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Il punto è un altro. Il mancato riconoscimento di una concreta tutela sindacale per i militari si ripercuote direttamente sul concetto di obbedienza militare, fino a provocarne una mutazione genetica. L’obbedienza - definita “ASSOLUTA” nel precedente regolamento e “leale e consapevole” in quello vigente - diventa, a causa dell’assenza di tutele |
DIRITTI DEI MILITARI: SILLOGISMI ENTIMEMATICI ED INACCETTABILI SEPARATEZZE
DIRITTI DEI MILITARI: SILLOGISMI ENTIMEMATICI ED INACCETTABILI SEPARATEZZE
di Cleto IAFRATE ROMA, 10 NOV. 2011 - SOMMARIO: 1. Introduzione – 2. La legge di principio sulla disciplina militare – 3. Il Regolamento di Attuazione della Rappresentanza Militare (RARM) – 4. Conclusioni “... La polizia giudiziaria militarmente organizzata è come una ‘stella polare’ per l’autorità giudiziaria, con la sua luce consente al magistrato di orientarsi nelle indagini; essa deve poter continuare a brillare anche quando le indagini conducono a ‘menti sopraffine’…” 1. Introduzione È noto come il nostro ordinamento giuridico sia ispirato al principio della libertà di organizzazione sindacale. Le organizzazioni sindacali sono inquadrabili in quelle formazioni sociali di cui parla l'art. 2 della Costituzione, all'interno delle quali la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo. L’art. 39 della nostra Costituzione ha dato la possibilità a tutti i lavoratori di riunirsi in liberi sindacati. Tali organi hanno il compito di rappresentare i loro iscritti nella stipula di contratti collettivi di lavoro e, a tal fine, essi possono ottenere il riconoscimento della personalità giuridica. Com’è noto, però, per condurre con efficacia qualsiasi trattativa, che interessi gli iscritti ad un sindacato, è necessario che allo stesso sia riconosciuto un ruolo negoziale di contrattazione ed abbia un ordinamento interno a base democratica. Solo in questo modo, si può giungere alla stipula di accordi ed ottenere concessioni con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alla categoria dei lavoratori di un determinato settore. La legge di principio sulla disciplina militare ha istituito degli organi particolari, detti di "rappresentanza". Essi furono presentati come un'importante innovazione che avrebbe dovuto "informare" l’ordinamento militare ai principi costituzionali in materia di tutela del lavoro e realizzare l’avvicinamento delle Forze armate allo "spirito democratico" della Repubblica. Gli organismi di rappresentanza militare furono immaginati in "funzione sostitutiva rispetto alla negata libertà sindacale". Nelle intenzioni del legislatore del 1978, tali gli organi avrebbero dovuto, parallelamente alla linea gerarchica, realizzare un insieme di istanze, pareri e richieste che dalla base sarebbero confluite verso il Parlamento, attraverso i vertici delle Forze armate, per favorire "lo spirito di partecipazione e collaborazione e mantenere elevate le condizioni morali e materiali del personale militare nel superiore interesse delle Istituzioni". L'applicazione pratica dell'istituto della rappresentanza militare, però, è risultata molto difficoltosa. Nel concepire tali organi, il legislatore ordinario ha partorito una legge “zoppa”. Ma v'è di più: il legislatore regolamentare, nel “travasare” i principi sanciti dalla legge all’interno del regolamento di attuazione, sembra essersi munito di un “recipiente incapiente” poiché, a causa delle ulteriori limitazioni, ha finito per compromettere definitivamente il funzionamento di tali organi. 2. La legge di principio sulla disciplina militare La legge di principio sulla disciplina militare è la legge 382/78, essa è stata accolta, unitamente ad altre leggi ordinarie, in un unico testo normativo: il Codice dell’Ordinamento Militare (D.Lgs. 15 marzo 2010, n. 66) (per un approfondimento sul punto, vedi “Nuovo Codice dell’Ordinamento militare, nostalgie dei tempi del Generale Pes di Villamarina”, pubblicazione online). La norma più controversa della legge di principio sulla disciplina militare, a mio parere, è il primo comma dell'art. 3 della L. 382/78 (recepito dall’art. 1465 del Codice dell’Ordinamento Militare). Tale norma è assai simile a un sillogismo, cosiddetto “entimematico”; questo tipo di sillogismo è un ragionamento logico - deduttivo in cui è taciuta una delle premesse. L’articolo, infatti, si compone di una premessa implicita (a tutti i cittadini la Costituzione riconosce certi diritti), di una esplicita (ai militari spettano i diritti che la Costituzione della Repubblica riconosce ai cittadini) e di una conclusione (la legge impone ai militari limitazioni nell'esercizio di alcuni di tali diritti). Il sillogismo, però, è contrario a ogni logica aristotelica, in quanto la conclusione è antitetica alle premesse. E’ del tutto evidente che le due premesse non possono convivere insieme alla conclusione, per cui o si accettano le premesse oppure la conclusione. Il legislatore, purtroppo, negli altri articoli della legge non si è informato alle premesse. Conformarsi alle premesse avrebbe significato prevedere solo delle limitazioni di carattere esecutivo e tecnico, tese a garantire che le legittime aspettative dei militari si affievolissero solamente di fronte al rischio concreto di minacce al superiore interesse dello Stato e alla conservazione dell'ordine pubblico e della sicurezza nazionale (così com’è stato fatto, ad esempio, con la normativa che regola il funzionamento dei servizi pubblici essenziali). Il legislatore, invece, ha stabilito un divieto assoluto per i militari di “costituire associazioni professionali a carattere sindacale (ed) aderire ad altre associazioni sindacali" (art. 1475, II comma, del Codice dell’Ordinamento, già art. 8, II comma, L. 382/78). Nelle successive norme, inoltre, il legislatore ha continuato a mostrarsi molto attento a rimarcare i limiti e poco preoccupato a incentivare la portata delle competenze e delle attribuzioni degli organi di rappresentanza. Pertanto, molto ristrette sono le competenze di tali organi. Il legislatore, infatti, ha distinto le materie di cui può occuparsi la rappresentanza, da quelle nelle quali gli organi di rappresentanza non hanno alcuna voce in capitolo. Tra le prime figurano le attività assistenziali, culturali, ricreative e di promozione sociale; l’organizzazione delle sale convegno e delle mense; le condizioni igienico – sanitarie e gli alloggi. Le materie, invece, di cui la rappresentanza militare non può occuparsi sono: l'ordinamento, l'addestramento, le operazioni, il settore logistico operativo, il rapporto gerarchico - funzionale e l'impiego del personale. I limiti di tali organismi, però, non emergono solamente dalla ristrettezza delle materie di cui essi possono occuparsi, ma anche dal fatto che nemmeno nelle materie di loro competenza essi hanno un ruolo che va al di là della semplice possibilità di formulare pareri, proposte e richieste, non vincolanti. Ad onor del vero, una norma successiva (il D.lgs. 195/95) ha riconosciuto al COCER un ruolo di concertazione, nella sostanza, però, non è cambiato nulla, nel senso che concertare non equivale a negoziare; pertanto i COCER continuano a subire la volontà della controparte in occasione di ogni rinnovo contrattuale. 3. Il Regolamento di Attuazione della Rappresentanza Militare (RARM) Il Regolamento di Attuazione della Rappresentanza Militare (RARM), emanato con DPR 691/1979, è stato accolto, unitamente ad altre norme di rango regolamentare, in un unico testo normativo: il DPR 15 marzo 2010, n. 90. Ebbene, dopo aver esposto, in breve, le motivazioni per cui la legge di principio è stata definita "zoppa", relativamente alla disciplina della rappresentanza, si espongono le ragioni di fondo che inducono a definire il relativo regolamento di attuazione come gravato da ulteriori impedimenti, che hanno depotenziato ed anestetizzato il funzionamento degli organismi di rappresentanza militare. Nel passaggio dalla legge di principio al relativo regolamento di attuazione, l'attività delle rappresentanze militari è stata delimitata, enfatizzando piuttosto il suo ruolo di "fonte di responsabilità disciplinari". Basti pensare che i punti da 45 a 55 dell'allegato C al Regolamento di Disciplina Militare elencano minuziosamente, con una precisione quasi maniacale, i comportamenti che, se posti in essere dal delegato, danno luogo all’irrogazione della consegna di rigore (sanzione assimilabile agli arresti domiciliari, impartita da una commissione priva del requisito di terzietà, in assenza di un difensore abilitato). A ciò si aggiunga che detta sanzione ha conseguenze devastanti per la carriera del militare. Da un esame complessivo del R.A.R.M. emerge come sia stata sostanzialmente posta in ombra la valenza partecipativa della rappresentanza e la irriducibilità della figura del delegato; circostanza che incide sul clima di partecipazione e collaborazione che avrebbe dovuto informare le riunioni. Innanzitutto, le riunioni dei consigli di rappresentanza "hanno luogo nelle ore di servizio e sono a tutti gli effetti attività di servizio". La norma pone dubbi interpretativi, non essendo chiaro se, nella contemporanea sussistenza di altri servizi, sia possibile inibire al delegato la possibilità di partecipare alle riunioni. Si consideri, inoltre, che non si può essere eletti se si è riportata, negli ultimi quattro anni, una o più punizioni di consegna di rigore. L'incidenza della disciplina sullo svolgimento dell’attività di rappresentanza non si esaurisce nella fase precedente l'elezione, ma investe anche la fase successiva. Si faccia riferimento alla previsione secondo la quale i delegati possono essere destituiti anticipatamente dal mandato per aver riportato nel corso dello stesso due consegne di rigore per violazione delle norme sulla rappresentanza militare. Pur non negando la necessità di prevedere delle specifiche sanzioni disciplinari per i delegati, a causa della particolarità del ruolo che ricoprono, si deve osservare come le norme predette, attualmente, non siano poste con funzione di controllo e di indirizzo dell’attività dei delegati e a tutela dei rappresentati, ma allo scopo di restringere l'autonomia degli organismi stessi. Queste ultime considerazioni assumono maggiore rilievo se solo si considera che la sanzione della consegna è disciplinata anch'essa da un regolamento e non da una legge. Tale circostanza induce a nutrire notevoli perplessità di ordine costituzionale, perché non è conforme alla necessità di garantire il libero esercizio delle funzioni di rappresentanza previsto nella legge di principio e il cui contenuto è stato poi ulteriormente ristretto nella disciplina introdotta dal regolamento attuativo. Questo esercizio, costituendo un diritto sancito in una norma di legge (formale e sostanziale), non può essere disatteso da una disposizione prevista in un atto normativo che è legge solo in senso sostanziale. Sempre sotto il profilo della disciplina, occorre evidenziare la circostanza secondo la quale nessun tipo di sanzione è prevista a tutela della garanzia dell'attività dei delegati. L’art. 1479 (già art. 20 della legge 382/78), infatti, vieta comportamenti assunti ex ante, a scopo intimidatorio, “diretti a condizionare o limitare l’esercizio del mandato”, ma non reprime atti e comportamenti punitivi esercitati ex post, ossia quale ritorsione della gerarchia nei confronti dei delegati. In altri termini, sembra mancare del tutto un mezzo di difesa giudiziale dell’organismo in quanto portatore di interessi collettivi, in analogia a quanto previsto dall’art. 28 dello Statuto dei lavoratori Non è prevista, per esempio, una specifica sanzione per la violazione del dovere di concordare con gli organi rappresentativi di appartenenza il trasferimento ad altra sede di delegati, quando vi possa essere pregiudizio per 1'esercizio del mandato (dovere specificatamente previsto dall’art. 1480 del Codice dell’Ordinamento Militare). Ad onor del vero, il punto n. 50 dell'allegato C, al Regolamento di Disciplina Militare, prevede tra le infrazioni punibili con la consegna di rigore, "gli atti diretti a condizionare l'esercizio del mandato dei componenti degli organi di rappresentanza militare"; tale formula, però, è di difficile applicazione a causa della sua eccessiva genericità e andrebbe meglio specificata. A proposito della gerarchizzazione degli organismi di rappresentanza, si consideri quanto segue: 1. con riferimento alle riunioni, rileva art. 884, II comma, DPR 15 marzo 2010, n. 90, (già l'art. 14, I comma, DPR 691/1979) a mente del quale il presidente non è scelto con criterio di tipo collegiale bensì gerarchico, poiché deve essere "il delegato più elevato in grado o, a parità di grado, più anziano presente alle riunioni"; 2. le delibere vengono adottate dai delegati presenti e, a parità di voti, prevale il voto del presidente; 3. al presidente è attribuito il potere disciplinare di richiamo e di censura, nonché quello di allontanamento dalla riunione del militare colpevole di aver turbato l'ordine o di non aver osservato le norme sui limiti e le facoltà del proprio mandato; 4. il regolamento, con una norma che ha il tenore di clausola generale, prevede come l'inosservanza delle norme della legge di principio e delle altre disposizioni disciplinanti l'attività dei delegati contenute nei R.A.R.M., è considerata a tutti gli effetti grave mancanza disciplinare e pertanto punibile con la sanzione della consegna semplice. Non vi è chi non veda come tale tipo di punizione è posta in violazione del principio di legalità delle sanzioni disciplinari, con un'interpretazione arbitraria del contenuto della legge di principio sulla disciplina militare. Mi spiego. Se è vero che esiste un diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero per il militare rappresentato, tale diritto andrebbe, a fortiori, riconosciuto al militare rappresentante, con le uniche limitazioni previste dalla legge di principio, cioè argomenti a carattere riservato di interesse militare o di servizio. In effetti, al militare rappresentante è concessa tale possibilità ma solo dietro autorizzazione dell'autorità gerarchica competente. In tale modo la libertà che sembra riconosciuta al militare prima della sua elezione, finisce, inesorabilmente, per comprimersi quando costui viene eletto membro della rappresentanza. L'assoggettamento ad autorizzazione sembra proprio eccessiva e rappresenta un’ulteriore chiara restrizione alla libertà di manifestazione del pensiero. Tale restrizione presta il fianco a dubbi e perplessità sotto il profilo della sua legittimità costituzionale. Tutto quanto sopra brevemente visto, fa capire come i singoli rappresentanti siano costretti ad agire, in modo eroico, in un campo irto di insidie, quasi come fosse un percorso di guerra; essi, pertanto, non devono essere biasimati, ma vanno sostenuti e aiutati dai colleghi della base (almeno fino a quando non chiedono di essere prorogati e poi ri-prorogati!). Giunti a questo punto, non si può certo sostenere che gli organismi di rappresentanza siano immuni dai condizionamenti derivanti dalla gerarchia. A tal proposito si consideri il comunicato stampa emesso in data 02/09/11 da un delegato del COCER Carabinieri, Fornicola Michele, il quale ha affermato: “Nel Consiglio Centrale di Rappresentanza c’è un problema di democrazia: non è possibile che un comunicato stampa che dovrebbe avere un contenuto condiviso sia invece redatto unilateralmente, senza che la maggioranza dei delegati ne sappia nulla”. Ha precisato il delegato del COCER: “Quanto accade in occasione della divulgazione dei comunicati stampa del Consiglio è contrario alle regole interne degli organismi della rappresentanza militare”.
Tutto questo
accade, sostiene sempre il militare, senza tener
conto “di quanto previsto dall’articolo 902
del DPR 15 marzo 2010, n. 90, il potere
decisionale del COCER non sempre appartiene
all'Assemblea, ovvero alla maggioranza dei
propri delegati riuniti. Il 90 per cento
dei comunicati stampa del COCE non sono stati
condivisi dall’assemblea”. 4. Conclusioni E’ evidente che la rappresentanza militare, così come concepita dall’attuale normativa, appare oggi uno strumento obsoleto e drasticamente inutile a rappresentare le istanze della base, per cui un’intera categoria di pubblici dipendenti, in possesso di sconfinati poteri e strumenti investigativi, continua a rimanere in una situazione di assoluta separatezza. Ci si chiede quale sia il motivo per il quale il legislatore italiano sia da sempre contrario a riconoscere ai cittadini militari il diritto di costituire associazioni professionali a carattere sindacale o di aderire a quelle esistenti. Ebbene, la diffidenza del legislatore ha una radice “biforcuta”. a) Il mancato riconoscimento delle libertà sindacali sarebbe giustificato dalla preoccupazione secondo la quale un eventuale sindacato armato si porrebbe in conflitto con lo Stato ("datore di lavoro"). A proposito della "conflittualità" degli interessi coinvolti in eventuali "rivendicazioni" sindacali, va osservato come una tale preoccupazione sia infondata in quanto lo Stato, in persona dei propri organi (funzionari ecc), non tende alla massimizzazione di un determinato e personale profitto, bensì ad organizzare i pubblici uffici in modo tale da garantire il buon andamento ed il raggiungimento di un'utilità comune. Ritengo che i suggerimenti e le istanze provenienti dalla base potrebbero rappresentare un utile contributo al miglioramento dell'efficienza della macchina amministrativa della difesa. A tal proposito, si consideri, che le Forze armate e, soprattutto, la polizia giudiziaria e tributaria militare hanno acquisito una notevole professionalità. Non sono infrequenti i casi in cui singoli settori dell'amministrazione della difesa (es. Carabinieri, Esercito, Guardia di Finanza, ecc.) avanzano proposte, volte a rendere più efficiente e produttivo il loro operato, che sono destinate a restare lettera morta perché chi le propone non ha gli strumenti per portarle all'attenzione della collettività. Si consideri, inoltre, che non è il riconoscimento del diritto di libertà sindacale, in quanto tale, a mettere in pericolo lo svolgimento del ruolo tipico delle Forze armate, ma solo certe ed eventuali modalità del suo esercizio. E’ giusto il caso di far rilevare come forme illegittime di esercizio del diritto di libertà sindacale sarebbero sicuramente represse con l'applicazione del Regolamento di Disciplina Militare, oppure con il Codice Penale Militare di Pace oppure con il Codice Penale. b) La seconda motivazione posta a fondamento del divieto risiede nella preoccupazione secondo la quale l'esercizio della libertà sindacale esporrebbe le Forze armate e di polizia militarmente organizzate al rischio di strumentalizzazione e politicizzazione e ciò potrebbe mettere in pericolo l’assolvimento dei compiti istituzionali. Tali timori, però, risultano pretestuosi e privi di qualsiasi fondamento. Il mancato riconoscimento dei diritti sindacali non contribuisce in alcun modo a scongiurare o allontanare il rischio di strumentalizzazione e politicizzazione. Le stesse preoccupazioni, infatti, potrebbero nutrirsi anche nei confronti degli esponenti più alti della gerarchia, proprio perché questi si trovano più a stretto contatto con i vertici dell'esecutivo. Qualora ciò si verificasse, si correrebbe un pericolo ben più grave per la sicurezza della democrazia. La base, infatti, per quanto mossa da nobili intenti, sarebbe destinata ad un'obbedienza incondizionata, a causa di alcune altre circostanze: grado di istruzione inferiore rispetto alla gerarchia, sicurezza di uno stipendio e timore di perderlo, assenza di organi non indipendenti dalla gerarchia che rappresentino e difendano le sue legittime istanze e, infine, cosa ben più grave, la mancanza del principio di legalità e di tassatività dell’illecito alla base delle sanzioni disciplinari di Corpo (per un approfondimento sul punto, vedi “Il paradosso di un’Europa più attenta alle dimensioni dei cetrioli che non ai diritti soggettivi dei cittadini militari”, pubblicazione online). |