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Quale futuro per il caccia F-35? Per il Gen. Tricarico: "Il JSF non è un lusso, ma una necessità per operare in coalizione"

 

 

Gen. Tricarico: "Il JSF non è un lusso, ma una necessità per operare in coalizione". Condividi

di Leonardo Tricarico *


Roma, 9 gen. 2012 - Nel dibattito sul caccia F-35 Joint Strike Fighter politici e giornalisti sono scivolati su temi militari con i quali hanno poca dimistichezza. Ciò ha fatto dilagare tesi fondate su superficialità e pregiudizio, facendo apparire uno dei pilastri della difesa italiana nel XXI secolo come un lusso o un costoso sfizio. Niente di più sbagliato.

Per il ruolo che allora rivestivo ricordo bene come nel 1999, quando si trattò di partecipare alla coalizione contro Milosevic, dovemmo imporci per far accettare i nostri F-104 agli alleati che, molto semplicemente, non li ritenevano all’altezza. L’episodio suggerisce che una valutazione più equilibrata avrebbe sentito anche le voci di quanti sono chiamati a garantire la sicurezza del territorio e degli interessi nazionali nei delicatissimi contesti in cui viviamo. Ne sarebbero scaturiti elementi che in troppi fingono di ignorare.

Il primo, come ha chiarito in questi giorni lo stesso presidente Obama, è che ormai neppure gli USA vogliono o ritengono politicamente opportuno andare da soli; il secondo è che il nostro eventuale abbandono del JSF toglierebbe miliardi di lavoro a una settantina di aziende italiane, dai giganti a molte PMI, il tutto con presenze anche significative oltre che nel Nord Italia anche in Campania, Puglia, Lazio, Umbria, Campania e persino Sicilia.
Partiamo da qui. Nei piani di partecipazione industriale al programma F-35 sono oggi inserite 40 ditte nazionali, di cui 17 grandi, 15 PMI ed 8 di Finmeccanica e Fincantieri. Altre 32, prevalentemente PMI, sono coinvolte in attività conoscitive o gare legate al progetto. Quando si parla

  dell’impegno finanziario, si lanciano cifre omettendo di dire che riguardano un arco molto lungo e che rientrano nei bilanci ordinari. Ma soprattutto si omettono i ritorni già realizzati (circa 539 milioni di dollari) e quelli previsti.
Ebbene, la valutazione prudenziale sottoscritta formalmente dagli statunitensi indica le opportunità per l’industria italiana in poco più di 13 mld di dollari nell’arco di

programma, senza contare il salto di qualità tecnologica, e quindi di competitività futura. Un vantaggio immateriale ma non meno importante per l’industria italiana. C’è da chiedersi se gli improvvisati esperti sappiano questo e, se lo sanno, come pensino di rispondere a chi li ha eletti anche per proteggere il mondo del lavoro ed i livelli occupazionali. È fin troppo facile scoprire che ogni altra soluzione (compresa quella dell’Eurofighter) sarebbe più costosa e meno vantaggiosa sotto il profilo del ritorno industriale complessivo così come di capacità operativa.

Nei mesi scorsi gli Harrier della Marina, i Tornado e gli AMX dell’Aeronautica Militare hanno dato un contributo importante all’intervento delle Nazioni Unite in Libia. Sulla loro utilità meglio di noi potrebbero argomentare i cittadini di Bengasi o Tripoli, consapevoli più degli improvvisati commentatori militari di casa nostra della capacità determinante del potere aereo. Ebbene, tra breve questi aerei saranno nella stessa situazione degli F-104 ai tempi del Kossovo, non fosse altro che per termine vita operativa.

Senza un aereo tattico credibile, domani potremmo essere costretti a chiamarci fuori se un altro dittatore dovesse massacrare il proprio popolo. Perché, sia chiaro, negli ultimi 20 anni abbiamo imparato che gli impegni militari si affrontano solo in coalizione, ma anche che all’appuntamento ci si deve presentare con mezzi che garantiscano standard minimi di interoperabilità. Siamo sicuri che l’Italia voglia lasciare il contesto internazionale per rimanere agganciata al quale tanti sacrifici ha fatto?
La critica montante all’F-35 sembra però mirata a recidere definitivamente gli artigli alle nostre Forze Armate, rendendole di fatto disarmate. Se così fosse, la questione andrebbe affrontata da una prospettiva più profonda e - mi si consenta - più seria.

Rimettere in discussione i compiti delle Forze Armate non è argomento da affrontare in subordine alla scelta di un sistema d’arma. Semmai è vero il contrario: prima decidiamo cosa l’Italia vuole dal suo strumento militare, poi individuiamo i mezzi necessari. È la solita equazione la cui soluzione cui nessuno, da troppi anni, vuole dare soluzione.

Un ultimo pensiero, credo non insignificante. Se finora l’Italia ha mantenuto un minimo di presentabilità internazionale, lo dobbiamo in gran parte alle nostre Forze Armate. A causa della sostanziale assenza di cultura militare, la percezione di ciò è poco diffusa. Siamo sicuri di voler gettare alle ortiche ciò che il sacrificio e l’abnegazione di molti soldati ha con tanta fatica costruito e di cui dobbiamo essere orgogliosi,

 

mantenendo invece i veri sprechi di cui dobbiamo vergognarci, soprattutto in ambito internazionale? Non è "benaltrismo" rispetto alle sfide che ci attendono: è il semplice auspicio di mettere i problemi nella giusta sequenza, operazione inevitabile di fronte a scelte importanti.

In conclusione, la discussione pressoché unilaterale sul JSF non ha messo a fuoco alcuni punti essenziali, senza i quali c’è il serio rischio di decisioni errate e forse, anzi certamente, irreversibili per lo strumento militare, la politica di sicurezza e quella estera. Anche su questo la politica è chiamata a dare una risposta. Non tanto agli elettori quanto in termini di coerenza con gli interessi dell’Italia.

* segretario amministrativo della Fondazione ICSA, già capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare (2004-2006) Dal Sito:  http://www.dedalonews.it

 

 

   

 

 

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