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3. Conclusioni
A questo punto,
parafrasando un noto
politico, ci si chiede:
“Ma che c’azzecca
tutto il ragionamento
fin qui fatto con il
superamento della
sentenza 449/99 e
segnatamente con la
libertà di riunione e di
associazione dei
cittadini europei
militari residenti in
Italia?”
Si riporta, di seguito,
prima il |
SENTENZA 449/99 CHE HA NEGATO AI MILITARI IL DIRITTO DI COSTITUIRE ASSOCIAZIONI PROFESSIONALI. PRESTO ANCHE I CITTADINI-MILITARI EUROPEI RESIDENTI IN ITALIA POTRANNO RIUNIRSI IN ASSOCIAZIONI PROFESSIONALI A CARATTERE SINDACALE
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Di Cleto Iafrate Roma, 12 ott. 2011 - C’è chi, maliziosamente, sostiene che il Codice dell’Ordinamento Militare prevede la facoltà, e non l’obbligo, per l’Amministrazione di esercitare il potere disciplinare nei confronti di chi svolge propaganda politica, in quanto l’esercizio di quel potere dipenderebbe dal partito a favore del quale viene svolta la propaganda. SOMMARIO: 1. Introduzione – 2. Il superamento del monopolio della Corte Costituzionale sul sindacato delle leggi nazionali – 3. Conclusioni. 1. Introduzione Come noto, il 13 dicembre 1999, il giorno in cui si ricorda la “Santa della luce”, i militari italiani videro calare il buio sulle loro legittime aspettative di riunirsi in associazioni liberamente costituite, alla pari di qualsiasi altro lavoratore. In quella data, infatti, la Corte Costituzionale con la sentenza nr. 449/99 ritenne legittimo il divieto imposto ai militari di costituire associazioni professionali A lasciare più l’amaro in bocca, fu il travagliato iter che portò alla controversa sentenza. Vale la pena ripercorrerlo sinteticamente. Il Consiglio di Stato, dopo aver preso atto dei principi stabiliti, fino ad allora, dalla stessa giurisprudenza costituzionale, giunse a dichiarare non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del divieto imposto ai militari “di costituire associazioni professionali a carattere sindacale”, Di seguito si riassumono tali punti fermi, precedentemente, stabiliti dai Giudici delle leggi: 1. la pacifica manifestazione di dissenso dei militari non esula dai dettami costituzionali; 2. i reclami collettivi e le riunioni a carattere non sedizioso non sono illecite, anzi possono rappresentare un mezzo di promozione e di sviluppo in senso democratico dell’Ordinamento delle Forze armate; 3. l’espletamento di un mandato richiede un’indipendenza ed un’imparzialità che mal si conciliano con i condizionamenti derivanti dal vincolo di subordinazione gerarchica; 4. in nome della tutela dei valori della disciplina e della gerarchia non possono essere sacrificate le libertà fondamentali e la stessa democraticità dell'Ordinamento militare. Preso atto di un tale orientamento della giurisprudenza costituzionale, il Consiglio di Stato giunse all’unica conclusione possibile, cioè che “NON SI RAVVISANO MOTIVI PLAUSIBILI PER SOPPRIMERE PER I MILITARI UNO TRA I DIRITTI COSTITUZIONALMENTE GARANTITI, DI CUI LO STESSO ART. 3 DELLA L. 382/78 PREVEDE SOLTANTO LIMITAZIONI NELL’ESERCIZIO”. La Corte Costituzionale, dal canto suo, in premessa, non contraddisse i principi da lei stessa sanciti in precedenza. Al contrario, li rafforzò, spingendosi ad affermare:
Dopo tali premesse, la Corte fece un clamoroso dietrofront e dichiarò non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, primo comma, della legge 382/78, ritenendo legittimo il divieto imposto ai militari di costituire associazioni professionali. I giudici delle leggi ritennero che “la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 8, nella parte denunciata, aprirebbe inevitabilmente la via ad organizzazioni la cui attività potrebbe risultare non compatibile con i caratteri di coesione interna e neutralità dell’ordinamento militare”. Giunsero a tali conclusioni, dopo aver affermato che “rileva nel suo carattere assorbente il servizio, reso in un ambito speciale come quello militare (art. 52, primo e secondo comma, della Costituzione)”. Chi scrive ritiene che la Corte abbia espresso un giudizio di valore; ovvero, abbia attribuito giuridicità a ciò che è solamente un’opinione. La Corte, a sostegno delle sue tesi, infatti, afferma che “il legislatore ha sì riconosciuto una circoscritta libertà sindacale alla Polizia di Stato, ma ciò ha disposto contestualmente alla smilitarizzazione di tale Corpo, il quale ha, oggi, caratteristiche che lo differenziano nettamente dalle Forze armate”. Da una simile affermazione sembrerebbe derivare che il riconoscimento del diritto sindacale per la Polizia di Stato è avvenuto solo a seguito della perdita del requisito di “specialità”, avvenuta con la smilitarizzazione. Ma un’attenta riflessione sulla natura giuridica dei due ordinamenti avrebbe dovuto condurre la Corte a conclusioni diametralmente opposte. Il Giudice Costituzionale, infatti, ha ignorato completamente l’art. 3, 1° comma della L. 181/81, a mente del quale “L’Amministrazione della Pubblica Sicurezza è civile ed ha un ordinamento speciale”. In altre parole, la Corte ha ignorato che sia la Polizia di Stato che le forze di polizia militarmente organizzate e le FF.AA. hanno un ordinamento “speciale” finalizzato allo svolgimento di un servizio “speciale”. Ora come allora, non si può non condividere il pensiero della dottrina più attenta a tali problematiche, secondo la quale “il riconoscimento del diritto per gli appartenenti alle Forze armate di costituire associazioni professionali a carattere sindacale NON HA NULLA A CHE VEDERE CON LA “SPECIALITA’” DEL SERVIZIO, NE’ CON LA COESIONE INTERNA E LA NEUTRALITA’ DELL’ORDINAMENTO MILITARE …. Si può tranquillamente affermare che mentre il Consiglio di Stato, con la questione di legittimità costituzionale sollevata, ha motivato le ragioni giuridiche dell’incostituzionalità dell’art. 8, 1° co. L. n. 382 cit., la Corte Costituzionale si è sottratta ai suoi compiti, ricorrendo, per giustificare la propria decisione, a ragioni che giuridiche non sono” (Prof. S. Riondato). La Corte, negando ai militari il diritto di costituire associazioni professionali, ha creato le condizioni affinché “i valori della disciplina e della gerarchia si avvantaggino di un eccesso di tutela in danno delle libertà fondamentali e della stessa democraticità dell’Ordinamento delle FF.AA.”; circostanza che la stessa Corte, in altra occasione, aveva inteso scongiurare, probabilmente perché foriera di pericoli di diversa natura. Una cosa è vietare l’esercizio del diritto di sciopero, ben altra cosa è vietare l’esercizio del diritto di costituire associazioni professionali.
Se è fuor di dubbio che il primo diritto, se
abusato, potrebbe incidere sulla coesione
interna e neutralità dell’ordinamento militare,
non si può escludere che la negazione del
secondo, non stia già incidendo sul concetto di
giustizia e legalità, influenzando i principi di
efficienza, trasparenza e buon andamento di così
vitali apparati dello Stato. 2. Il superamento del monopolio della Corte Costituzionale sul sindacato delle leggi nazionali La legittimità del divieto imposto ai militari di costituire associazioni professionali, di cui al paragrafo precedente, fortunatamente, è storia passata, in quanto superata dalla normativa europea. Nell’anno 2001, infatti, una riforma costituzionale ha stabilito che “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario” (art. 117, 1°comma, Cost.). Da allora, il diritto europeo ha acquisito una forza sempre più penetrante rispetto alle fonti nazionali. Alle fonti comunitarie, infatti, è stata riconosciuta una efficacia tale da prevalere non solo sulle leggi interne, ma anche sulle norme nazionali di rango costituzionale, mediante la diretta applicazione da parte dei giudici comuni. Una tale intrusione del diritto ultranazionale nell’ordinamento giuridico dei singoli Paesi membri ha modificato la collocazione gerarchica delle fonti normative, ma soprattutto l’equilibrio dei poteri di controllo sulle leggi nazionali. Si è aperta per il giudice nazionale comune la possibilità di sbrigliarsi dal giogo della Corte Costituzionale con la possibilità di disapplicare le leggi nazionali che sono in contrasto con il diritto comunitario. Cosa che qualche decennio fa era impossibile, a causa del disposto dell’art. 134 Costituzione. La vera svolta, però, è avvenuta il 01 dicembre 2009, quando è entrato in vigore il Trattato di Lisbona. Il Trattato di Lisbona ha recato importanti modifiche all’art. 6 del Trattato dell’Unione europea sul rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini europei. Il primo paragrafo del Trattato di Lisbona riguarda la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (c.d. Carta di Nizza). In particolare al par. 1 si afferma che: “L'Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea del 7 dicembre 2000, adottata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati”. E’ a tutti evidente il diverso valore giuridico che viene ad assumere la Carta di Nizza a seguito dell’entrata in vigore del trattato di Lisbona, il quale ha rafforzato la tutela all’interno dei singoli Paesi dei diritti fondamentali, attribuendo alla Carta di Nizza il medesimo valore giuridico dei trattati. La carta di Nizza, acquisendo “lo stesso valore giuridico dei trattati”, diviene diritto comunitario e comporta tutte le conseguenze, in termini di prevalenza sugli ordinamenti nazionali. In altre parole, a seguito del Trattato di Lisbona, una legge interna che contrasta con una norma della Carta di Nizza ben potrà essere disapplicata dal giudice comune nazionale; il quale è, pertanto, tenuto a dare applicazione diretta al diritto dell’Unione, di cui sospetta il contrasto con un diritto fondamentale, sancito sia nella CEDU che nella Carta di Nizza, in base al principio, fondato sull’art. 11 Cost. secondo cui “le norme di diritto comunitario sono direttamente operanti nell’ordinamento interno”. L’ovvia conseguenza di questa rivoluzione copernicana è l’ampliamento sia della libertà di manovra dei giudici comuni nazionali che del patrimonio dei diritti dei singoli cittadini europei. A seguito di tale modifica, che ha spostato in avanti i confini dei giudici nazionali, le prese di posizione da parte della giurisprudenza dei singoli Paesi membri non si sono fatte attendere. Il Consiglio di Stato, sez. IV, nella sentenza nr. 1220/2010, per esempio, ha affermato che, le disposizioni della CEDU sono “divenute direttamente applicabili nel sistema nazionale”. L’affermazione, è stata ripresa ed amplificata dalla giurisprudenza successiva di alcuni TAR. Il TAR Lazio, sez. II, per esempio, in una rivoluzionaria sentenza, la nr. 11984/2010, ha affermato che “fra le più rilevanti novità correlate all’entrata in vigore del Trattato [di Lisbona], vi è l’adesione dell’Unione alla CEDU”, cui va ad aggiungersi la riformulazione della disposizione per cui i diritti fondamentali, quali garantiti dalla CEDU e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, “fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali” (art. 6, par. 3, TUE). Ne deriva, a mente del TAR Lazio, che “le norme della Convenzione divengono immediatamente operanti negli ordinamenti nazionali degli Stati (…), e quindi nel nostro ordinamento nazionale, in forza del diritto comunitario, e quindi in Italia ai sensi dell’art. 11 della Costituzione”. Lo stesso TAR conclude, affermando che al giudice comune si dà il potere “di procedere in via immediata e diretta alla disapplicazione (delle leggi statali contrastanti) in favore del diritto comunitario, previa eventuale pronuncia del giudice comunitario ma senza dover transitare per il filtro dell’accertamento della loro incostituzionalità sul piano interno”. Come se non bastasse, è giusto il caso di evidenziare che nei primi 18 mesi di vigenza del Trattato di Lisbona, si possono rinvenire almeno sessanta decisioni della Corte di Cassazione (sia civili che penali) che contengono un riferimento alla Carta di Nizza. Spiccano quelle in tema di danni da demansionamento. In esse si impone al giudice del rinvio di ispirarsi anche al principio consacrato dall’articolo 1 della Carta, a mente del quale “La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata”. Si badi bene, l’art. 1 della Carta non tratta in maniera diretta dei danni da demansionamento, eppure viene invocato. |