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<<Crisi
e privacy violata, il calvario dei sieropositivi sul lavoro.
"Temporaneamente non idoneo". Bastano tre parole per uccidere un
sogno. Andrea (nome di fantasia) ha 30 anni e una carriera da
infermiere militare su cui ha investito una vita: ore passate sui
libri e la 'trincea' in Sicilia, due anni a soccorrere i profughi
che sbarcano sulle coste. Il suo mestiere? Una certezza, prima
dell'Hiv>> |
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Roma, 30 ott. - "Temporaneamente non idoneo".
Bastano tre parole per uccidere un sogno. Andrea
(nome di fantasia) ha 30 anni e una carriera da
infermiere militare su cui ha investito una
vita: ore passate sui libri e la 'trincea' in
Sicilia, due anni a soccorrere i profughi che
sbarcano sulle coste. |
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Il suo mestiere? Una certezza, prima
dell'Hiv. Voleva donare il sangue e si ritrova
con un foglio bianco in mano. C'è scritto
'sieropositivo' e il suo incubo inizia da qui,
da una diagnosi che fa paura. Per tenersi
stretto il lavoro Andrea ha dovuto lottare, a
colpi di segnalazioni al Garante della privacy e
diffide, ha sfidato gli alti gradi dell'esercito
italiano, sopportato umiliazioni e porte
sbattute in faccia. Una piccola guerra durata
quasi un anno, con conseguenze inaspettate.
E' grazie a lui che un regolamento del
ministero della Difesa (Smm/Is150Ueu), in
contrasto con la legge sulla privacy e con
quella che tutela i diritti dei sieropositivi
(135/1990), verrà cambiato. Ma non basta: le vie
della discriminazione sono tante. Troppe. E come
Andrea altri sieropositivi si sono scontrati con
le dinamiche crudeli del mondo del lavoro. I
casi più frequenti? Giovani precari che non si
vedono rinnovare il contratto, dopo che la loro
patologia è diventata di dominio pubblico. Ma
anche donne e uomini sulla soglia dei 50 anni
'mobbizzati' e poi licenziati con un pretesto,
dipendenti emarginati o ricollocati, persone che
solo tenendo nascosto l'Hiv possono lavorare.
L'era della flessibilità e la crisi hanno
peggiorato le cose. "I più colpiti dalle
ristrutturazioni aziendali sono sempre i più
deboli. E i sieropositivi sono fra questi",
spiega all'ADNKRONOS SALUTE Salvatore Marra,
responsabile dell'Ufficio Nuovi diritti attivo
nella Cgil di Roma e Lazio. "Solo qui ogni mese
arrivano una quindicina di segnalazioni, in un
anno si sfiora quota 200". Ma molti di meno sono
i sieropositivi che vanno fino in tribunale per
difendere i propri diritti. I più abbandonano
prima, per paura di esporsi troppo. "Ancora oggi
la sieropositività è una 'macchia' da
nascondere. E i contenziosi che finiscono in
aula sono solo la punta dell'iceberg", osserva
Matteo Schwarz, avvocato romano che offre
consulenza legale alle persone con Hiv,
attraverso la onlus Nps (Network persone
sieropositive) Italia.
Il primo problema è difendersi dagli
attacchi alla privacy, non essere costretti a
svelare a tutti i costi la propria patologia. In
molte aziende non si rispetta nemmeno l'obbligo
di separare i dati identificativi della persona
(nome, cognome, data di nascita) da quelli
sensibili (sullo stato di salute per esempio).
"E a poco servono i codici per 'criptare' le
patologie, basta andare su Internet per
decifrarli", sottolinea Schwarz. "Se entri nella
lista delle categorie protette, tutti - dai
titolari delle aziende ai responsabili delle
agenzie interinali - ti chiedono con insistenza
da quale malattia dipende la tua invalidità. Se
non rispondi ti guardano con sospetto.
Eppure la legge che tutela i diritti dei
sieropositivi e punta a prevenire la
discriminazione anche sul posto di lavoro risale
al 1990". A raccontarlo è Lara (nome di
fantasia), donna minuta sui 40 anni,
sieropositiva da 20, convinta che sia meglio
"uscire allo scoperto, non aver paura". Ma poi
anche lei chiede di restare anonima. Diversi
mestieri alle spalle, oggi lavora con
l'Associazione solidarietà Aids (Asa) e aiuta i
sieropositivi a formarsi e a trovare un impiego,
è sposata con un uomo sieronegativo e sogna un
figlio. "Oggi ci si nasconde forse anche più di
ieri. Qualcuno arriva persino a dire che ha
l'epatite C, che è più contagiosa dell'Hiv".
La legge 135/90, fra le altre cose,
prevede la non obbligatorietà dei test dell'Hiv
e l'anonimato per chi vi si sottopone.
Prescrizioni che sono rimaste lettera morta nel
caso di Andrea. "L'Hiv spiazza: anche gli stessi
camici bianchi - racconta - spesso non sono
preparati per affrontare la situazione, ignorano
le leggi e le informazioni scientifiche sul
contagio". Andrea è rimasto a casa per 7 mesi,
con lo stipendio decurtato. Mesi in cui una
commissione medico-legale, seguendo un
regolamento interno, ha continuato ad abbinare
nei verbali la diagnosi al suo nome e cognome.
"Le carte con i miei dati sensibili intanto
passavano di mano in mano, arrivando persino
sulle scrivanie del mio comando e all'ufficio
del personale militare a Roma. C'è stato chi mi
ha chiesto dei miei orientamenti sessuali senza
pensare che l'Hiv potrei averlo contratto in
servizio, sono stato definito un 'pericolo per
la collettività', perché 'anche per mezzo di
asciugamani e bagni pubblici' potevo trasmettere
il virus".
Parole pesanti come macigni. Poi
finalmente il Garante comincia a muoversi. E la
situazione si sblocca: Andrea ritorna alla sua
attività di infermiere e, con un provvedimento
emanato in questi giorni, il ministero della
Difesa viene inibito a trattare ulteriormente i
suoi dati sensibili e dovrà adeguare i propri
regolamenti e i modelli di verbale alla legge.
"La prossima battaglia sarà sui concorsi",
avverte Andrea. "Il ministero della Difesa, per
reazione, ha infatti introdotto il requisito del
test dell'Hiv", ma i 'controlli a tappeto' sono
vietati dalla legge. E su questo punto Nps ha
già chiesto un chiarimento al ministro Ignazio
La Russa. "Lo stigma sociale nei confronti dei
sieropositivi resiste ancora oggi e interessa
molte persone", continua Schwarz. Ogni anno si
infettano circa 4 mila italiani, secondo le
stime dell'Istituto superiore di sanità.
Ed è difficile uscire allo scoperto. C'è
chi per difendere il lavoro ha deciso di essere
cauto. Come Sara (nome di fantasia), 47 anni,
che in una città del Nord Italia si divide fra
il suo lavoro da impiegata e quello di
insegnante di danza. Nessuno dei suoi allievi sa
che è sieropositiva. "Troppa paura", spiega.
"Persino io ci ho messo 10 anni, passati in
parte sul lettino di uno psicologo, per
convincermi che potevo insegnare danza".
Sara convive con l'Hiv da 22 anni. La
diagnosi è arrivata come un fulmine a ciel
sereno quando ne aveva 25 ed era una ragazza "da
primo bacio a 18 anni". Tutta sport, lavoro e
oratorio. Era il 1986 e di Aids non si sentiva
parlare se non come la malattia degli
omosessuali americani. Lei, contagiata dal suo
fidanzato di allora, ha continuato a lavorare e,
senza dirlo ai genitori, ha affrontato da sola i
medici che le dicevano: "Morirai". Poi la svolta
delle terapie antiretrovirali. "Ho cominciato a
star meglio, a fare progetti". La danza l'ha
aiutata a recuperare energia e vitalità, a
ritrovare il contatto con le persone. "La mia è
una storia positiva - conclude - Ma la
discriminazione sul lavoro continua a esistere,
e colpisce tutti i malati, non solo i
sieropositivi che nella maggior parte dei casi
stanno bene e sono in grado di mantenere ritmi
di lavoro normali, se si escludono qualche
periodo di stanchezza, le influenze sempre
dietro l'angolo e gli appuntamenti con i
controlli ogni 1-2 mesi". (Adnkronos Salute)
Fonte:
www.adnkronos.com
Sideweb, 30 ottobre 2009
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