Come cambieranno i rapporti tra Polizia Giudiziaria e Pubblico Ministero nel disegno di legge Costituzionale nr. 4275 di riforma della Giustizia
Roma, 11 giu. - Pubblichiamo di seguito un approfondimento sulla riforma della giustizia, a cura di Cleto Iafrate.
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Negli ultimi mesi abbiamo assistito a durissimi scontri tra il potere politico e quello giudiziario, a volte sfociati in veri e propri attacchi rivolti da una parte della politica alla magistratura.
Dopo diversi annunci, infine, è arrivata la tanto attesa riforma epocale della giustizia. Essa è racchiusa nel disegno di legge costituzionale AC 4275, presentato il 07 aprile 2011 dal Presidente del Consiglio e dal Ministro della Giustizia.
La riforma ha lo scopo dichiarato di ammodernare le norme che regolano la giustizia. A tale fine, prevede la modifica di alcuni articoli della Costituzione, ritenuti non più attuali, tra i quali quello che regola il rapporto di dipendenza della polizia giudiziaria dal Pubblico Ministero.
Il testo vigente dell’art. 109 della Cost. sancisce: “L’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria”.
Il testo riformulato, invece, prevede: “Il giudice e il pubblico ministero dispongono della polizia giudiziaria secondo le modalità stabilite dalla legge”.
Com’è evidente, la modifica non è priva di conseguenze. Se la dipendenza dell’autorità giudiziaria dal pubblico ministero sarà filtrata con modalità da stabilirsi con legge, necessariamente ne deriverà il rischio di condizionamenti dell’azione penale da parte dell’esecutivo.
Il Pubblico Ministero oggi è indipendente dal potere politico e "soggetto soltanto alla legge", mentre il poliziotto - in particolare, quello militarmente organizzato - è un fedele servitore dello Stato che risponde agli ordini di un ministro.
La riforma prelude uno scenario in cui le polizie militari raccoglieranno la notizia di reato, faranno i primi accertamenti e le prime valutazioni, poi informeranno la catena gerarchica che deciderà quando e come informare il pubblico ministero.
In tali circostanze, gli elementi di prova verrebbero esaminati all’interno delle caserme, dove verrebbe deciso l'inizio dell’azione penale ed i tempi di comunicazione alle Procure.
Ci si chiede: lo “status militis” di una polizia giudiziaria non più alle dipendenze funzionali del PM è compatibile con l’obbligatorietà dell’azione penale?
Come noto, gli appartenenti alle forze di polizia militarmente organizzate sono inserite all’interno di una gerarchia il cui ultimo anello è il ministro a cui rispondono e da cui ricevono gli indirizzi operativi (non sono casuali motti del tipo “obbedir tacendo” oppure “nei secoli fedeli”).
Si consideri, inoltre, che la carriera ha un peso rilevante per i militari. Con ciò non si vuole sostenere che tutti i militari, se posti dinanzi all’eterno dilemma tra Dio e Mammona, deciderebbero di assumere posizioni prone per amore alla carriera; certamente molti, in caso di pressioni da parte dell’autorità politica, deciderebbero di rimanere con la schiena diritta.
E’ altrettanto vero, però, che questi ultimi potrebbero subire condizionamenti con diversi mezzi di persuasione: con i trasferimenti d’autorità, che possono avvenire per non meglio specificate “esigenze di servizio” e/o “di opportunità”; con le sanzioni disciplinari, svincolate dal principio di legalità e tassatività dell’illecito; con i giudizi annuali caratteristici, massima espressione di discrezionalità, che incidono pesantemente sulla carriera. In essi, anche un non meglio definito comportamento polemico può essere motivo di rilievo e/o nota di demerito, a prescindere dalla natura della polemica. Da ultimo, non per importanza, si consideri che da qualche anno è in atto una “strategia neoisolazionista” che cerca di allontanare i militari dalla società civile, attraverso la compressione dei pochi diritti che il Parlamento nel 1978 aveva loro riconosciuto.
Se ne riportano alcuni esempi eclatanti.
a. Lo scorso anno, con un atto emanato dal solo potere esecutivo, sono stati ridotti alcuni diritti che erano previsti da una legge ordinaria. Infatti, l’art. 9 della legge n. 382 del 1978 consentiva alla polizia giudiziaria militare di “manifestare pubblicamente il proprio pensiero, salvo che si tratti di argomenti a carattere riservato di interesse militare o di servizio per i quali deve essere ottenuta l’autorizzazione”. La norma è stata modificata dall’art. 1472 del D.Lgs 66/2010, a mente del quale la polizia giudiziaria militare può “manifestare pubblicamente il proprio pensiero, salvo che si tratti di argomenti a carattere riservato di interesse militare, di servizio O COLLEGATI AL SERVIZIO per i quali deve essere ottenuta l’autorizzazione”.
b. Sempre lo scorso anno, con l’interrogazione a risposta scritta n. 4/01824, si è chiesto al ministro di specificare i limiti alla libertà di espressione dei militari – l’autorità di governo ha riferito che “ai militari (compresi gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria appartenenti all’Arma dei Carabinieri ed al Corpo della G.di F.) può farsi carico d’un dovere di riservatezza ignoto al comune cittadino, ESSI DEBBONO ACCERTARSI DEL PENSIERO DEI SUPERIORI, CHIEDENDO L’AUTORIZZAZIONE AD ESPRIMERE IL PROPRIO”.
A fare da cornice ai punti precedenti, v’è la circostanza secondo la quale la polizia giudiziaria militare non ha un vero sindacato, ma una rappresentanza gerarchizzata, presieduta dal più alto in grado, che può trattare solamente determinati argomenti.
Non si può escludere che, a seguito della riforma, nelle occasioni meno gradite o imbarazzanti per il potere politico, l’obbligatorietà dell’azione penale possa venir sterilizzata dalla dipendenza gerarchica e funzionale della p.g. dall’esecutivo.
E’ certamente innegabile che anche oggi possono esserci delle pressioni sulla polizia giudiziaria, ma la sua dipendenza funzionale dal P.M., prevista dalla lungimirante Costituzione, rappresenta uno scudo che la pone al riparo dalle gerarchie e dai governi.
Nell’Assemblea Costituente il dibattito in merito alla dipendenza della polizia giudiziaria dal pubblico ministero fu ampio. Era ancora vivo il ricordo dell’esperienza del regime fascista e delle deportazioni di cui anche alcuni membri della stessa Assemblea avevano fatto esperienza in prima persona.