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Roma, 2 apr 2012 - Lo snellimento previsto in 10 anni. Presto il via al provvedimento. Il ministro Di Paola punta a una riduzione del 20% dei militari. Il nostro Paese spende per la Difesa lo 0,83% del Pil. Condividi


di Marco Ferrante

Il Comune avrebbe dovuto vendere questi beni o destinarli ad attività sociali. In realtà, però, a Santa Teresa i militari ci sono ancora. Un pugno di uomini. «Una decina?», chiede il cronista al carabiniere di servizio a cui ha chiesto di annunciarlo al capo dell’ente, che però non lo riceve. «Qualcuno in più», dice il carabiniere. Qualche uomo più di dieci, per una «Commissione di avanzamento dei sottufficiali». Ci sono un paio di macchine nel parcheggio e tre o quattro scooter. È mattina, cielo coperto, qualche luce è accesa al piano più alto. Alla domanda vaga se il posto sia in vendita, il carabiniere suggerisce di rivolgersi allo Stato maggiore esercito, IV reparto infrastrutture, ufficio logistico, «ma non ho il numero del centralino, ci vada di persona».

Il pavimento è ombrato di umido, l’ufficetto spoglio, un divano di velluto verde logoro, tutto dà un’idea di provvisorietà e disarmo. Santa Teresa è solo un piccolo angolo di una struttura gigantesca, ma questo pezzo dello Stato è in crisi identitaria, più di altri settori. Modello di difesa da aggiornare, squilibri nella distribuzione del personale e nelle retribuzioni, benefit da rivedere, piccoli e grandi privilegi che dividono gli uomini e che generano frustrazioni; mentalità e generazioni che si confrontano, compreso il modo di interpretare la dimensione sociale del soldato.

Spiega Andrea Nativi, direttore della Rivista italiana di difesa: «Siamo anche alle prese con travaglio culturale. La Difesa è in una trasformazione profonda in cui si incrocia il vecchio maresciallo, cresciuto nel mondo delle mense e dei Car, e i giovani, quelli che entrano nell’Esercito come volontari, che sanno già che saranno mandati in missione in Afghanistan o da qualche altra parte e che mettono già nel conto che gli spareranno addosso. Sono due mentalità in frizione, e sono anche due polarità. In mezzo c’è un inevitabile spaesamento».

Tutto ciò deve fare i conti con la crisi economica e con le esigenze di contenimento della spesa pubblica. C’è un progetto di dimagrimento delle Forze Armate che è nei programmi del ministro tecnico, l’ammiraglio Di Paola, il quale lo ha illustrato in una audizione in Parlamento il 15 febbraio. Nelle prossime settimane questo progetto prenderà forma in un provvedimento.


Di Paola pensa che partendo dagli attuali 183.000 militari e 30.000 civili bisognerebbe puntare a una riduzione progressiva di 43.000 unità (il 20 per cento in meno), per arrivare a 153.000 militari e 20.000 civili. In quanto tempo? Il ministro ha parlato di dieci anni, ma negli uffici della Difesa c’è chi pensa che senza una sterzata robusta dieci anni saranno un tempo insufficiente. Solo con un intervento sul personale si può riequilibrare un bilancio dimagrito del 16 per cento negli ultimi dieci anni.

Ma com’è fatto il bilancio della Difesa? Quest’anno sarà di 19,9 mld (1,22% del pil). In questa cifra totale sono compresi anche i costi dell’arma dei Carabinieri (intorno ai 6 mld), poi l’accantonamento per la pensione anticipata dei militari (la cosiddetta ausiliaria), e altre spese minori. La spesa destinata in senso tecnico alla cosiddetta funzione difesa è di 13,5 mld, cioè lo 0,83% del Pil. Per fare un confronto con i principali Paesi europei, la Gran Bretagna è al 2,1, la Francia all’1,5 e la Germania all’1,22%.

La parte più cospicua della spesa è quella per il personale, 183.000 persone, 9,5 miliardi circa. Poi ci sono le spese di investimento, molto basse rispetto alla media internazionale, solo il 18 per cento, pari a 2,5 miliardi e infine i costi di esercizio, cioè la spesa per fare andare avanti la macchina, 1,5 miliardi. In questa spesa c’è il mantenimento di un’enorme struttura amministrativa e poi altre voci tra cui la principale è quella delle missioni internazionali.

Le spese per le missioni internazionali quest’anno ammonteranno a 700 milioni, per 7400 unità impiegate (l’anno scorso erano 8300). Le due missioni più importanti sono i 4200 uomini in Afghanistan fondamentali nel rapporto con gli Stati Uniti, e i 1550 in Libano – «operazione chiave nel rapporto con Israele», scrive la Rivista italiana difesa in un focus sul bilancio della Difesa pubblicato nel numero di gennaio della rivista, che spiega come l’unico modo per rimettere ordine nello squilibrio delle spese è intervenire sul personale, che mangiano le spese per gli investimenti e che minano l’efficienza della macchina.

Dice Michele Nones, direttore area difesa e sicurezza dello Iai, l’influente Istituto affari internazionali, che «non si possono avere Forze armate con questi costi e queste dimensioni a fronte di spese militari che sono ormai scese stabilmente sotto l'1% del Pil».

Che cosa bisognerebbe fare? Anche la tesi di Nones è che la strada individuata da Di Paola potrebbe funzionare. Vediamo perché. Oggi il nostro modello di Difesa deve essere in grado di assolvere sostanzialmente due funzioni. Mantenere gli obblighi internazionali dell’Italia, garantire uno standard di sicurezza minima sul territorio anche in un quadro in cui con la fine della guerra fredda non c’è il pericolo di carri armati nemici alla frontiera slovena.

Spiega Nones: «Per avere 10.000 uomini in missione dobbiamo averne circa 40.000 operativi che possano ruotare sulle turnazioni. Altri 40.000 devono essere disponibili sul territorio nazionale. Per la gestione della macchina basterebbero altri 60.000 uomini. Dunque con 140.000 uomini in organico potremmo avere 40.000 uomini proiettabili e 40.000 mobilitabili. Se avessimo questi uomini con la spesa attuale avremmo un sistema di difesa economicamente sostenibile ed efficiente. Dunque dobbiamo rinunciare a circa 50.000 persone».

In teoria se si potessero licenziare 50.000 persone il bilancio della Difesa sarebbe alleggerito di 2,5 miliardi di costi. Ma ovviamente non è così, non si possono licenziare 50.000 persone. Spiega Edmondo Cirielli, presidente della Commissione Difesa della Camera che «un programma di riequilibro del personale necessita di dieci anni di tempo. Il ministro vuole una riduzione di 40.000 unità che sarà graduale. Bisogna rimettere ordine nel personale,  


diminuendo il numero dei marescialli, bisognerà spostare una parte dei dipendenti ad altre amministrazioni (anche se questo sarà un risparmio per la Difesa e non per il bilancio dello Stato). Ovviamente lo spostamento in altre amministrazioni deve essere su base volontaria. Ma la mossa chiave sarà un’altra. L’istituto della riduzione quadri».

Che cos’è? «Nella gestione del personale militare era una forma di congelamento della carriera di quei quadri che non avendo più davanti a sé possibilità di avanzamento, di carriera, venivano messi a disposizione, senza incarichi, senza lavorare in pratica, con uno stipendio del 95%». In sostanza si tratterebbe di una forma di scivolo verso il pensionamento. Fonte: http://www.ilmessaggero.it

Domenica 01 Aprile 2012 - 10:56    Ultimo aggiornamento: 18:32
 

 

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