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DIFESA, SE LA RIVOLUZIONE È “NELL’AVANZAMENTO DEL PERSONALE”


 

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Roma, 15 feb. 2012 - La crisi “morde” anche le forze armate. A distanza di dodici anni dall’adozione del modello a 190 mila uomini, la Difesa si doterà di un nuovo modello. “Meno generali, meno ammiragli – ha sintetizzato il ministro Giampaolo Di Paola al termine del Cdm -, più operatività e tecnologia”. La riforma, che prevede 150 mila effettivi, andrà a regime nel 2032. “La vera rivoluzione – ha detto al VELINO Germano Dottori, docente all’interno della cattedra di Studi strategici alla Luiss Guido Carli e membro della Società italiana di storia militare (Sism) - dovrebbe essere il cambiamento dell’avanzamento di carriera fra i militari, abbandonando il modello ‘normalizzato’ che prevede la promozione automatica dopo un certo numero di anni passati in un grado”. L’obiettivo della riforma è quello di avere uno strumento più “giovane” ed equilibrato nel rapporto fra i diversi ruoli: 18 mila ufficiali, 25 mila marescialli (al momento ce ne sono circa 30 mila in più: si parla di mobilità ad altre amministrazioni o di assorbimenti nell’industria della Difesa), 22 mila sergenti, 56 mila militari di truppa in servizio permanente e 24 mila in ferma breve. Per l’esponente della Sism, l’avanzamento di carriera è un nodo fondamentale per le ripercussioni future: “Se si accetta il modello di difesa anglosassone con forze armate su base volontaria – ha osservato -, bisogna accettarne tutte le conseguenze”. A partire dal fatto che la carriera nel mondo militare “non prevede una vita comoda, stare seduti dietro una scrivania”.

E, soprattutto - come succede in America o in Inghilterra –, i giovani che entrano nelle Forze armate rimangono, de facto, sempre 'precari'. Sono sottoposti a severi standard di valutazione (anche psico-fisici) ogni anno, e il non superarli significa essere congedati d’autorità. Per molti di loro, quindi, il mondo militare è il primo gradino di una carriera lavorativa da spendere anche in altri settori o un modo per accumulare soldi ed expertise prima di lanciarsi in una propria attività. In molti casi, negli Stati Uniti, sono previste agevolazioni e borse di studio per gli ex soldati. Insomma, il continuo ricambio di personale permette di avere uno strumento militare mediamente più flessibile e più giovane. C’è un corollario “meritocratico” a queste asperità e alla spada di Damocle del congedo d’autorità: “Nel sistema americano – ha ricordato Dottori – può diventare generale a quattro stelle sia il cadetto di Accademia sia il volontario che si arruola a 18 anni in fanteria”. In Italia, in pratica, è impossibile. Un ufficiale proveniente dall’Accademia avrà sempre un certo vantaggio sul parigrado proveniente dai cosiddetti “ruoli speciali”. Un sistema simile a quello americano, ha sottolineato il docente, permetterebbe di “reclutare giovani più ambiziosi, aumentando anche la remunerazione e il prestigio”.

Allo stesso tempo, si manderebbero via “i meno motivati e chi vuole una vita comoda”. Secondo il socio della Sism, poi, quando si discute del modello di Difesa, “il rischio è che tutto il dibattito possa finire sulla storia dell’aereo F35”, che è “parte del problema, ma non è il problema”. Il docente della Luiss ha anche parlato dell’integrazione delle forze armate nell’ambito della

Politica di sicurezza e difesa comune, come emerso dal Consiglio supremo di Difesa dell’8 febbraio: “È – ha spiegato Dottori - un’assurdità. Non è mai stata fatta negli anni ’50, con le truppe del Patto di Varsavia schierate ai confini della cortina di ferro, figuriamoci adesso in una fase di nazionalismi. È completamente irrealistico pensare che un contribuente italiano possa dare il suo appoggio nella difesa delle Falkland, come anche per operazioni francesi in Africa”. Quindi la provocazione: “L’integrazione italiana nelle forze armate europee dovrebbe comportare anche un’altra conseguenza, cioè si dovrebbe ‘europeizzare’ il deterrente nucleare inglese e francese. Siamo sicuri – ha concluso - che lo vorranno fare, dal momento che entrambi sono 'gelosi' di questa loro ‘esclusiva’?”.

Secondo Alessandro Marrone, ricercatore dell’area Sicurezza e difesa dell’Istituto affari internazionali (Iai) quella dell’ammiraglio Di Paola è “una riforma strutturale per rendere più efficiente e più adeguato lo strumento militare”, ma non è paragonabile alla “rivoluzione segnata dalla fine della leva”. “Secondo l’attuale modello – ha sottolineato al VELINO – l’Italia dovrebbe avere 12 mila uomini proiettabili all’estero. Allo stato attuale, non siamo in grado di spiegarne più di 7.500”. Marrone ha sottolineato che le risorse di bilancio per la Difesa non saranno aumentate, “non si può tagliare sugli investimenti” e quindi “la scelta obbligata è il personale”. Un modello ottimale di gestione, ha spiegato, prevede la divisione delle risorse secondo questo schema: “Un quarto agli investimenti, un quarto all’esercizio, metà al personale”. Attualmente la quota di bilancio assorbita dal costo del personale è pari al 65 per cento. Il ricercatore dello Iai ha sottolineato l’importanza dell’addestramento, che deve essere “costante”: “Le recenti esperienze in Afghanistan – ha osservato – hanno richiesto un continuo aggiornamento sulle tattiche e sulle dottrine per i combattimenti urbani e la controguerriglia”. Se non si investe nell’addestramento, ha ammonito, “le truppe esistono solo sulla carta”. Dopo aver invitato ad eliminare i “doppioni” all’interno delle forze armate, Marrone ha citato le parole di un alto ufficiale come esempio del superamento della difesa territoriale, il cui impianto logistico resiste ancora oggi: “L’esercito – ha detto - ha bisogno di 15 basi con all’interno 4-5 mila uomini, non c’è più bisogno di 500 caserme”.   (ilVelino/AGV) Fonte: www.ilvelino.it/

   

 

 

 

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