SENTENZA
N. 449
SUL
SINDACATO PER I MILITARI
ANNO
1999
REPUBBLICA
ITALIANA
IN
NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA
CORTE COSTITUZIONALE
composta
dai signori:
-
Prof. Giuliano VASSALLI Presidente
-
Prof. Francesco GUIZZI Giudice
-
Prof. Cesare MIRABELLI
-
Prof. Fernando SANTOSUOSSO
-
Avv. Massimo VARI
-
Dott. Cesare RUPERTO
-
Dott. Riccardo CHIEPPA
-
Prof. Gustavo ZAGREBELSKY
-
Prof. Valerio ONIDA
-
Prof. Carlo MEZZANOTTE
-
Avv. Fernanda CONTRI
-
Prof. Guido NEPPI MODONA
-
Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI
-
Prof. Annibale MARINI
-
Dott. Franco BILE
ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
nel
giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 8, primo comma, della
legge 11 luglio 1978, n. 382 (Norme di principio sulla disciplina militare),
promosso con ordinanza emessa il 2 giugno 1998 dal Consiglio di Stato sul
ricorso proposto da Pallotta Ernesto e altri contro il Ministero della difesa,
iscritta al n. 837 del registro ordinanze 1998 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell’anno 1998.
Visti
gli atti di costituzione di Pallotta Ernesto e altri, nonché l’atto di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito
nell’udienza pubblica del 23 novembre 1999 il Giudice relatore Francesco
Guizzi;
uditi
l’avvocato Carlo Rienzi per Pallotta Ernesto e altri e l’avvocato dello
Stato Giovanni Pietro de Figueiredo per il Presidente del Consiglio dei
ministri.
Ritenuto
in fatto
1.
—
Il Consiglio di Stato, IV sezione, investito dell’appello presentato da
alcuni militari avverso la sentenza 29 luglio 1994, n. 1217, del Tribunale
amministrativo regionale per il Lazio, ha sollevato, in riferimento agli artt.
3, 52, terzo comma, e 39 della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale dell’art. 8, primo comma, della legge 11 luglio 1978, n. 382
(Norme di principio sulla disciplina militare), nella parte in cui vieta agli
appartenenti alle Forze armate di costituire associazioni professionali a
carattere sindacale e, comunque, di aderire ad altri sindacati esistenti.
Vi
sarebbe lesione degli artt. 39 e 52, terzo comma, della Costituzione, perché
non sussistono motivi plausibili per vulnerare, nell’ambito
dell’ordinamento militare, un diritto costituzionalmente garantito. Né
sarebbe ragionevole la disparità di disciplina rispetto alle forze di polizia
a ordinamento civile, le quali godono della libertà sindacale. In base alla
legge n. 382 del 1978, prosegue il Collegio rimettente, la libertà di
associazione è consentita fra soli militari, con il consenso del Ministro, e
risulta confinata in un “limbo funzionale”; vi è infatti il divieto di
assumere iniziative che possano avere carattere sindacale, e sono altresì
previsti controlli dell’autorità militare. Al tempo stesso, gli organi
rappresentativi hanno compiti propositivi e di tutela nelle materie che
attengono al rapporto di servizio, ivi compresa la partecipazione alla
concertazione interministeriale in ordine al suo contenuto.
La
legge n. 382 del 1978, pur negando ai militari la libertà sindacale,
riconosce loro facoltà tipiche di essa, devolvendole a specifici organi che
si pongono in “posizione collaborativa”, e non antagonista, rispetto
all’autorità militare. Tuttavia gli organi di rappresentanza non coprono
l’arco delle possibili istanze collettive, come accade ad esempio in materia
di contenzioso; e soprattutto gli strumenti predisposti sacrificano i principi
della libertà di organizzazione e del pluralismo sindacale, ammettendo la
mera partecipazione dei rappresentanti alla concertazione interministeriale,
volta a determinare il contenuto del rapporto di impiego, mentre per le forze
di polizia a ordinamento civile vale il più incisivo strumento dell’accordo
sindacale (a questo proposito l’ordinanza pone a confronto le lettere A)
e B) dell’art. 2, comma 1, del
decreto legislativo 12 maggio 1995, n. 195). Né potrebbe fondarsi
l’esclusione della libertà sindacale sull’esigenza di non indebolire la
disciplina militare, le cui norme regolatrici non subirebbero alcuna modifica;
per cui si richiama la sentenza n. 126 del 1985 al fine di sottolineare come
non vadano certo obliterate le esigenze di coesione dei corpi militari che si
esprimono nei valori della disciplina e della gerarchia, senza per questo
giustificare un eccesso di tutela a danno delle libertà fondamentali e del
carattere democratico dell’ordinamento militare.
2.
—
E’ intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall’Avvocatura dello Stato, che ha concluso per l’infondatezza.
Considerando
la specificità dell’istituzione militare, l’Avvocatura osserva
preliminarmente che il principio della libertà sindacale non si può
applicare integralmente al rapporto di lavoro dei militari, perché in questo
ambito rilevano altri principi costituzionali, di pari rango. La legge n. 382
del 1978 istituisce organi elettivi di rappresentanza articolati a vari
livelli, ai quali sono conferiti numerosi poteri di natura consultiva e
promozionale; il legislatore ha invero individuato, e assunto,
un’accettabile soluzione intermedia, tant’è che nel giudizio a
quo - prosegue l’Avvocatura - non si muovono specifiche doglianze, ma si
prospetta la questione in termini di astratto principio. Né si potrebbe
richiamare l’art. 3 della Costituzione con riguardo alla disparità tra
Forze armate e Polizia, giacché pure per quest’ultima il legislatore ha
previsto una libertà sindacale “controllata”, che è seguita alla
smilitarizzazione del Corpo, operata dalla legge n. 121 del 1981. In ogni caso
- così conclude la difesa del Governo - non si può ipotizzare un’integrale
applicazione ai militari dello stesso quantum
di libertà sindacale riconosciuto alla Polizia di Stato.
3.
—
Si sono costituite in giudizio le parti private, sostenendo la fondatezza
della questione.
In
memoria, esse sottolineano che le conclusioni cui giunge oggi il Consiglio di
Stato dimostrano come sia ormai superata la decisione 4 febbraio 1966, n. 5,
che affermò, ai sensi dell’art. 98, terzo comma, della Costituzione, il
divieto di iscrizione dei militari ai partiti politici, estendendolo alle
organizzazioni sindacali. L’attuale ordinanza di rimessione prende dunque
atto della diversità dei ruoli, e rileva che nessuna delle organizzazioni
maggiormente rappresentative a livello nazionale trova proiezione in un
singolo partito politico. Il divieto di iscrizione ai partiti di alcune
categorie di dipendenti pubblici, sancito dalla norma costituzionale, deve
perciò essere applicato alla lettera, e l’istituzione di modelli
alternativi (per vero inadeguati) non soddisfa il diritto dei militari a
godere della libertà sindacale.
Per
quanto attiene al rapporto d’impiego, la legge n. 382 prevede non un
confronto fra le parti, ma la semplice consultazione, sì che alla carenza del
diritto di sciopero si aggiunge l’impossibilità di contrastare le
determinazioni della parte pubblica. E mentre le organizzazioni sindacali del
personale della Polizia, seppur private del diritto di sciopero, possono
comunque respingere le proposte negoziali della parte pubblica, medesima
opportunità non è data alle rappresentanze militari.
Il
sistema di tutela degli interessi introdotto dalla legge del 1978 non
garantisce, secondo le parti private, alcuna libertà di organizzazione, né
di proselitismo, perché la rappresentanza militare resta vicenda interna
all’apparato: i membri di essa fanno parte delle istituzioni militari e
percepiscono, in occasione di ogni riunione, i compensi previsti dal d.P.R. n.
5 del 1956, essendo espletate nell’esercizio di funzioni istituzionali.
L’applicazione di tale modello organizzativo a qualsiasi altro settore
rievocherebbe i “sindacati gialli” artificialmente sostenuti dalle classi
imprenditoriali; la commistione di interessi fra datore di lavoro e sindacati
vietata dall’art. 17 dello Statuto dei lavoratori - prosegue la memoria
delle parti private - costituisce per il personale militare la regola.
Il
sistema di selezione dei rappresentanti militari esclude, poi, la
contrapposizione fra liste. Secondo l’art. 18 della legge n. 382, essi sono
eletti presso le unità di base mediante voto diretto, nominativo e segreto.
Gli eletti designano quindi i componenti degli organi intermedi (COIR) e
centrali (COCER): sistema, questo, che impedisce il collegamento fra i
candidati sulla base di un programma comune noto agli elettori. I vari organi
di rappresentanza, inoltre, non sono fra loro coordinati in senso gerarchico,
sì che il COCER, quale organo centrale, non può esercitare alcun potere di
indirizzo verso il COIR o i COBAR. Ad avviso delle parti private, tale sistema
non riflette il principio di pluralismo sindacale, onde i membri dei singoli
organismi appaiono come monadi incapaci di assicurare agli elettori che il
loro voto sia coerentemente speso.
4.
—
In una memoria presentata nell’imminenza dell’udienza, l’Avvocatura
dello Stato ricorda che il “dovere militare” ha precisa tutela
costituzionale, come questa Corte ha sottolineato nella sentenza n. 16 del
1973; e osserva che la legge n. 382 del 1978 è lo strumento con cui il
legislatore ha salvaguardato le ragioni funzionali delle Forze armate e, al
tempo stesso, ha dato attuazione al precetto costituzionale secondo cui
l’ordinamento militare “si informa allo spirito democratico della
Repubblica”.
Le
facoltà tipiche della libertà sindacale sarebbero, ad avviso
dell’Avvocatura, inconciliabili con i principi dell’ordinamento militare,
giacché il potere di autorganizzazione, ove riconosciuto, darebbe vita ad
accordi fra gli associati che non sembrano compatibili con il rapporto
gerarchico. Né varrebbe osservare che l’attività sindacale si svolgerebbe
al di fuori delle condizioni in cui, ai sensi dell’art. 5 della legge n.
382, è applicabile il regolamento di disciplina: i militari, ricorda
l’Avvocatura, sono comunque tenuti all’osservanza delle norme che
concernono il giuramento prestato e il grado. Verrebbe
così intaccato il prestigio della figura del superiore che partecipi a
un’associazione presieduta da un subordinato; nel corso delle attività
sindacali i rapporti gerarchici si invertirebbero; e anche se qui rilevano
competenze diverse da quelle attinenti al servizio, si determinerebbe comunque
una confusione di ruoli.
Quanto
all’attività negoziale, si nota che la posizione dell’organizzazione
sindacale è di contrapposizione a quella del vertice dell’amministrazione:
l’assunzione di un ruolo antagonista non si concilierebbe con i doveri che
derivano dal rapporto gerarchico e dall’obbedienza, presupposti essenziali
dell’efficienza militare. E richiamata la decisione n. 5 del 1966, resa dal
Consiglio di Stato in adunanza plenaria, l’Avvocatura fa presente che la
disciplina militare, intesa quale regola fondamentale per i cittadini alle
armi, come fattore di coesione e di efficienza (art. 2 del d.P.R. 18 luglio
1986, n. 545),verrebbe irrimediabilmente incisa dall’accoglimento della
questione.
Si
aggiunge, poi, che la natura di organismo interno del COCER (l’organo
centrale a carattere nazionale e interforze) e degli organi intermedi e di
base, è la più idonea a conciliare le istanze rappresentative con la
necessaria coesione delle Forze armate. D’altra parte, anche i sindacati
delle forze di polizia a ordinamento civile incontrano significative
limitazioni (artt. 82 e 83 della legge 1° aprile 1981, n. 121), e non possono
esercitare il diritto di sciopero (art. 84 della legge citata). In ogni caso,
il diverso status del personale
giustifica l’esistenza di due differenti sistemi.
Nella
memoria si ricorda, infine, la disciplina presente negli ordinamenti
stranieri, e si rileva come in molti di essi siano previste significative
limitazioni (o addirittura l’esclusione) della libertà sindacale per i
militari.
Considerato
in diritto
1.
—
La questione di legittimità
costituzionale sollevata dal Consiglio di Stato ha ad oggetto quella parte
dell’art. 8, primo comma, della legge 11 luglio 1978, n. 382 (Norme di
principio sulla disciplina militare), che vieta agli appartenenti alle Forze
armate di costituire associazioni professionali a carattere sindacale e,
comunque, di aderire ad altre associazioni sindacali. Vi sarebbe lesione degli
artt. 39 e 52, terzo comma, della Costituzione, nonché del principio di
eguaglianza e di ragionevolezza, dal momento che nella Polizia di Stato - la
quale svolge anch’essa un servizio essenziale - sono ammessi i sindacati,
sebbene in forme circoscritte dal legislatore.
Il
dubbio di legittimità costituzionale verte quindi sul mancato riconoscimento
della libertà sindacale in seno alle Forze armate: questione che il Consiglio
di Stato ritiene prioritaria, e preliminare, rispetto a ulteriori specifici
profili concernenti la composizione e il funzionamento degli organi di
rappresentanza istituiti dalla legge del 1978.
Secondo
l’ordinanza di rimessione, l’art. 39 della Costituzione si imporrebbe
anche per gli appartenenti alle Forze armate, attesa la sua valenza generale.
Perché non sarebbe sufficiente la garanzia di alcune singole facoltà,
tipiche di detta libertà, non coprendo gli organi di rappresentanza
l’intero arco delle istanze collettive; e in ogni caso - sottolinea il
Consiglio di Stato - la legge del 1978 sacrifica la libertà di organizzazione
e il pluralismo sindacale.
Appare
dunque chiaro che l’accoglimento della questione, come prospettata,
porterebbe alla cancellazione del divieto posto dalla legge n. 382 del 1978:
è questo il fine perseguito dal Collegio rimettente, il quale invoca la piena
estensione della libertà sindacale, concepita sia come potere di costituire
autonome associazioni professionali - legittimate a farsi portatrici degli
interessi collettivi dei militari - sia come facoltà di adesione ad
associazioni già esistenti, sia come principio pluralistico di concorrenza
fra le associazioni stesse, fermo restando il divieto di sciopero.
2.
—
La questione non è fondata.
L’ordinanza
di rimessione fa leva sull’art. 39, letto in sistema con l’art. 52, terzo
comma, della Costituzione. E qui va innanzitutto rilevato che manca nella
prospettazione del Consiglio di Stato una considerazione - pur limitata -
delle esigenze di organizzazione, coesione interna e massima operatività
che distinguono le Forze armate dalle altre strutture statali.
Significativamente l’art. 52, terzo comma, della Costituzione parla di
“ordinamento delle Forze armate”, non per indicare una sua (inammissibile)
estraneità all’ordinamento generale dello Stato, ma per riassumere in tale
formula l’assoluta specialità della funzione. Coerentemente, questa Corte
ha messo in luce le esigenze funzionali e la peculiarità dell’ordinamento
militare (sentenze nn. 113 del 1997, 197 del 1994, 17 del 1991, ordinanza n.
396 del 1996), pur ribadendo più volte che la normativa non è avulsa dal
sistema generale delle garanzie costituzionali: nella sentenza n. 278 del
1987, in cui vi è l’eco dei risultati cui è pervenuta la dottrina, la
Corte ha infatti osservato che la Costituzione repubblicana supera
radicalmente la logica istituzionalistica dell’ordinamento militare, giacché
quest’ultimo deve essere ricondotto nell’ambito del generale ordinamento
statale “rispettoso e garante dei diritti sostanziali e processuali di tutti
i cittadini” (in senso analogo, v. altresì la successiva sentenza n. 78 del
1989).
La
garanzia dei diritti fondamentali di cui sono titolari i singoli “cittadini
militari” non recede quindi di fronte alle esigenze della struttura
militare; sì che meritano tutela anche le istanze collettive degli
appartenenti alle Forze armate (v. le sentenze, richiamate pure dal Consiglio
di Stato, nn. 24 del 1989 e 126 del 1985), al fine di assicurare la conformità
dell’ordinamento militare allo spirito democratico.
3.
—
Il rilievo che la struttura
militare non è un ordinamento estraneo, ma costituisce un’articolazione
dello Stato che in esso vive, e ai cui valori costituzionali si informa
attraverso gli strumenti e le norme sopra menzionati, non consente tuttavia di
ritenere illegittimo il divieto posto dal legislatore per la costituzione
delle forme associative di tipo sindacale in ambito militare. Se è fuori
discussione, infatti, il riconoscimento ai singoli militari dei diritti
fondamentali, che loro competono al pari degli altri cittadini della
Repubblica, è pur vero che in questa materia non si deve considerare soltanto
il rapporto di impiego del militare con la sua amministrazione e, quindi,
l’insieme dei diritti e dei doveri che lo contraddistinguono e delle
garanzie (anche di ordine giurisdizionale) apprestate dall’ordinamento. Qui
rileva nel suo carattere assorbente il servizio,
reso in un ambito speciale come quello militare (art. 52, primo e secondo
comma, della Costituzione). Orbene, la declaratoria di
illegittimità costituzionale dell’art. 8, nella parte denunciata,
aprirebbe inevitabilmente la via a organizzazioni la cui attività potrebbe
risultare non compatibile con i caratteri di coesione interna e neutralità
dell’ordinamento militare.
D’altra
parte, lo stesso Consiglio di Stato ammette che la legge n. 382, pur negando
ai militari la libertà sindacale, conferisce loro facoltà tipiche di essa
per salvaguardare le istanze collettive. E invero, l’ordinamento deve
assicurare forme di salvaguardia dei diritti fondamentali spettanti ai singoli
militari quali cittadini, anche per la tutela di interessi collettivi, ma non
necessariamente attraverso il riconoscimento di organizzazioni sindacali.
A
tal proposito, questa Corte non può non ricordare che il legislatore mostra
attenzione verso le istanze avanzate dagli organi di rappresentanza delle
Forze armate con riguardo a una più compiuta definizione degli spazi di
intervento e di autonomia ad essi riservati; del che costituisce testimonianza
l’esame, da parte delle Camere, di alcuni progetti di riforma della legge n.
382. E, certo, non a caso la legge 28 luglio 1999, n. 266, all’art. 18
delega il Governo a emanare, entro il 31 marzo 2000, un decreto legislativo
che integri e corregga il decreto legislativo n. 195 del 1995, prima citato a
proposito della procedura di concertazione, al fine di adeguarne il contenuto
ai principi desumibili dalle disposizioni di riforma della pubblica
amministrazione, che hanno successivamente trovato ingresso
nell’ordinamento, e di valorizzare gli organismi di rappresentanza per
quanto attiene al confronto sulle questioni che concernono il rapporto
d’impiego.
4.
—
Il Consiglio di Stato invoca l’art. 3 della Costituzione, denunciando la
disparità di trattamento fra gli appartenenti alle Forze armate e quelli
della Polizia di Stato, ai quali il legislatore ha invero riconosciuto, per
quanto entro precisi limiti, la libertà sindacale, escludendo non solo il
diritto di sciopero, bensì anche le azioni che, effettuate durante il
servizio, possano pregiudicare le esigenze di tutela dell’ordine e della
sicurezza pubblica o le attività di polizia giudiziaria
(artt. 82, 83, 84 della legge n. 121 del 1981).
Osserva
conclusivamente la Corte che - perseguendo un delicato bilanciamento tra beni
di rilievo costituzionale - il legislatore ha sì riconosciuto una
circoscritta libertà sindacale, ma ciò ha disposto contestualmente alla
smilitarizzazione del corpo di polizia, il quale ha, oggi, caratteristiche che
lo differenziano nettamente dalle Forze armate. Non può quindi invocarsi la
comparazione con la Polizia di Stato per la diversità delle situazioni poste
a confronto, sì che pure la censura
mossa con riferimento all’art. 3 deve essere disattesa, al pari di quelle
riguardanti gli artt. 39 e 52, terzo comma, della Costituzione.
PER
QUESTI MOTIVI
LA
CORTE COSTITUZIONALE
dichiara
non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, primo
comma, della legge 11 luglio 1978, n. 382 (Norme di principio sulla disciplina
militare), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 39 e 52, terzo comma, della
Costituzione, dal Consiglio di Stato, IV sezione, con l’ordinanza in
epigrafe.
Così
deciso in Roma, nella sede della Corte costitu-zionale, Palazzo della
Consulta, il 13 dicembre 1999.
Giuliano
VASSALLI, Presidente
Francesco
GUIZZI, Redattore
Depositata
in cancelleria il 17 dicembre 1999.