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Nel diritto penale, invece, il principio di legalità è fondamentale in
quanto impedisce che vi siano arbitrarie limitazioni alla libertà degli
individui. Esso, infatti, impone che “nessuno può essere punito per
un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla
legge, né con pene che non siano da essa stabilite” (art. 1 c.p.) e |
nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del
tempo in cui fu commesso, non costituiva reato (art. 2, I comma,
c.p. ed art. 25 Cost.). La riserva di
legge rappresenta la massima attuazione del principio di legalità.
Si parla di riserva di legge, quando una norma costituzionale
richiede che una determinata materia sia disciplinata in via
esclusiva dalla legge formale e/o da atti ad essa equiparati. In definitiva,
si può dire che il principio di legalità è lo strumento attraverso
il quale si realizzano i fini previsti dalle norme costituzionali
che impongono la riserva di legge. Ad esempio, l’art. 13 della
Costituzione, stabilendo che la libertà personale è inviolabile,
impone che “non è ammessa alcuna forma di detenzione … se non nei
casi e nei modi previsti dalla legge”. La circostanza secondo la
quale i reati e le relative pene sono previste dal codice penale –
adottato con legge – rappresenta il compimento del principio di
legalità che dà attuazione alla riserva di legge. Il principio
di legalità, conquistato con il sangue versato durante la
rivoluzione francese, trasformò, in cittadini, coloro che fino
allora erano dei sudditi. Purtroppo, però, la conquista non è per sempre, in quanto il principio è continuamente sotto attacco da parte del potere politico che non tollera intromissioni e limitazioni. Per esempio,
agli inizi del secolo scorso un autore (G. Maggiore) propose di
introdurre anche “la volontà del duce” nel nostro principio
di legalità, ad imitazione di quello hitleriano. Un altro
esempio più recente. Il difensore
del premier, nel suo intervento alla Corte costituzionale, nel
giudizio sulla legge Alfano, ha tentato di far passare una singolare
tesi, provocando la ferma risposta della Corte. Ha sostenuto che,
essendo ormai il Presidente del Consiglio “primus super pares”
e non più “ primus inter pares”, era pienamente giustificato
differenziare la sua posizione da quella degli altri membri del
Governo e, perciò, la legge Alfano non violava il principio di
eguaglianza.
Nella sentenza n. 262/2009, che ha
dichiarato illegittima la legge Alfano, fortunatamente, la Corte
costituzionale (al punto 7.3.2.3.1) ha smentito questa singolare
tesi, negando che, nel nostro sistema costituzionale, al Presidente
del Consiglio sia riconosciuta una posizione di preminenza nei
confronti dei ministri. In entrambi gli esempi citati, ma se ne possono fare tanti altri, la tecnica giuridica viene formalmente rispettata; nella sostanza, però, si è tentato di introdurre dei principi che, oltre ad essere paradossali ed assurdi, si pongono al di fuori ed in contrasto con l’ordinamento giuridico generale.
LA SECONDA
GENERAZIONE di diritti ha origine con la Dichiarazione universale
del 1948 e comprende i diritti di natura economica, sociale e
culturale, come, per esempio, il diritto all’istruzione, al lavoro,
alla casa, alla sicurezza sociale, alla tutela della salute,
eccetera. I diritti di seconda generazione, definiti anche “diritti positivi”, si ispirano a una filosofia che mette in risalto, al contrario di quella liberale, il dovere d'intervento dello Stato. Essi permettono di chiedere allo Stato non più un'astensione, ma un'azione positiva. In questo senso si parla di diritti di matrice socialista, contrapponendoli a quelli di matrice liberale della prima generazione.
LA TERZA
GENERAZIONE di diritti, invece, ricomprende i diritti di tipo
collettivo; significa che i destinatari non sono i singoli
individui, ma i popoli. Ecco quindi che si parla di diritto
all’autodeterminazione dei popoli, alla pace, allo sviluppo,
all’equilibrio ecologico, al controllo delle risorse nazionali, alla
difesa ambientale. Sono anche
definiti diritti di tipo solidaristico; vuol dire che ogni popolo ha
delle responsabilità nei confronti degli altri popoli, in
particolare, nei confronti di quelli che si trovano in situazioni di
difficoltà. Rientrano in questa generazione di diritti tutte le azioni a tutela delle categorie di individui ritenute particolarmente deboli ed esposte al pericolo di violazione dei loro diritti. Si tratta, in particolare, dei diritti dell’infanzia, dei diritti della donna e, perché no, anche dei diritti dei militari.
ALLA QUARTA
GENERAZIONE appartengono diritti caratterizzati dal fatto di essere
sempre più specifici (ossia definiti nei più piccoli particolari) e
di natura sempre più collettiva (cioè, non più indirizzati al
singolo ma all’intera comunità mondiale nel suo complesso). Alcuni di questi diritti derivano dalle nuove tecnologie (ad esempio, il diritto al consumo di cibi non geneticamente modificati, il diritto dei bambini che utilizzano internet); altri, invece, sono diritti già esistenti che si vogliono sempre più specificare nei minimi dettagli. Ad esempio il diritto all’etichettatura dei cibi, anche rispetto al Paese di provenienza ed alla tecnica di coltivazione, il diritto ad avere a tavola prodotti, che, oltre ad essere genuini, risultino appetibili anche dal punto di vista estetico.
2. Il riconoscimento di un diritto di quarta generazione
Un esempio di diritto di quarta generazione è dato dal Regolamento (CEE) N. 1677/88 (clicca qui per leggere il regolamento). Il regolamento, noto come regolamento dei cetrioli, è stato più volte, per così dire, “rimaneggiato”. Prima con regolamento (CE) n. 888/97 e, successivamente, con Regolamento (CE) 46/2003 – in G.U. 7 del 11/01/03 (pag. 61). Il Regolamento dei cetrioli stabilisce le norme di qualità per la commercializzazione in area euro dei cetrioli, imponendo il rispetto di criteri anche estetici, oltre che di qualità. Ciò al fine di creare standard europei comuni. Si distinguono, tanto per dire, la categoria extra-class dalla meno prestigiosa class II. In base al regolamento, i cetrioli, per essere commercializzati, non devono avere “difetti e deformazioni dovute allo sviluppo”; sono tollerati “lievi difetti della buccia dovuti allo strofinamento ed alla manipolazione” ed anche lievi incurvature, a condizione che “l’altezza minima dell'arco non superi i 10 mm per 10 cm di lunghezza”. Per esempio, il cetriolo mostrato in foto dalla bella ortolana, per forma e dimensione, non soddisfa i requisiti minimi tipizzati dal citato Regolamento e successive modifiche.
Questo cetriolo è fuorilegge per forma e
dimensione
Appare evidentemente troppo
storto ma, soprattutto, esageratamente sviluppato anche per
rientrare nella categoria “extra-class”: è un cetriolo
“fuorilegge” e nel caso venisse commercializzato in area euro,
verrebbe subito respinto. Il legislatore, in effetti, ha ritenuto che il diritto ad essere informati, prima dell’acquisto, circa le dimensioni massime raggiungibili dai cetrioli, dovrebbe contribuire al miglioramento delle condizioni di vita del cittadino europeo. Pur essendo un
garantista, ritengo che alcuni dei diritti di quarta generazione
siano superflui e perciò non
meritevoli di tutele. Mi chiedo, se il cetriolo, normalmente, si assume a fette, che bisogno c’è di porre un limite alle sue dimensioni? Eppure,
l’Europa ha ritenuto che anche l’aspetto esteriore del cetriolo sia
meritevole delle massime tutele da parte dell’ordinamento e vada
presidiato da norme di legge ad hoc. Il regolamento del cetriolo, nel tipizzare i requisiti dei cetrioli, rappresenta il compimento del principio di legalità, che attua la riserva di legge.
3. La violazione di un diritto di prima generazione. Introduzione al principio di supremazia speciale
Non tutti i cittadini europei, però, godono delle medesime tutele e garanzie da parte dell’ordinamento giuridico: alcuni hanno il diritto di conoscere addirittura quali siano le massime dimensione raggiungibili dal cetriolo che intendono acquistare; altri, invece, non hanno nemmeno il diritto di conoscere quali siano le infrazioni penalmente rilevanti che danno luogo a sanzioni restrittive della loro libertà personale.
Le sanzioni disciplinari militari si distinguono in sanzioni di Stato e
sanzioni di Corpo. Entrambe vengono inflitte dall’Autorità militare
in caso di violazione dei doveri attinenti alla disciplina da parte
dei militari, compresi gli appartenenti alle Forze di polizia
militarmente organizzate (Carabinieri e Guardia di Finanza). Le
sanzioni di Stato non si differenziano, sostanzialmente, dalle
corrispondenti sanzioni previste nel campo del pubblico impiego. Le sanzioni
disciplinari di Corpo, invece, sono tipicamente militari e
consistono nel richiamo, nel rimprovero, nella consegna semplice e
nella consegna di rigore.
La sanzione della consegna semplice consiste nel privare il militare
della libera uscita fino ad un periodo massimo di sette giorni
consecutivi (art. 1352, comma 1, D. Lgs
66/2010). La legge, nel
prevedere la sanzione di Corpo della consegna semplice, però, non
tipizza gli specifici comportamenti a causa dei quali la sanzione
può essere inflitta. Il legislatore, cioè, ha tipizzato il tipo di sanzione, ma ha omesso di tipizzare le violazioni che le stesse censurano. Ci si chiede:
la consegna semplice è una sanzione a carattere penale oppure una
sanzione di tipo amministrativo? Si ritiene che il precetto abbia rilevanza penale nei confronti di tutti i militari che fruiscono della libera uscita, ai sensi dell’art. 741 DPR 90/2010. Cioè, nei confronti delle seguenti categorie di militari: volontari in ferma prefissata (con meno di dodici mesi di servizio); allievi delle scuole, delle accademie e degli altri istituti di istruzione militare e rimanente personale in ferma che, pur non avendo l'obbligo dell'accasermamento, fruisce degli alloggiamenti di reparto o di unità navale. Per essi la sanzione si ritiene penalmente rilevante, in quanto l’afflittività della stessa (pena) è tale da ricomprendere il precetto violato tra le infrazioni aventi connotazioni penali. Mi spiego. Pur non negando che i reparti d’istruzione abbiano spazi interni molto ampi e confortevoli, non è certo facile dimostrare che l’atteggiamento psicologico e lo stato d’animo del militare consegnato (privato della libera uscita) sia molto diverso da quello di qualsiasi altro detenuto comune posto agli arresti domiciliari per essersi reso colpevole di reati ben più gravi.
Nei confronti,
invece, di tutte le altre categorie di militari, la sanzione
disciplinare della consegna si atteggia come una species del
genus sanzione amministrativa.
Sia che si tratti di sanzione di tipo
penale che a carattere amministrativo, si ritiene che la sanzione
della consegna sia in contrasto con il principio di legalità
e violi il principio di imparzialità e buon andamento della pubblica
amministrazione.
La norma, infatti, nell’affermare che “costituisce
illecito disciplinare ogni violazione dei doveri del servizio e
della disciplina militare sanciti dal presente codice, dal
regolamento, o conseguenti all'emanazione di un ordine” è
estremamente generica, potendosi riferire a tutte le mancanze
previste dal codice di disciplina.
Non soddisfa e non convince la precisazione di cui al successivo art.
1361 del citato D.Lgs, a mente del quale “Con la consegna sono
punite:
a) la violazione dei doveri
diversi da quelli previsti dall'articolo 751 del regolamento;
b) la recidiva nelle mancanze;
c) più gravi trasgressioni
alle norme della disciplina e del servizio.” Non c’è dubbio che la scelta di locuzioni linguistiche quali “violazione dei doveri”, “recidiva nelle mancanze” e “gravi trasgressioni alle norme della disciplina e del servizio”, si prestano, a causa della loro indeterminatezza, alle più disparate elusioni dei fondamentali diritti del militare.
Per avere
un’idea circa la genericità della norma penale/amministrativa, si
consideri che tra i doveri del militare vi è anche quello di
“avere cura particolare dell'uniforme e
indossarla con decoro” (Art. 720 comma 4 del DPR 15 marzo 2010,
n. 90 - Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di
ordinamento militare); di curare il suo aspetto esteriore, che “deve
essere decoroso come richiede la dignità della sua condizione”
(art. 721 DPR citato); di “tenere in ogni circostanza condotta
esemplare”; di “improntare il proprio contegno al rispetto
delle norme che regolano la civile convivenza”; di “astenersi
dal compiere azioni e dal pronunciare imprecazioni, parole e
discorsi non confacenti alla dignità e al decoro” (art. 732). Le
norme di tratto, invece, prevedono che “la correttezza nel tratto
costituisce preciso dovere del militare” (Art. 733). Le norme
denominate “senso dell'ordine”, impongono al militare di “compiere
ogni operazione con le prescritte modalità, assegnare un posto per
ogni oggetto, tenere ogni cosa nel luogo stabilito” (Art.
734). Sembrerebbe
quindi che, il compiere un’azione non con le prescritte modalità –
oppure, tenere un oggetto fuori posto, avere l’uniforme in disordine
oppure le scarpe sporche - costituisca “violazione dei doveri
militari” che può essere punita con la sanzione della consegna
semplice. Considerata la
genericità della norma attinente all’aspetto esteriore, addirittura
l’avere il “collo peloso” potrebbe dar luogo a sanzione. Si consideri che ad un livello troppo alto di testosterone - ormone sessuale maschile che regola la distribuzione e l’intensità di crescita della peluria (anche sul collo) – corrisponde una crescita più rapida dei peli.
Ebbene, ci si
chiede: Può il testosterone essere elevato a parametro per la
comminazione di una sanzione restrittiva della capacità di
autodeterminazione del militare che fruisce della libera uscita? Può esserlo la
polverosità della strada che conduce alla caserma? E’ a tutti
evidente che la norma che prevede la sanzione della consegna si
atteggia come un contenitore all’interno del quale ci può rientrare
di tutto, ma proprio tutto.
Stando così le cose, il militare non è posto in grado di conoscere
preventivamente i comportamenti punibili con la sanzione della
consegna. All'Amministrazione, invece, viene attribuita la più ampia
discrezionalità nello stabilire in relazione a quali illeciti
infliggere la sanzione. Il potere disciplinare risulta dilatato in
misura difficilmente sindacabile anche in sede di tutela
giurisdizionale. A tal proposito si consideri, per ipotesi, il caso
in cui una soldatessa voglia denunciare un suo istruttore per
molestie e pressioni attraverso l’abuso di strumenti di correzione
disciplinare. Ci si chiede: in assenza di una tipizzazione delle
infrazioni per cui può essere irrogata la sanzione disciplinare,
come può la soldatessa argomentare le sue accuse? Di contro, come
può l’istruttore sostenere le sue difese?
I fatti che stanno emergendo nel corso delle indagini per
l'omicidio della povera Melania Rea ne sono, ahimè, una triste
conseguenza. Al fine di
chiarire il concetto della sconfinata discrezionalità di cui dispone
l’Amministrazione, riporto due casi veramente accaduti. Da fonte
ANSA ed APCOM, datate 17 novembre 2010, si è appreso che un militare
italiano, impegnato in Afghanistan, è stato sanzionato con sette
giorni di consegna “per aver lasciato il suo posto branda in
disordine”. In data 06
giugno 2011, si è appreso (da fonte Grnet.it), che un sottufficiale
è stato sanzionato disciplinarmente con la consegna per aver
consumato un rapporto sessuale con la propria fidanzata (altro
effetto di un testosterone troppo alto; che, comunque, non può e non
deve avere una valenza penale, almeno, se rimane entro questi
limiti). Sembrerebbe
che il militare in questione si fosse sentito male durante il
servizio ed un ufficiale medico, dopo averlo sottoposto a visita,
gli avesse prescritto una cura, nonché la raccomandazione di
astenersi dall’avere rapporti sessuali per un certo tempo. Alla
visita di controllo successiva, il militare avrebbe ammesso di avere
intrattenuto un rapporto sessuale con la fidanzata che era andata a
trovarlo durante la degenza. Quindi è stato punito con la seguente
motivazione: «Nonostante gli fosse raccomandato riposo … e specie
l’astensione assoluta da attività traumatiche di qualsiasi genere,
il sottufficiale di cui sopra non si atteneva alle prescrizioni
mediche ricevute. Con il suo comportamento, è venuto meno agli
articoli 717, 718 e 729 (senso di responsabilità, formazione
militare e esecuzione di ordini) del Testo Unico delle disposizioni
regolamentari in materia di Ordinamento Militare». Pare che la
discrezionalità dell’Amministrazione militare non si limiti ad
accertare solamente come vengono ripiegate le lenzuola ma,
addirittura, pretenda di sindacare anche cosa vi accade sotto!
La sanzione della consegna non ha una esclusiva rilevanza interna,
come alcuni sostengono, è giusto il caso di ricordare che essa viene
annotata nella documentazione personale; pertanto ha devastanti
effetti sulla carriera del militare ed incide negativamente
sull’assegnazione degli incarichi, sui trasferimenti, sull’esito dei
concorsi interni, sulla concessione delle ricompense,
sull’autorizzazione al NOS. La sanzione coinvolge anche la sfera
personale del militare: ha effetti sulla sua autostima e sui suoi
rapporti con gli altri militari. Si tenga a mente, inoltre, che ai
sensi dell’art. 751 punto 33) del DPR
90/2010 “l’inosservanza ripetuta delle norme attinenti
all'aspetto esteriore o al corretto uso dell'uniforme” (articoli
720 e 721) sono valutate per la comminazione della consegna di
rigore. Inoltre, tra le cause di cessazione dal servizio
permanente, si annoverano “le gravi e reiterati mancanze
disciplinari che siano state oggetto di consegna di rigore (art. 12,
2° comma, lettera c L. 1168/1961)”. Quindi la sanzione, oltre ad
incidere pesantemente sulla carriera del militare, può portare
anche alla risoluzione del suo rapporto di lavoro, con le
immaginabili conseguenze in termini patrimoniali. Tale incidenza non
può essere negata neppure nel caso in cui le predette annotazioni, a
seguito di specifica istanza dell’interessato, vengano eliminate
dalla documentazione personale dopo due anni di buona condotta. Va
osservato, infatti, che l’eliminazione non ha effetto retroattivo ed
avviene previo parere conforme del superiore. Si ritiene,
visto che in gioco vi sono dei diritti soggettivi, che debbano
essere meglio tipizzate le infrazioni punibili con la sanzione della
consegna. A tal proposito, sono scarsamente condivisibili e destituite di ogni fondamento le osservazioni di chi, soprattutto in ambienti interni all’Amministrazione militare, ritiene che sia impossibile tipizzare tutto. Basti solo
considerare che esistono, perfino, delle leggi specifiche (ad hoc)
che disciplinano la tipologia dei vini d.o.c., a presidio della loro
qualità. Si è visto che
in Europa vige un regolamento che tipizza, addirittura, i cetrioli e
vieta la commercializzazione di quelli troppo sviluppati. Non si
comprende per quale motivo in Italia si dovrebbero lasciare vaganti
“cetrioli” di simili dimensioni? (Si ribadisce che la consegna,
incidendo sulla posizione di Stato del militare, può determinare la
sua cessazione dal servizio, oltre ad incidere pesantemente sulla
sua carriera). E’ a tutti evidente l’incommensurabilità dei due interessi tutelati: cioè la protezione di un bene alimentare e commerciale (cetrioli e vino) e la tutela di beni personali ed intrasmissibili (libertà personale e diritto alla giusta retribuzione). I secondi esigono il rispetto della riserva assoluta di legge, del principio di legalità e di tassatività dell’illecito.
Atteso che i diritti di prima generazione costituiscono, sin dal 1789,
i pilastri di qualsiasi ordinamento giuridico civile, ci si chiede:
Come sia possibile che l’ordinamento militare italiano contenga così
ampie deroghe a tali basilari principi costituzionali? Si ritiene che ciò sia possibile in quanto l’Ordinamento militare si fonda su principi preesistenti allo Stato di diritto, ereditati dalla tradizione e dalla consuetudine, che lo Stato non ha potuto fare altro che riconoscere, in nome di una pretesa supremazia speciale, che ha consentito (e consente) di derogare alle regole dell’ordinamento giuridico statuale.
4. Le origini della regola dell’onore posta alla base del principio di supremazia speciale
Sembrerebbe che esistano due ordinamenti: uno
statuale, ispirato ai principi costituzionali ed uno speciale,
annidato in seno al primo, che deroga ad essi. Il secondo si fonda
sui canoni tradizionali propri di uno Stato assoluto, in virtù di
una pretesa supremazia speciale, che gli consente di
smarcarsi dal principio di legalità e di riserva assoluta di legge
in materia di diritti soggettivi. A tal proposito, è giusto il caso di ricordare che:
1.
i giudizi annuali caratteristici, da cui dipende la carriera
del militare, pur incidendo anch’essi su diritti soggettivi,
derogano ampiamente alla riserva di legge ed al principio di
legalità;
2.
gli elogi ed encomi, inoltre, che rappresentano una potente
spinta propulsiva per la carriera, vengono concessi con la massima
discrezionalità;
3.
i trasferimenti di reparto ed i cambi d’incarico all’interno
dello stesso reparto si tenta di farli rientrare nella species
degli ordini; significa che i trasferimenti possono avvenire anche
per non meglio specificate esigenze di servizio (in barba alla legge
sulla trasparenza amministrativa); 4. per di più, si consideri che - ai militari, compresi gli appartenenti alle forze di polizia militare, sono stati negati i diritti sindacali - in virtù della tutela della coesione interna, dell’efficienza e dell’apoliticità delle FF.AA.. (La rappresentanza militare ha solo un potere propositivo e, per giunta, in merito a limitati argomenti, che sono, in questo caso, rigorosamente tipizzati. Essa è interna all’Amministrazione e gerarchizzata. Usando una metafora, può essere definita come “una porta dipinta su di una parete in cemento armato”).
Ebbene,
l’ordinamento speciale è riuscito fino ad oggi a rimanere
impermeabile al principio di legalità in virtù della “Regola
dell’onore militare”, la quale ha consentito e giustificato le
derogano ai principi su cui si basa l’ordinamento generale.
L’onore
militare può definirsi una qualità etico-psicologica, espressione
di tutte quelle virtù caratteriali - quali onestà, lealtà,
rettitudine, fedeltà, giustizia, imparzialità - che procurano la
stima altrui e che sono dal militare gelosamente detenute e
custodite, nell’intimo convincimento della necessità di mantenerle
integre. Il possesso di
tali virtù, storicamente, ha rappresentato una prerogativa assoluta
propria dello status militis. La conseguenza di questa
convinzione, imposta legalmente dalla consuetudine, legittimava il
Capo militare a gestire autonomamente, all’interno del comparto
militare, i tre poteri: giudiziario, legislativo ed esecutivo. Le
sue decisioni erano inappellabili, emanava i regolamenti, infliggeva
le punizioni, anche di tipo corporale. Le origini della regola dell’onore si perdono nella notte dei tempi e sono riconducibili al particolare significato che, anticamente, veniva dato al giuramento militare.
Da questa atmosfera, ammantata di
sacralità e di rinnovata purezza, trovò facile accoglienza la regola
dell’onore militare, su cui si fonda il principio di supremazia
speciale, che ancora oggi, anacronisticamente, sopravvive in tutte
quelle norme che derogano ai principi dell’ordinamento generale. In altre parole, il principio di supremazia speciale si fonda su un ragionamento molto semplice: “Poiché io sono dotato di senso dell’onore la mia volontà costituisce principio di legalità (all’interno del comparto militare); quindi posso decidere, di volta in volta, quali sono le infrazioni che danno luogo alle punizioni; posso decidere chi trasferire, chi punire e chi ricompensare con encomi ed elogi. Tu legislatore - all’interno di questa “insula felix” in cui il principio di legalità non ha mai trovato approdo - non puoi e non devi porre argini alla mia discrezionalità”. E’ proprio dalla regola dell’onore che deriva la consuetudine, nei rapporti epistolari tra ufficiali di grado elevato, di anteporre al grado ed al nome il titolo di “N.H. il” (in cui N.H. non è il gruppo sanguigno ma l’abbreviazione di Nobil Homo). E’ una qualità effettivamente meritata dalla maggior parte degli appartenenti alla categoria degli ufficiali, ma non può essere la prerogativa di tutti gli appartenenti a quella categoria. Sul punto ci tornerò nelle conclusione.
5. Considerazioni dell’autore e conclusioni
La circostanza secondo cui la regola dell’onore, all’interno
dell’ordinamento speciale, occupi il posto che nell’ordinamento
generale è occupato dal principio di legalità, incide sul concetto
di obbedienza militare, modificandone i connotati. L’obbedienza -
definita nel precedente regolamento “assoluta” ed in quello
vigente “leale e consapevole”– nella sostanza si rivela “ASSOLUTA(-mente)
conveniente ed opportuna”. Cioè, nella sostanza subisce
una mutazione genetica a causa del peso che esercita la disciplina
militare sulla volontà di chi è preposto ad eseguire gli ordini. Mi spiego. Se, per ipotesi, un militare decidesse (oggi) di non eseguire un
ordine costituente reato - che il superiore gli ha impartito in un
momento di smarrimento del senso dell’onore - che garanzie avrebbe
il militare (domani) che quel superiore non lo sorprenda in
flagranza di reato di “collo peloso” oppure di “branda in
disordine”? Non lo valuti negativamente in occasione della
redazione dei giudizi annuali caratteristici, compromettendo, così,
la sua carriera? Non lo avvicendi nell’incarico, oppure non lo
trasferisca, con una formula di stile? Non è appagante, nemmeno, il rimedio offerto dall’ordinamento speciale al
militare che si trovasse nelle circostanze sopra descritte: “Il
militare al quale è impartito un ordine … la cui esecuzione
costituisce manifestatamente reato, ha il dovere di non eseguire
l’ordine ed informare al più presto i superiori” (art. 729,
comma 2, D.P.R. 90/2010); piuttosto che rivolgersi ad un
sindacato esterno ed imparziale. (E’ come imporre a
cappuccetto rosso di rivolgersi ad un altro lupo più saggio e più
canuto, piuttosto che al cacciatore. - Il personaggio della favola
avrebbe continuato a vivere felice e contento?). Il rimedio
offerto dall’ordinamento speciale può essere efficace o meno, in
ragione dalla posizione che occupa l’anello della catena gerarchica
che “smarrisce il senso dell’onore”. Se, per ipotesi, un finanziere,
prima che scoppiasse lo scandalo dei petroli, si fosse recato presso
i massimi vertici della G. di F. per informarli circa alcuni suoi
sospetti, quel finanziere, probabilmente, da quel momento, avrebbe
corso il rischio di iniziare a vivere “infelice e scontento”
all’interno del Corpo. Un’obbedienza, resa assoluta da una discrezionalità sconfinata e da
una disciplina svincolata dal principio di
legalità, certamente, non rappresenta un problema per il
poliziotto-militare. Quest’ultimo, infatti,
quando riceverà un qualsiasi ordine, sarà
indotto (dalle norme dell’Ordinamento speciale) a fare sempre la
cosa giusta per tutelare se stesso, il suo posto di lavoro, la sua
carriera e la sua serenità; ponendo su di un piano
teorico le regole dell’ordinamento statuale e su di un piano pratico
le richieste provenienti dall’ordinamento speciale e derogatorio. Giunti a questo punto, ci si chiede: Una polizia
militare, separata dallo Stato e posta al di fuori della sua logica,
può garantire il libero articolarsi della dialettica democratica,
attraverso cui si stabiliscono i fini dello Stato? La democrazia è esente da rischi e minacce? La risposta è semplice ed, allo stesso tempo, complessa. Poiché
l’ordinamento dei Corpi militari si basa sulla presunzione della
sussistenza del senso dell’onore all’interno della gerarchia, si
ritiene che lo Stato democratico sia esente da rischi e minacce fino
a quando sarà verificata quella presunzione, cioè fino a prova
contraria. Nel momento in cui dovesse venire a mancare il senso
dell’onore, non si possono escludere rischi e minacce, che saranno
tanto più gravi quanto più di vertice è la posizione di chi tradisce.
Il tradimento, a causa dell’enorme discrezionalità detenuta dalla
gerarchia, provoca un pericoloso effetto domino verso il basso, una
specie di “corto circuito”. Si consideri che i 180 mila poliziotti militari,
oltre a detenere il monopolio della forza armata, detengono enormi
poteri investigativi, possono accedere a dati sensibili, hanno
poteri di indirizzo delle indagini e strumenti sofisticati per
condurle. Nel corso di tali indagini, che, ultimamente, sempre più
spesso riguardano anche esponenti del mondo della politica e
dell’imprenditoria, i poliziotti militari hanno il compito di
individuare e seguire le piste che portano alla verità dei fatti,
allo scopo di ridurre al minimo lo scarto tra verità storiche e
verità processuali. Il fatto che le forze di polizia militari siano
totalmente in grado di intendere e limitatamente in grado di volere,
a causa della sconfinata discrezionalità esercitata su di esse
dall’autorità amministrativa (governativa), ha una qualche incidenza
sullo scarto tra le verità storiche e quelle processuali? Si considerino i casi in cui l’obbedienza militare entri in conflitto con le norme statuali, per esempio con la tutela del segreto istruttorio. In questo caso, quale ordinamento prevale, quello statuale informato ai principi costituzionali oppure quello speciale che deroga ad essi e pretende di imporsi sul primo in virtù di una pretesa supremazia speciale? Bel dilemma!
Il mito dell’apoliticità delle forze di polizia - come è stato
tradizionalmente impostato - appare una semplice illusione e
nasconde delle chiare scelte politiche che si sostanziano nella
necessità di subordinare la polizia militare, non tanto alla difesa
dei valori costituzionali, quanto piuttosto alle esigenze perseguite,
attraverso l’apparato esecutivo, dai gruppi più forti presenti nella
realtà civile e sociale del Paese. La tutela
della coesione della compagine militare deve avvenire all’interno
dei principi di garanzia stabiliti dalla Costituzione e non al di
fuori di questi. Altrimenti la disciplina, da semplice strumento di
salvaguardia degli interessi dello Stato, diventa essa stessa un
valore da difendere, cioè diventa il fine, rischiando, così, di
compromettere proprio quegli interessi dello Stato che bisogna
difendere. A tal proposito, si consideri
che nel regolamento di disciplina militare entrato in vigore l’1
gennaio 1860 (approvato con R.D. 30 ottobre 1859), per la prima
volta nella storia dei regolamenti militari, viene inserita una
premessa introduttiva. In essa si afferma che l’esercito viene
istituito prima per “per sorreggere il trono” che per “tutelare
le leggi e le istituzioni nazionali” (una copia dell’edizione
originale è reperibile presso la biblioteca dell’istituto geografico
militare di Firenze). Probabilmente, molti dei tentativi di limitare, in tempo di pace, i diritti costituzionali dei militari, in nome della tutela della compagine interna, dell’efficienza e dell’apoliticità delle Forze Armate e di polizia, sono poco sinceri ed, a volte, ispirati a secondi fini.
E’ innegabile che la vita militare ed
il particolare addestramento, in cui viene esaltato il
coraggio e l’omor di Patria, sviluppino effettivamente tutte quelle
virtù (onestà, lealtà, rettitudine, fedeltà, giustizia,
imparzialità), altrimenti definite “senso dell’onore”; tali virtù,
però, vanno custodite con delle leggi ad hoc che rafforzino
la volontà di chi le detiene, altrimenti rischiano di frantumarsi
sotto l’incidenza di un potere politico sempre più intrusivo, che
seduce e si lascia sedurre. I militari sono anche uomini con tutte le loro debolezze umane. Con il giuramento certamente si impegnano; ma dal giuramento non ricevono alcun supplemento di purezza. Si impone,
pertanto, un esame di coscienza ed un ripensamento dell’intero
Ordinamento militare. E’ necessario distinguere il tempo di guerra,
in cui si fronteggiano due eserciti appartenenti a due distinte
Nazioni, dal tempo di pace in cui a fronteggiarsi, spesso, sono
diverse correnti politiche, che appartengono alla stessa Nazione.
E’ necessario che anche l’ordinamento militare venga informato al principio di legalità ed alla riserva di legge come prevede l’art. 52 della Costituzione e, soprattutto, che vengano riconosciute ai militari tutte le tutele sindacali. Gli organismi di rappresentanza dovrebbero poter negoziare su tutte le tematiche (impiego, avanzamento, mobilità, ricompense, disciplina, giudizi caratteristici, benessere del personale, alloggi, previdenza complementare, eccetera), ad eccezione di una: il trattamento economico - per volontà dell’unico Signore che, certamente, detiene un supplemento di purezza: “Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi, che cosa dobbiamo fare? … accontentatevi delle vostre paghe»” Lc 3, 10-14 (su quest’ultimo punto, probabilmente, sarà d’accordo anche l’attuale Ministro delle Finanze).
di Cleto Iafrate Associazione civica FICIESSE
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