quelle che denotano oggettivamente ostilità e ribellione nei confronti delle istituzioni e dell'ordinamento militare, espresse in circostanze di fatto e con modalità tali da essere idonee a suscitare reazioni violente e sovvertitrici dell'ordine e della disciplina militare. Rimangono escluse dal modello legale della fattispecie incriminatrice manifestazioni o grida che esprimono generico malcontento, ovvero forme di protesta, di critica e di dissenso che, in quanto prive di una carica destabilizzante o di rivolta nei confronti dell'ordinamento e della disciplina militare, rientrano nell’esercizio del diritto di manifestare pubblicamente e liberamente il proprio pensiero, riconosciuto anche ai militari dall'art. 9 della legge 11 luglio 1978, n. 382, relativa alle norme di principio sulla disciplina militare.

Conseguentemente, sono infondate le censure riferite agli altri parametri, prospettate dal rimettente quali corollari del contrasto con il principio di determinatezza: non risultano violati nè il diritto di difesa, nè il principio di obbligatorietà dell'azione penale, in quanto sia l'imputato, sia il pubblico ministero sono in grado di individuare con sufficiente precisione i contenuti del modello legale della norma incriminatrice, e neppure il principio di eguaglianza, in quanto la tipicità della condotta esclude il rischio di trattamenti processuali differenziati a fronte delle medesime situazioni di fatto. Inoltre, poichè le mere manifestazioni di critica, di protesta e di dissenso sono estranee alla condotta incriminata dall'art. 183 cod. pen. mil. di pace, vengono a cadere le dedotte violazioni sia del principio secondo cui l'ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica (art. 52, terzo comma, Cost.), sia della libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.).

Infine, priva di fondamento é pure la denunciata violazione del principio di eguaglianza sotto il profilo della disparità di trattamento tra civili e militari, per essere stato depenalizzato solo il reato di grida e manifestazioni sediziose previsto dal codice penale comune (v. l'art. 45 del decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507, in attuazione della legge n. 205 del 1999): la diversità di disciplina tra ordinamento penale comune e militare può infatti rilevare in termini di violazione del principio di eguaglianza solo ove sia dato riscontrare una assoluta identità tra il reato comune e quello militare, sul terreno sia della condotta tipica, sia dell'oggettività giuridica del reato (v., ex plurimis, sentenze n. 272 del 1997 e n. 448 del 1991), mentre tra la fattispecie prevista dall'art. 654 cod. pen. e il reato di cui all'art. 183 cod. pen. mil. di pace é comunque riscontrabile una differenza di oggettività giuridica, che nel reato militare si specifica in relazione alla tutela della disciplina militare e della coesione delle Forze armate.

4. - Analoghe sono le conclusioni in ordine al reato di attività sediziosa previsto dall'art. 182 cod. pen. mil. di pace.

Nel modello legale della fattispecie incriminatrice non figura l'espresso richiamo al carattere sedizioso della condotta, definita come "attività diretta a suscitare in altri militari il malcontento per la prestazione del servizio alle armi o per l'adempimento di servizi speciali", ma il carattere "sedizioso" del comportamento penalmente rilevante non può essere revocato in dubbio sol che si tenga conto della rubrica del reato, significativamente intitolato "Attività sediziosa", della collocazione sistematica della disposizione, inserita nel capo relativo alla rivolta, all'ammutinamento e alla "sedizione militare", nonchè dell'interpretazione riservata da questa Corte a tutti i reati compresi tra le forme minori o complementari di sedizione militare (v. soprattutto sentenze n. 126 del 1985 e 24 del 1989).

L'attività in cui si sostanzia la condotta incriminata deve quindi essere connotata dai caratteri, già menzionati in relazione al reato di cui all'art. 183 cod. pen. mil. di pace, che questa Corte ha ritenuto necessari al fine di integrare gli estremi della condotta "sediziosa"; con l'ulteriore precisazione che, mentre le manifestazioni e grida sediziose possono esplicarsi anche mediante episodi sporadici, l'attività sediziosa implica un minimo di continuità e di organizzazione, requisiti necessari per rendere la condotta idonea a suscitare il malcontento per la prestazione del servizio militare.

Per quanto riguarda, poi, il profilo della offensività del reato, su cui si é soffermato in modo particolare il giudice rimettente, costituisce affermazione pacifica che la fattispecie in esame é posta a tutela del mantenimento della disciplina militare, fattore essenziale alle esigenze di coesione, di efficienza e di funzionalità delle Forze armate. E’ però necessario precisare che la tutela della disciplina militare non é fine a se stessa, ma funzionale alle esigenze del servizio militare, come emerge anche dallo spirito che informa la legge n. 382 del 1978, contenente le norme di principio sulla disciplina militare, e, in particolare, dal tenore del primo comma dell'art. 2 del Regolamento di disciplina militare (D.P.R. 18 luglio 1986, n. 545), ove viene appunto delineato il carattere strumentale e servente degli obblighi della disciplina militare "ai compiti istituzionali delle Forze armate ed alle esigenze che ne derivano".

Così definita l'oggettività giuridica del reato, può essere qualificata come sediziosa, ed é punibile ai sensi dell'art. 182 cod. pen. mil. di pace, solo l'attività in concreto idonea a ledere le esigenze di coesione, di efficienza e di funzionalità del servizio militare e dei compiti istituzionali delle Forze armate.

Anche nei confronti del reato in esame, opera dunque il principio della necessaria offensività del reato, sia sul terreno della previsione normativa, sia su quello dell'applicazione giudiziale: alla lesività in astratto, intesa quale limite alla discrezionalità del legislatore nella individuazione di interessi meritevoli di essere tutelati mediante lo strumento penale, suscettibili di essere chiaramente individuati attraverso la formulazione del modello legale della fattispecie incriminatrice, fa riscontro il compito del giudice di accertare in concreto, nel momento applicativo, se il comportamento posto in essere lede effettivamente l'interesse tutelato dalla norma (v. di recente, proprio con riferimento a un reato previsto dal codice penale militare di pace, sentenza n. 263 del 2000, nonchè sentenza n. 360 del 1995).

L'individuazione in termini di sufficiente determinatezza degli elementi costitutivi e dell'oggettività giuridica del reato di cui all'art. 182 cod. pen. mil. di pace rende prive di fondamento anche le censure di legittimità costituzionale prospettate dal rimettente con riferimento ai parametri di cui agli artt. 52, terzo comma, 21, 24, secondo comma, 112 e 3 Cost., sulla base delle medesime considerazioni svolte in relazione alla questione di legittimità dell'art. 183 cod. pen. mil. di pace.

 

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

riuniti i giudizi,

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 183 del codice penale militare di pace sollevata, in riferimento agli articoli 25, secondo comma, 52, terzo comma, 21, 24, secondo comma, 112 e 3 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale militare di Torino, con l'ordinanza in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 182 del codice penale militare di pace sollevata, in riferimento agli articoli 13 e 25, secondo comma, 52, terzo comma, 21, 24, secondo comma, 112 e 3 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale militare di Torino, con l'ordinanza in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 novembre 2000.

Cesare MIRABELLI, Presidente

Guido NEPPI MODONA, Redattore

Depositata in cancelleria il 21 novembre 2000.
 

 


 

 

 

 

 

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